È street food mania, mangiare per strada è il nuovo gourmet

Altro che stellati, il vero caso di successo nel mondo della ristorazione è lo street food. Il cibo da strada batte ogni gourmet e segna dei risultati incredibili. Negli ultimi 5 anni sono raddoppiate le imprese di ristorazione ambulante ma il dato più rilevante è che sono i giovani under 35 e gli stranieri a guidare questo nuovo fenomeno.

L’ultimo rilevamento risale alla seconda metà dello scorso anno e prendeva in esame il periodo 2013-2018. In questo lasso di tempo i food truck (questo il nome dei punti vendita su ruote) è passato da 1.717 a 2.729 attuali. Di questi oltre 600 (22%) sono gestite da Millenials con una crescita, nel quinquennio, del 23,9%. La diversificazione dell’offerta è testimoniata da un altro dato che fissa al 52,1% la quota di mercato rappresentato da imprenditori stranieri. Ricercatore di street food in giro per il mondo, Maurizio Rosazza Prin, secondo classificato nella seconda edizione di MasterChef Italia e volto televisivo, riporta nel suo blog Chissenefood, ricette, idee e racconti che raccoglie nei luoghi più disparati.

Quali sono i motivi del successo dello street food che lo hanno fatto passare da cibo per i meno abbienti a proposta d’avanguardia?

Le mani, la sensazione tattile e la libertà di muoversi che ti procura il godere di un cibo senza doverti sedere in una tavola è assolutamente impagabile. Rimane la convivialità senza la geometria della tavola. Più che avanguardia è un ritorno al passato dove il cibo aveva un significato funzionale e veniva cucinato là dove doveva essere consumato. E dopo la sbornia dei menù degustazione, il trionfo della tavola con le mille portate, parallelamente è nata questa esigenza di libertà. E come ogni contro cultura ha finito per diventare la cultura dominante e non è affatto raro che venga proposto nei grandi ristoranti come un elemento in un menù di degustazione. La mia critica è che deve rimanere popolare, nei prezzi e nella proposta: ai venditori di cibo da strada vorrei dire di non farci pagare il prezzo delle vostre operazioni di marketing ma di darci qualcosa di vero, con l’anima e a un prezzo giusto. Come dovrebbe essere. E prima di pensare ai format e alle gastro operazioni di marketing pensare a far da mangiare bene, solo questo è il successo di un cibo, se è buono e giusto, preparato pensando alle persone e non ai business plan.

Per molti lo streetfood è sinonimo di cibo fatto velocemente e con poca cura, tu cosa ne pensi?

Anzi, il contrario, c’è tantissima cura. Coloro che scelgono di stare in mezzo alla strada a cucinare, scelgono di voler stare a contatto con il cliente finale e non possono più mentirgli, siamo tutti troppo attenti e notiamo tutto. Io sto vedendo grande passione da parte di chi ha scelto veramente di dedicarsi a questo stile di vita. Per noi è un fenomeno, mentre all’estero è la realtà e il motore della cultura gastronomica, pensa all’Asia, dove è normare mangiare per strada. Andare a fare file chilometriche per un piatto, in baracchini che fanno bene magari solo un piatto, ma divinamente. Un mio amico chef cinese mi racconta sempre di quando è in Cina e si sveglia alle 5 per andare al mercato al banchetto del tofu fresco, dove sanno fare solo questo con mille salse, null’altro e lo fanno da 150 anni. Pensi che in 150 anni ci abbiano messo poca cura, poco igiene nel farlo?

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Le vacanze si fanno in bici

Negli ultimi anni le vacanze attive hanno avuto un vero e proprio boom, così come la sensibilità crescente per il mondo green. La bicicletta è l’unione questi due  modi di intendere la vacanza e lo stile di vita sostenibile. Da qui nasce il cambiamento che ha portato alla crescente richiesta di mobilità dolce, e del turismo lento. «Il turismo attivo – spiega Giordano Roverato, editore di www.viagginbici.com – unito all’enogastronomia e al turismo culturale, rappresenta una importante opportunità per le nostre regioni o località.

Basta pensare che una recente indagine di Eurosport ha stimato per il turismo sportivo un valore complessivo di 800 miliardi di dollari, il 10% della spesa turistica globale. Di questi, il cicloturismo rappresenta un ruolo niente affatto marginale all’interno del più vasto fenomeno sportivo. Fonti internazionali come l’Adventure Tourism Trade Association affermano che quasi la metà delle entrate delle agenzie che si occupano di turismo d’avventura è derivato dalle vendite di viaggi in bicicletta o dai relativi servizi di viaggio». La stessa associazione stima che l’Europa, con 44 miliardi di euro di giro d’affari, sia il secondo mercato dopo gli Stati Uniti, per il turismo in bicicletta. Per tornare in Italia, malgrado la carenza di infrastrutture e servizi, le presenze cicloturistiche rilevate nel 2018 ammontano a 77,6 milioni di notti, pari all’8,4% dell’intero flusso turistico in Italia e nel quinquennio 2013-2018 le presenze dei cicloturisti in Italia sono aumentate del 41%. «Proprio per questo motivo – continua Roverato – stanno nascendo sempre più strutture anche di alto livello, come i www.luxurybikehotels.com che mettono a disposizione dei clienti servizi pensati per i bikers. Depositi per le bici, attrezzatura per le piccole riparazioni e così via. Il cicloturista è un turista che si vuole “godere” il meglio della vacanza attiva e quindi ricerca il buon cibo, il buon vino e dopo una giornata in bicicletta, non disdegna una Spa in cui ritemprarsi». Sono sempre di più le agenzie specializzate che si occupano di tutto quello che può rendere faticosa o problematica una vacanza in bici. 

Trasporto bagagli da un hotel all’altro, guida che accompagna il ciclista, furgone per eventuali problemi meccanici, massaggiatore e chef. Sono solo alcuni dei servizi che vengono messi a disposizione da queste organizzazioni pensate per coccolare il turista. I prezzi possono andare da poche centinaia di euro a diverse decine di migliaia per una vacanza di una settimana. A sfatare ulteriormente l’idea del ciclista uguale turista povero bisogna segnalare che le agenzie che propongono pacchetti superlusso, portando in Italia americani, inglesi, australiani e asiatici, hanno difficoltà ad accontentare la richiesta, per mancanza di strutture e servizi adeguati.«Esistono due grandi tipo di turista in bicicletta – distingue Roverato – il “cicloturista” in senso stretto, ossia quello che utilizza la bici come un vero e proprio mezzo per gli spostamenti e per vivere la vacanza green a tutto tondo. Poi c’è il “turista ciclista”, cioè il turista che durante la vacanza fa escursioni in bici o si dedica al ciclismo, per il quale la bicicletta è intesa soprattutto come mezzo per svolgere un’attività fisica mentre scopre il territorio». Entrando nel dettaglio delle due tipologie i recenti studi hanno stimato 21,9 milioni i pernottamenti che rientrano nel tipo cicloturista puro. Sono però i turisti ciclisti a fare la parte del leone con 55,7 milioni di pernottamenti per il 2018. In termini più semplici quasi la metà dei vacanzieri attivi fa un uso frequente della bicicletta per scoprire il territorio che li ospita. Questo “nuovo” modo di assaporare quanto ci circonda ha un impatto economico molto rilevante per le terre attraversate da questi flussi turistici. I consumi complessivamente generati da questa categoria di turisti sono stati stimati per l’Italia in circa 7,7 miliardi di euro. «Tieni presente – conclude Roverato – che escluso il viaggio e l’alloggio, la spesa media giornaliera del cicloturista si aggira sui 66 euro, mentre quella dei turisti ciclisti e si colloca intorno ai 76 euro. Questo sta a indicare con una certa chiarezza come i cicloturisti, sfatando il pensiero comune,  rappresentino un segmento esigente, attento alla qualità e ai servizi offerti e con buone possibilità economiche».

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3 WELLNESS DESTINATIONS

Dopo mesi di sforzi per raggiungere le vacanze in perfetta forma, accade che una volta raggiunte le destinazioni delle ferie, i più passano le giornate in beato ozio fra cene luculliane, gelati king size e fuoripasto a tutte le ore. Per evitare gli “eccessi da vacanza” sempre più strutture, in ogni parte d’Italia, offrono pacchetti integrati che prevedono, oltre al soggiorno, una serie di attività sportive da svolgere all’aria aperta a contatto con la Natura abbinate a “menù benessere”.

Per rimanere in forma in montagna cambiando ogni giorno attività c’è Movimënt, un comprensorio in Alta Badia (Bolzano) nel cuore delle Dolomiti. Si tratta di un’isola verde, a 2000 metri di altitudine, raggiungibile solo dagli impianti di risalita, dove fare arrampicate il freeclimbing, il parapendio fino allo speed hiking, il trick ski, lo slackline e il tiro con l’arco. L’Alta Badia ha una forte tradizione culinaria, infatti, è l’area geografica più piccola d’Europa con la più grande concentrazione di ristoranti stellati. In appena 7 km, si trovano un 3 stelle Michelin, il St. Hubertus a San Cassiano, La Siriola (2 stelle) sempre a San Cassiano, e La Stüa de Michil (1 stella) a Corvara. Per chi preferisce il mare la meta che mette d’accordo benessere e gola è Borgo Egnazia, a Savelletri di Fasano (Brindisi). Qui, oltre al golf che si pratica sul campo da 18 buche, si trovano delle offerte molto particolari. Una è Fùre che si pratica all’aperto e prevede attività a contatto con l’ambiente circostante. Così si saltano i muretti a secco, ci si arrampica sulle piante d’ulivo, si gioca a ping pong o si prova un numero di giocoleria. In mezzo alle colline toscane ma con vista sul mare c’è la Tenuta La Badiola nel cuore della Maremma Toscana, a 7 Km da Castiglione della Pescaia e dalla costa tirrenica. Già residenza estiva del granduca di Toscana Leopoldo II di Lorena (si può dormire nella sua camera situata ne L’Andana) oggi è un resort 5 stelle dove si può scegliere fra mille attività che vanno dal golf all’equitazione, allo yoga. Oltre ai piatti “healty”, dalla cucina dello chef stellato Enrico Bartolini, escono i dolci pensati per completare i percorsi benessere della Spa Espa. Infatti a ogni specifico programma nella Spa sono abbinati una particolare torta o mousse e speciali tè o infusi a base di erbe, che agiscono in maniera complementare al trattamento. Un percorso benessere in grado di appagare e coinvolgere tutti i sensi.

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Sano e buono, ecco il drink dell’estate

C’è una onda “healthy” che tocca le vite di tutti noi. Si cercano vacanze salutari, cibi sani, pratiche sportive in sintonia con il ritmo del corpo. Questo trend ha toccato anche un settore che sembra lontanissimo dalla salubrità, quello dei cocktail. «Il requisito più importante per chi fa mixologia – spiega Davide Pinto, proprietario del locale torinese Affini, di Vermuth Anselmo, di Gin Taggiasco Extravirgin e ideatore della manifestazione ToDrink – è saper rispondere alle esigenze di mercato. Quindi le nuove tendenze che si vedono oggi e che sono già in atto con processi di consolidamento sono sicuramente legati al wellness. Ovvero la mixologia che guarda a tutte quelle materie prime che possono essere di qualità ma con dei principi attivi. Penso alla carota rossa, allo zenzero, alla curcuma. Molti di questi ingredienti sono legati all’idea di estrazione o di smoothies (bevanda di frutta o verdura frullata a cui si aggiunge acqua e yogurt magro o latte di soia ndr). Quando hanno incontrato la mixology hanno conosciuto un nuovo ingrediente: l’alcool. Con questi cocktail si risponde ad altre due esigenze che ho incontrato in questi anni: la riduzione sempre più drastica degli zuccheri e della quantità dell’alcool nei preparati. Mentre anni fa le persone chiedevano “aggiungimi dell’alcool nel drink”, oggi l’attenzione è più rivolta a quanto il miscelato è equilibrato. C’è una nuova cultura sullo scegliere un drink perfetto per la quantità di alcool, di zuccheri e materie prime che fanno bene. È di questi giorni l’uscita di “Cocktail low alcohol. Nuove frontiere della miscelazione” un libro di Diego Ferrari dedicato proprio alla miscelazione a basso contenuto alcolico. L’alcool è un ingrediente che mantiene un ruolo di protagonista ma diventa anche un collante fra tutti gli altri ingredienti della ricetta senza sovrastarli».

Davide Pinto

Questo trend interessa anche i giovani?
Sì, la cultura del bere bene sta toccando anche la fascia dei ragazzi. Anche i giovani cercano drink di qualità. Questa tendenza la vediamo in tutte le aziende di alcolici che in questi ultimi anni stanno raccontando le materie prime usate nelle loro preparazioni.

Quali sono le nuove frontiere della ricerca?
Molte aziende stanno lavorato sulla qualità delle materie prime così oggi abbiamo liquori di altissima eccellenza. Ci sono cocktail bar che hanno centinaia di tipi di gin a cui va affiancata un’acqua tonica all’altezza. E questo porta a una ricerca anche nelle acque toniche che impiegano materie prime del territorio. Per esempio in alcuni miscelati si usa l’acqua di fiori di arancio amaro della Vellebona (Imperia) che è un presidio Slow Food, oppure l’Ulivar un liquore alle olive calabresi che nasce nel piccolo comune di Oriolo, nell’Alto Jonio Cosentino o ancora il Jefferson (amaro calabrese premiato come migliore al mondo ndr), un mix di rosmarino di Montalto Uffugo, origano di Palombara, limoni di Rocca Imperiale, arance amare e dolci e i pompelmi di Bisignano, bergamotto di Roccella Ionica e genziana della Sila. Altro esempio è il Taggiasco ExtraVirGin che unisce il Ginepro dell’Alta Valsusa con l’Oliva Taggiasca.


Quali sono i requisiti che deve avere un buon barman?
Un buon barman conosce il proprio territorio. A Torino, per esempio, non può mancare la conoscenza dei liquori alpini, dei vermuth o dei vini della provincia. Un drink nato qua si chiama “Americano Sbagliato” tiene insieme vermuth, il vino Freisa Rosso Villa della Regina e l’Alpestre (fatto con 33 erbe tra cui genepì, verbena, menta, salvia, valeriana, iberico, camomilla, limone, arnica, genziana, issopo e tanaceto) ed è diventato a New York molto di moda tanto che Joe Bastianch lo propone da Manzo, il suo locale all’interno di Eataly Fifth Avenue.

Oltre agli chef, in tv sono approdati anche i bartender. Quanto quello che vediamo sullo schermo corrisponde alla routine di tutti i giorni?
In tv si vede solo il lato più accattivante del nostro lavoro. La gran parte è caricare e scaricare casse di bottiglie, studiare, sperimentare. Quindi i giovani che approcciano, e che rimangono, in questo mondo sono persone che si addestrano alla fatica e che sono consapevoli dei sacrifici che si richiedono a chi fa questo lavoro. Spero che i “nuovi arrivati” si allontanino dal modello star e sappiano che esiste una cultura del lavorare quotidiano e del saper essere un buon bar-manager. Perché prima di tutto un barman è un manager che conosce i prodotti e sa quanto costano e a quanto devono essere rivenduti e che sa gestire il personale. C’è tutto un lavoro all’oscuro della televisione o dei post sui social che è parte importante di questo lavoro.


L’alcool entra sempre più prepotentemente in cucina come ingrediente o come bevanda a tutto pasto, che ne pensa?
L’alcool in cucina è sempre stato usato. A Torino c’è un piatto storico che è il riso al rum. Quindi vedo questa tendenza come una riscoperta. Ormai anche i ristoranti, al posto della bollicina a inizio pasto, offrono un vemuth di benvenuto. C’è una maggior consapevolezza di dove può essere collocato un liquore nel momento in cui si va a pasteggiare. Questo mi gratifica perché c’è una grande cultura sui vini e molto spesso non c’è altrettanta conoscenza sugli spirits. I liquori finalmente hanno trovato la giusta collocazione anche all’interno della ristorazione. Quando poi sai collocare perfettamente un liquore all’interno di un pasto lo si utilizza anche per sperimentazioni in cucina.

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A Torino il drink è servito

A Torino il prossimo sarà un week end ad alto tasso alcolico. Infatti al Museo Nazionale del Risorgimento italiano si terrà To Drink, la prima manifestazione organizzata dall’associazione Spiriti Indipendenti e dalla scuola di formazione professionale di EvHo, dedicata al bere di qualità. Al salone torinese le più grandi aziende internazionali di beverage porteranno in degustazione i loro prodotti, per mostrare i nuovi trend della mixology, della distillazione, della liquoristica, della produzione birraia artigianale e della viticoltura italiana e internazionale.

Oltre ai grandi marchi internazionali saranno a Torino anche le piccole produzioni provenienti da tutta Italia, che organizzeranno degustazioni esclusive di spirits in purezza e miscelati. Attenzione particolare verrà riservata naturalmente al Vermouth, storica eccellenza del capoluogo piemontese.

To Drink ospiterà anche i vini della provincia di Torino, l’eccellenza vitivinicola torinese proposta in degustazione oppure miscelata da grandi bartender. Il tour di degustazione comprende anche un’area dedicata alla produzione di birra artigianale dove il pubblico potrà assaggiare le eccellenze di alcuni tra i migliori mastri birrai italiani.
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Joaquín Sorolla: un pittore fra moda e dipinti

Quando nasci in una famiglia di commercianti di abiti e hai la vena artistica ti si presenta un bivio: o disegni abiti o dipingi personaggi ben agghindati. Joaquín Sorolla, pittore impressionista spagnolo, ha scelto la seconda opzione e ha rappresentato nelle sue opere il meglio delle tendenze degli anni a cavallo fra la fine dell’800 e i primi del ‘900. Il suo amore viscerale per la moda unito alle sue conoscenze tecniche hanno fatto sì che i suoi dipinti siano una sorta di catalogo di vestiti, gioielli e accessori.

Il pittore però non si è limitato a dipingere le tendenze del suo periodo, ma le ha riportate anche attraverso fotografie, schizzi e lettere, che sono pieni di riferimenti a diversi aspetti del vestire. A sottolineare questa capacità del pittore valenciano di rappresentare gli abiti e gli accessori del suo tempo con una precisione maniacale c’è la mostra “Sorolla e la moda” che si chiuderà il 27 maggio nelle due sedi madrilene che la ospitano: il Museo Nazionale Thyssen-Bornemisza e il Museo Sorolla. Per realizzare questa esposizione, curata da Eloy Martínez de la Pera, i due musei hanno riunito oltre 70 opere provenienti da musei e collezioni private nazionali e internazionali, alcune delle quali esposte per la prima volta al pubblico, insieme a una selezione di accessori e vestiti dell’epoca.
Così accanto al dipinto “Clotilde con traje nero” in cui la moglie-musa Clotilde è ritratta abbigliata con un abito nero, c’è il manichino con indosso un abito nero in cotone e taffetà proveniente dal Metropolitan Museum of Art  di New York.

Attento alle novità in ogni particolare della vita della borghesia della sua epoca, Sorolla non poteva non dedicare alcune delle sue opere alla vita da spiaggia. Infatti fu proprio nella seconda metà del XIX secolo che vennero scoperte le virtù benefiche dei bagni di mare. Molti dipinti hanno come sfondo le spiagge di Zarauz, Santander, San Sebastián, della Costa Brava come “Clotilde en la playa” che è accostato a un abito bianco in pizzo e cotone proveniente dal Victoria and Albert Museum di Londra, o “Sobre la arena” che è abbinato a un long dress di Paul Poiret in garza di seta e tulle di cotone.

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È TEMPO DI GELATO!

È bastata una settimana di caldo e i consumi di gelato sono volati. Infatti in quest’ultimo ponte lungo si sono mangiati il 30% in più di coppette e coni rispetto alla settimana precedente. Secondo l’analisi Coldiretti/Ixè il preferito dagli italiani (ne consumiamo oltre 6 kili l’anno) è il gelato artigianale nei gusti storici anche se cresce la tendenza nelle diverse gelaterie a offrire “specialità della casa” come i gelati con frutta e verdura locali ma anche con formaggi Dop o grandi vini.

Tutto il comparto utilizza ogni anno 220mila tonnellate di latte, 64mila di zuccheri, 21mila di frutta fresca e 29mila di altre materie prime. Quando siamo indecisi sul locale dove gustare il gelato è importante premiare quelle gelaterie che impiegano frutta e latte freschi italiani perché questi sono gli indicatori del vero gelato e non di un prodotto realizzato con surrogati di bassa qualità. Un rischio che non si corre nelle agrigelaterie, che garantiscono la provenienza della materia prima dalla stalla alla coppetta con gusti che vanno dal latte di asina a quello di capra fino alla bufala.


Esiste anche un campionato mondiale del gelato artigianale: il Gelato Festival World Masters 2021, un torneo individuale internazionale di categoria con partner Carpigiani e Sigep – Italian Exhibition Group. In tutto il mondo concorrono alla conquista del titolo ben 5000 gelatieri che, dopo le varie eliminazioni, si ridurranno a 36 e parteciperanno alla tappa finale che si terrà in Italia. Il percorso di qualificazione dei gelatieri si snoderà attraverso una serie di appuntamenti, dalle centinaia di selezioni nelle sedi dei concessionari Carpigiani denominate “Gelato Festival Challenge” (non aperte al pubblico) alle oltre 50 tappe di Gelato Festival in giro per Europa e Stati Uniti, fino ai tre “Carpigiani Day” che si terranno nella sede di Anzola Emilia tra il 2019 e il 2020.

Il 5 e 6 maggio sarà la volta di Torino. In piazza Vittorio Veneto verrà allestito il Gelato Village dove si potranno assaggiare i lavori dedicati al capoluogo piemontese: dal gelato del patrono San Giovanni a quello ispirato al Gran Torino, da quello che valorizza le nocciole e il gianduja fino a gusti d’ispirazione più mediterranea o addirittura esotici. La prossima settimana toccherà Milano in piazza Castello (12 e 13 maggio) nell’ambito della Milano Food City e da giugno il Festival si sposterà all’estero con le tappe al McArthurGlen outlet di Berlino (1-2 giugno), Varsavia (9-10 giugno), a Covent Garden a Londra (23-24 giugno) e al McArthurGlen outlet di Parndorf (Vienna) il 6 e 7 luglio.
Il programma continentale culminerà con la All Star a Firenze (14-16 settembre), la gara dei campioni, che riunirà su un unico palco tutti i vincitori del Gelato Festival dal 2011 a oggi, prima di varcare l’Atlantico per l’edizione americana, in 8 tappe tra la West Coast e, per la prima volta, la East Coast.

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BORGO PIGNANO, IL LUSSO DELL’AGRITURISMO

Quando si parla di agriturismo la mente corre a una cascina spartana dove gli ospiti vengono risvegliati alle 5 di mattina dal muggire delle mucche, dove le attività extra contemplano passeggiate nei campi, raccolta delle uova o riassetto delle stalle. Si fa quindi fatica ad associare una struttura come Borgo Pignano (in provincia di Pisa fra Volterra e San Gimignano) al concetto di agriturismo. È vero ci sono i campi dove vengono coltivati il grano, la frutta e la verdura che si ritrova in cucina ma l’atmosfera di stanze, suite e maisonette è quella di un boutique resort. Insomma un agriturismo 2.0. molto lontano dall’insediamento dei cavatori di pietra di Volterra etruschi che fondarono il borgo ma sicuramente elegante e raffinato come la villa signorile del XVIII secolo che sorse sulle rovine del villaggio.

Borgo Pignano

Oggi, la tenuta si estende per più di 300 ettari fra boschi incontaminati, panorami fiabeschi con stagni e laghetti, orti coltivati secondo regime biologico e biodinamico. Dopo quindici anni di importanti interventi di recupero, architettonico e paesaggistico, condotti seguendo rigorose tecniche di restauro conservativo, la villa è stata suddivisa in quattordici eleganti stanze e suite, alcune delle quali presentano affreschi originali, tutte con bagno privato in marmo e travertino.

Adiacente alla villa c’è la Canonica, ovvero “la casa del prete”, che presenta alcuni elementi originali del XIII, come la costruzione in pietra, le arcate e le colonne, i soffitti a volta, i pavimenti in terracotta e gli affreschi perfettamente restaurati. In alcune camere si ritrovano anche particolari della prima edificazione della chiesa romanica del borgo dedicata a San Bartolomeo Apostolo, che è ancora consacrata anche se non viene più usata per le celebrazioni che si svolgono invece nella vicina Volterra. Buona parte degli edifici del Borgo sono stati convertiti a spazi adibiti all’ospitalità. Così si può scegliere di dormire nelle maisonette ricavate dalle antiche stalle, o nelle camere ottenute dalle case dove abitavano i contadini o ancora dai locali del casale. Ogni maisonette è indipendente e dispone di balconcini o terrazze private, camere da letto con bagno en-suite e cucina completamente attrezzata. L’arredamento e le decorazioni sono curati nei dettagli, mantenendo lo stile rustico toscano. Il grande casale “La Fonte”, è perfetto anche per ospitare retreats di vario tipo (yoga, pittura, musica e cucina).

Una delle ultime novità è la SPA, un centro benessere dove i prodotti utilizzati sono totalmente biologici e creati appositamente dall’erborista del Borgo, Lisabetta Matteucci, esperta di piante officinali. Alla base di questi cosmetici ci sono le piante, aromatiche e officinali e gli ingredienti biologici prodotti nella tenuta. Il Borgo ha anche una propria galleria d’arte che ospita, oltre alle opere di artisti e scultori della zona, anche talenti emergenti nazionali e internazionali. Il Borgo infatti offre ospitalità a giovani artisti talentuosi, grazie al mecenatismo del proprietario sir Michael Moritz e alla collaborazione con la Royal Drawing School di Londra, fondata nel 2000 dal Principe Carlo d’Inghilterra.

Nell’ala ovest della villa c’è il ristorante Villa Pignano. Qui tutto esprime il concetto del “chilometro 0”. Non solo le pietanze, che lo chef Vincenzo Martella prepara utilizzando sole materie prime biologiche di stagione e provenienti dal territorio circostante, ma anche la mise en place vede protagonisti bicchieri e candelabri di cristallo, realizzati a Colle Val d’Elsa e portapane in alabastro di Volterra.

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Antica Cannoleria 811, quando il cannolo diventa eterno

L’arte da sempre si ispira al vero, ma nel caso dell’Antica Cannoleria 811 di Catania l’imitazione si è spinta oltre. Infatti, i cannoli siciliani in ceramica di Davide Brancato non solo sono una copia perfetta del dolce, ma vengono anche realizzati con la stessa tecnica. «Dopo aver condotto diverse ricerche per trovare la ricetta originale – racconta Davide – ho scovato quella autentica di origine araba. I passaggi prevedono di creare la cialda, “scoccia” in dialetto e friggerla in olio bollente per ottenere il tipico colore brunito che contraddistingue il cannolo siciliano. Solo quando la “buccia” è ben fredda la si riempie con la ricotta lavorata. Infine si decorano le estremità con granella di pistacchio o cioccolato e si finisce il tutto con una spolverata di zucchero a velo». Così Davide crea la cialda di ceramica e, per darle il colore e le bolle della frittura, la cuoce con il cannello alla temperatura di 600 °C. In questo modo la ceramica perde tutta l’umidità e crea, appunto le bolle. Sempre con la ceramica, però leggermente più fluida, l’artista realizza la farcia e, proprio come un pasticcere, riempie la scoccia con una sac a poche. Il tutto si fa asciugare naturalmente e poi si lascia cuocere in forno per una notte a 980 °C. Una volta raffreddato il cannolo in ceramica, come il suo omologo dolce, viene decorato con i granuli e spolverato per rientrare poi in forno per un’altra notte sempre a 980 °C. «La cottura – spiega Davide – è un passaggio molto delicato. In questa fase il manufatto si può crepare o rompere, vanificando così tutto il lavoro. Quando il cannolo è pronto si passa alla fase di decorazione. Lo dipingo impiegando una serie di pennelli giapponesi in pelo di castoro, gli stessi che vengono usati dagli amanuensi e che riescono a creare delle sfumature e degli spessori unici». Per renderle ancora più verosimili, Davide ha intriso le sue creazioni nelle essenze tipiche della pasticceria (zagara, fiori d’arancio, canditi, cannella e zucchero a velo) così che, emanando il profumo della pasticceria fresca, vadano a sollecitare non solo la vista, ma anche l’olfatto. Questo avviene grazie a una serie di microfori (invisibili a occhio nudo) che fanno penetrare il profumo all’interno del manufatto, che ne rimane impregnato. «Il mio – prosegue il designer – è un progetto per dolci eterni che nutrono l’anima. Mi piace che facciano fare un salto nel passato a chi li sceglie, quando si andava a fare la spesa nella bottega sotto casa». Oltre al cannolo, nella pasticceria dell’anima dell’Antica Cannoleria 811 ci sono le cassatelle, le minnuzze di Sant’Agata (un dolce simile alla cassata che viene preparato durante i festeggiamenti in onore della Santa Patrona di Catania) e fette di torte tipiche della tradizione siciliana. A breve, come accade nelle migliori pasticceria dell’Isola, al dolce si affiancherà il salato. Davide, infatti, sta studiando per realizzare gli arancini in chiave pop. Le creazione dell’Antica Cannoleria 811 si possono acquistare tramite la pagina Facebook della bottega o presso l’Antica Dolceria Bonaiuto di Modica (con cui l’artista sta creando il cioccolato eterno). Per chi si trovasse quest’estate a Noto, il suggerimento è di fare una visita a Palazzo Nicolaci di Villadorata, dove Davide sarà il curatore di una mostra che indagherà sul rapporto fra cibo e design con un focus sulle ricette devozionali.

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Taste porta in tavola bacche, erbe e fiori

Week end dedicato al food italiano d’eccellenza quello che sta per cominciare a Firenze. Sabato, infatti, alla stazione Leopolda aprirà le porte la 13esima edizione di “Taste – In viaggio con le diversità del gusto”. Quest’anno il tema della manifestazione, che vede la partecipazione di 400 aziende, sarà il “foraging” ovvero la nuova tendenza culinaria che porta in cucina le piante selvatiche. Alghe, erbe, arbusti, licheni, semi, resine, radici, saranno i protagonisti di Ring, incontri con esperti del settore, moderati dal Gastronauta Davide Paolini, che si tengono all’interno del teatro dell’Opera, e di una serie di eventi curati da Pitti Immagine in collaborazione con Wood*ing, Wild Food Lab, il laboratorio di ricerca animato da Valeria Mosca. Il cibo selvatico è un’importante risorsa alimentare e culturale a impatto quasi nullo sul pianeta.
Tra gli eventi dedicati al tema il talk, condotto dalla forager & chef Valeria Mosca, con lo chef Roberto Flore del laboratorio di ricerca Nordic Food Lab di Copenhagen, “La Geografia del Foraging -Dalle Alpi alle coste italiane fino agli habitat del nord Europa. Perché raccogliere oggi? Secondo quali dinamiche è giusto farlo?”. Sabato 10 marzo, dalle 15 alle 17, le Serre Torrigiani ospiteranno invece Miniforaging: uno speciale workshop con merenda dedicato ai bambini dai 5 ai 10 anni, a cura di Wood*ing. Per tutta la durata della manifestazione, che si chiuderà lunedì 12 marzo, nel piazzale tra la Stazione Leopolda e il Teatro dell’Opera, si terrà “Storie di bosco”, la mostra-installazione di Dispensa  magazine.
Alla fine del tour di degustazioni è possibile acquistare i prodotti al Taste Shop in Piazzale Gae Aulenti. La scorsa edizione il negozio ha presentato 2.180 prodotti, 43.000 pezzi in catalogo, e sono stati oltre 20.200 i pezzi venduti.

Gli orari di apertura:
sabato e domenica dalle 9.30 alle 19.30 e lunedì dalle 9.30 alle 16.30

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The winner is: Gin Collesi

Il Gin Collesi si attesta come migliore gin italiano 2018, secondo la prestigiosa classifica mondiale dei “World Gin Awards”. Dopo una valutazione in tre round, una giuria indipendente composta da esperti del settore, critici e giornalisti ha decretato i vincitori tra centinaia di gin analizzati, suddividendoli in 9 categorie. Tra questi, il Gin Collesi ha conquistato, appunto, il titolo di miglior gin per l’Italia in ben due categorie: “classic gin” (gin che hanno una base pulita con un sapore neutro, che permetta di esprimere al meglio gli aromi degli elementi botanici dove, però, il ginepro è sempre dominante) e “contemporary style” (gin dal profilo organolettico in cui il ginepro è ben riconoscibile insieme ad altri aromi, come note agrumate, speziate o floreali, che nella tradizione sono meno prominenti). «Quello dei World Gin Awards è un prestigioso riconoscimento internazionale che apporta un’ulteriore conferma della qualità del nostro prodotto – sottolinea Giuseppe Collesi, presidente di Tenute Collesi – e ne siamo ancor più orgogliosi considerando la rapidità con cui è arrivato il premio dal suo lancio, avvenuto nemmeno due anni fa». Interamente made in Italy, il Gin Collesi, è frutto di una lavorazione artigianale che nasce da ingredienti di prima qualità, che l’azienda coltiva nelle sue tenute (con sede nelle Marche, ad Apecchio). L’acqua purissima del Monte Nerone, gli orzi, le bacche di un ginepro tipico dell’Appennino, le visciole, una dolcissima ciliegia nativa delle Marche, insieme ad altri preziosi botanici (luppolo, rosa selvatica, guscio di noce, e scorze di arancio e di limone italiani) creano la ricetta del gin vincitore.

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Con Filippo Sinisgalli il menù è da Oscar

cover_L’executive chef de Il Palato Italiano Filippo Sinisgalli e la sua brigata 

Coniglio arrostito con mela e funghi; millefoglie di capasanta, mango giallo e zenzero; cappelletto farcito di burrata, limone e parmigiano reggiano con bisque di gambero rosso; ma anche wafer di astice e crema di ceci di Spello. Queste alcune delle proposte che lo chef Filippo Sinisgalli ha inserito nel menù della Oscar Lounge. Un menù speciale con piatti unici che dall’antipasto al dolce uniscono Nord e Sud in un’unica notte di tradizione e sapori italiani. Così Filippo ha studiato una reginella al ragù come omaggio alla nostra grande Sofia Loren, passando per la Liguria con dei “mini” cappon magro e proponendo anche un piatto davvero semplice come “il panino alla mortadella” oltre a una rivisitazione delle “fettuccine all’Alfredo”. Così, nella notte più importante per tutto lo star system internazionale la sfida per l’eccellenza nel gusto e nel saper trasformare un racconto in un’esperienza unica è già stata vinta da “Il Palato Italiano”, che per la seconda volta cucinerà per la “Gbk Luxury Gift Lounge”, una location aperta nei due giorni che precedono la cerimonia e sono di avvicinamento per tutti i Vip che si trasferiscono a Los Angeles per la notte degli Oscar.

Per quanto riguarda i dolci si inizia con il Gianduiotto (rivestito di carta dorata) che nasce a Torino (e ricorda nel nome la maschera piemontese Gianduia) dalla pasticceria dei primi dell’Ottocento, un cioccolatino che è quasi un tentativo di contrapporsi alla pasticceria francese, allora fatta di elementi d’architettonica nomea e “struttura”. Due secoli fa la maestria italiana ricercava stupore e bellezza in un’eleganza semplice che poteva permettersi l’uso di materie “semplici” come burro, cioccolato e nocciole. Questo cioccolatino per Palato nasce da un esperimento di un cuoco di brigata, fondendo elementi tradizionali come il bicerin e la gianduia. «Sì perché i dolci devono farli i pasticceri – sottolinea Filippo – ma i cioccolatini e le ganache (i ripieni) devono farli i cuochi, perché osano fino al limite, provando e riprovando fino a che quel gusto che si è solo immaginato o sentito nella mente venga espresso in appieno». Segue poi la morbidezza del “Cremino ai 3 cioccolati” sarà una delle esperienze culinarie che accompagneranno le stelle di Hollywood. «È il cioccolatino italiano per antonomasia – sostiene Sinisgalli – perché mette d’accordo tutti gli amanti e integralisti del cacao (il nostro ha una componente di fondente 85%)». Ci saranno anche il “Cioccolato e Strega” e il “Cioccolato e Limoncello”, i più amati dallo chef, che li descrive così: «Unire un liquore e del cioccolato non è semplice, le prove e le arrabbiature che hanno portato alla realizzazione di questi due cioccolatini sono talmente tante che potrebbero fare da combustibile per un volo transoceanico. Nei confronti dello Strega, in particolare, ho una sorta timore reverenziale, forse perché mia nonna lo conservava per le grandi occasioni, era il liquore “buono” da offrire al medico, al prete e a pochissimi altri eletti. Sul Limoncello che dire, sono un uomo del Sud, ho il sole dentro; credetemi, essere inebriati dal profumo dei limoni della Costiera che io stesso seleziono, crearne un elisir profumato del colore del sole stesso, unirlo a un cioccolato finissimo del Madagascar al 70% è un’esperienza sicuramente da provare».

A tutti gli ospiti della Gbk Luxury Gift Lounge verrà omaggiato con un esclusivo “kit spaghetti”. Si tratta di una scatola contenente ingredienti selezionati di produttori e artigiani italiani.

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Quanto è buono questo selfie

Preparate i vostri smartphone e iniziate a fotografare i piatti che vi piacciono di più. Potreste essere i prossimi vincitori di “Selfie Food – una foto, una ricetta”, una nuova rubrica di cucina che andrà in onda, a partire da lunedì 5 marzo, su La7d (canale 29 del digitale terrestre). Dal lunedì al venerdì alle 18.00 e la domenica alle 17.40 Stefano Cavada, giovane food blogger di Bolzano, che ha trasformato la sua passione per la cucina in professione, cercherà sui social la foto più invitante, per poi studiarne e realizzarne in cucina la giusta ricetta, ricreando il piatto raffigurato, fino al “selfie piatto” finale.  Ogni giorno Stefano sceglierà una foto tra le 3 inviate dai telespettatori e riprodurrà, il più fedelmente possibile il piatto, inventandone la ricetta. Nella puntata speciale di domenica saranno ricordati i 5 piatti presentati in settimana e sarà decretato il vincitore.  Durante il programma Cavada andrà alla ricerca dei segreti della grande cucina: la preparazione di un piatto partendo da un ingrediente principe, le migliori tecniche per equilibrare i sapori e gli odori, fino ai tempi di cottura. Giurata d’eccezione della prima puntata sarà la food writer Csaba dalla Zorza, mentre nelle puntate successive sarà l’autore della fotografia del piatto vincitore della settimana precedente a vestire i panni del giudice.

MAGIA IN CUCINA

Nella sua cucina ingredienti, utensili, pentole e piatti levitano, creando una magia che gli ha fatto guadagnare quasi 60mila follower su Instagram. «L’idea di fotografare oggetti sospesi – spiega Francesco Mattucci, ideatore di @kitchensuspensionnasce da una situazione assolutamente quotidiana, per ragioni di spazi, necessità, esigenze la cucina è il posto della casa che vivo di più. Guardandomi attorno ho pensato di creare un luogo dove gli oggetti che popolano la mia cucina possano “animarsi” in maniera insolita, quasi a giocare tra loro e quindi uno spazio dove il cibo non abbia più una rappresentazione classica, dove possa estraniarsi dai contesti nei quali viene normalmente immortalato, vivendo quasi una vita propria e, naturalmente, divertendosi». Per lui la svolta da creativo a influencer è stata quasi immediata. Prima la pubblicazione di una serie d’immagini nella home page di Repubblica e, pochi mesi dopo, l’intervista sul blog di Instagram, hanno portato al progetto grande visibilità in tempi ristretti. «Non mi ritrovo tanto nella definizione di “influencer” – continua Mattucci – non mi sento tale e non credo che le mie immagini possano invitare le persone all’acquisto di un prodotto, invece che un altro. Io credo che il progetto di @kitchensuspension funzioni, perché le immagini che lo compongono sono sempre in grado di sorprendere e bloccare per un secondo l’attenzione degli utenti che vi incappano. Questo è un profilo studiato ad hoc per l’online e in questo contesto funziona, il mio follower sa sempre cosa aspettarsi dalla prossima foto ma, in realtà, ne rimane ogni volta sorpreso». Ogni scatto di Francesco ha dietro un lavoro lungo e paziente, basti dire che per fotografare la coppa con il gelato sospeso in volo, ci sono voluti quasi due giorni di lavoro. «Non esiste un metodo per ottenere questi scatti – conclude – ogni immagine ha le sue caratteristiche e il sistema per sostenere gli oggetti che la compongono cambiano di volta in volta, il difficile sta proprio nel costruire set diversi per ogni scatto. È comunque fondamentale una massiccia dose di post-produzione per ottenere gli effetti voluti».

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Un cuoco in tv

Simone Rugiati già 13 anni orsono spignattava davanti ai fornelli, insegnando a una platea, che ancora non aveva dimestichezza con stelle e piatti d’autore, come fare il soffritto perfetto. «Io – dice Simone – vado in televisione per far cucinare le persone a casa loro. Il resto è show. Far vedere al grande pubblico come si realizza il piatto di uno chef stellato è un puro esercizio di stile, che serve solo a portare gente nei ristoranti. Infatti, per replicare certe ricette non solo ci vuole un’abilità che si acquisisce con anni di lavoro e di studio, ma sono necessarie materie prime di non facile reperibilità». Sui social, invece, ha iniziato da poco, ma ha già ottenuto un grande successo (quasi 300mila follower su Instagram e oltre 500mila su Facebook) tanto da essere, ormai, considerato un influencer. «Sono stato uno degli ultimi nel mio settore ad avere il profilo sui social network e li avevo aperti per farmi conoscere meglio da chi mi seguiva in televisione. Col tempo, mi sono strutturato e ora ho un’agenzia che mi affianca. Per me i social sono un grande bacino dove intercettare le necessità del pubblico, ma anche testare i prodotti nati dalle mie collaborazioni o interagire con chi mi segue. Molte volte porto in trasmissione proprio i temi che mi vengono suggeriti dai mei follower». A completare la vita professionale di Simone manca ormai solo un ristorante. «Molti investitori – conclude Rugiati – mi chiedono di aprire un ristorante, ma devo ancora crescere e poi nella vita non si possono fare troppe cose contemporaneamente. Uno chef, a mio parere, deve stare in cucina e io adesso ho altre priorità». Intanto Simone sta costruendo la filiera che, in futuro servirà il suo ristorante. Infatti, Foodloft (la factory house di Rugiati) è fra i partner di “Coltivatori di Emozioni”, la piattaforma che vuole avvicinare il consumatore alle attività agricole rendendolo partecipe del ciclo produttivo, “adottando” un coltivo a scelta tra ulivi, filari per il vino, arnie e frumento. Altro obiettivo di Coltivatori di Emozioni è il recupero e la valorizzazione dei terreni incolti che, a oggi, si trovano in Puglia, Sicilia, Calabria, Molise, Marche, Lombardia, Toscana, Piemonte e Veneto.

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Food influencer fra ricette, cocktail e vigne

Cover_Chiara Maci

Un tratto comune alle carriere degli influencer di cibo e vino è che sono iniziate quasi sempre per caso. «Ho cominciato per gioco – conferma Benedetta Rossi, cuoca-social che nel suo blog www.fattoincasadabenedetta.it prepara piatti della tradizione contadina italiana – quando lavoravo nell’agriturismo dei miei e preparavo i dolci per le colazioni e per i dessert. Succedeva spesso che i miei clienti, dopo aver assaggiato i dolci e le marmellate delle colazioni, mi chiedessero le ricette. Io, che sono una “smanettona” col pc, per fare una cosa carina, oltre a dare loro la ricetta scritta, caricavo un video su YouTube, dove potevano vedere chiaramente il procedimento. A distanza di circa un anno mio padre mi fa notare che alcuni miei video avevano superato le 100mila visualizzazioni. Incredibile! Allora, di nuovo col supporto di mio marito, ho deciso di fare una cosa più professionale, senza nessuna pretesa ma col pensiero “non si sa mai quello che può portare”. Con costanza abbiamo continuato a caricare video e, dopo un po’, l’impegno è stato premiato».
Se dalla cucina al blog il passo è breve, un po’ più difficoltoso è passare, con successo, dall’ufficio al web. È la storia di Chiara Maci che, dopo aver ricoperto un ruolo di rilievo nel marketing di Sky, decide di aprire il blog Sorelle in pentola, con la sorella Angela, che ha un successo immediato. Dopo tre mesi viene selezionata per il programma Cuochi e Fiamme su La7 e ha così tanto successo che inizia a condurre uno show tutto suo: Vita da food blogger. Quello che più amano i suoi follower è che, nei suoi profili, Chiara non parla solo di cucina, ma racconta momenti della sua vita privata. Dal web ha fatto sapere che era incinta della sua prima bambina, ma anche della sua storia d’amore con lo chef Filippo La Mantia, papà del suo secondo figlio, che nascerà a febbraio.
Se nel mondo food si diventa influencer con ricette e suggerimenti, per quanto riguarda il vino non è così facile perché gli amanti del beverage sono solitamente molto preparati. «Con i miei colleghi-follower – dice Walter Gosso, Bacardi Global Travel Retail – discutiamo di ricette, prodotti, corsi, tecniche, possibilità di lavoro. Insomma tutte dirette a fattori lavorativi e professionali. Per quanto riguarda i follower amanti del buon bere, le curiosità sono infinite. Dai prodotti, in quali locali andare a bere, come ho iniziato questo lavoro, quale cocktail preferisco bere o preparare, quale brand scelgo o quale non amo, infine, davvero infinite le curiosità, che a volte, riescono a creare in me delle domande, che magari, fino a quel determinato momento non avevo pensato».
C’è poi chi inizia a usare i social per aggirare i problemi legati alla posizione della propria attività, diventandone poi una star. «La Sicilia – spiega Marilena Barbera, vignaiola imprenditrice siciliana – è lontana dal resto del mondo e Menfi è un piccolo paesino della provincia di Agrigento. Ho iniziato a twittare quando il mondo del vino italiano usava pochissimo questo mezzo e oggi dai social si genera il 25% del fatturato della mia azienda»

Benedetta Rossi
Facebook, oltre 3milioni di follower
Instagram, più di 270mila follower
YouTube, più di 450mila follower

Chiara Maci
Facebook, 473mila follower
Instagram, 350mila follower
YouTube, 10mila follower

Walter Gosso
Facebook, 5 mila amici
Instagram, oltre 2600 follower

Marilena Barbera
Facebook, oltre 3000 amici
Instagram, oltre 3800 follower
Twitter, 7400 follower

In viaggio per gusto

Il museo aziendale dedicato alla famosa Guinness; la cantina con il look rifatto da una grande archistar; il museo a Bordeaux con ingressi da capogiro; il mercato coperto rivoluzionario queste le nuove mete che il viaggiatore italiano affianca alla visita di musei e monumenti. I dati rilevano come il fenomeno del turismo enogastronomico sia in netta crescita, dal 21% del 2016 al 30% dello scorso anno. Inoltre, se rimane in patria, la meta preferita del viaggiatore gourmet italiano è la Toscana, ma si riscontra anche un forte interesse per il Sud, in primis Sicilia e Puglia. Molte regioni hanno un potenziale inespresso e non vengono percepite come mete enogastronomiche rilevanti, nonostante siano ricche di eccellenze. Lombardia, Piemonte e Veneto, per esempio, vantano un’offerta che in termini numerici si colloca immediatamente dietro alla Toscana. Queste due delle principali evidenze che emergono dal primo rapporto sul turismo enogastronomico italiano, studio che traccia un quadro sul settore e delinea le tendenze di un segmento in forte crescita in tutto il mondo. «Questo lavoro – spiega Roberta Garibaldi, esperta a livello internazionale di turismo enogastronomico, coordinatrice dell’Osservatorio e promotrice della ricerca – mette a fuoco un trend in forte ascesa. Risulta sempre più evidente come la gastromania stia condizionando la scelta dei viaggi. Troviamo un rafforzamento su ogni fronte: ora gli italiani si muovono anche per cercare esperienze legate al cibo e al vino. Un atteggiamento sempre più simile a quello di molti stranieri». Chiude il rapporto una sezione con il profilo del turista enogastronomico internazionale, la situazione nei principali Paesi del mondo e best pratice estere. In relazione a questa nuova forma di turismo nasce una domanda crescente di servizi, che va soddisfatta di più e meglio. La ricezione turistica, anche attraverso l’apertura delle strutture produttive ai visitatori, può diventare uno strumento essenziale per avvicinare produttori e consumatori, oltre che essere una voce di reddito aggiuntiva.

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La Francia conquista la Coppa del mondo di Gelateria

Quest’anno la Coppa del mondo di gelateria è andata alla Francia e con questo risultato i cugini d’Oltralpe raggiungono la Nazionale italiana, nell’albo d’oro delle coppe vinte. Infatti, delle 8 edizioni sin qui disputate, 4 sono andate in Francia e 4 sono rimaste in Italia. Sul podio, al secondo posto, la Spagna e al terzo l’Australia. La premiazione è avvenuta in occasione del 39esimo Sigep conclusosi ieri alla Fiera di Rimini. Le 12 le nazioni in gara, per 4 giorni, si sono sfidate in otto prove: vaschetta di gelato decorata, coppa decorata, mystery box, torta artistica gelato, alta cucina entrée, pezzi artistici e snack di gelato, oltre al gran buffet finale dove sono stati presentati tutti gli elaborati. Alla Coppa del Mondo della Gelateria 2018 hanno partecipato anche Argentina, Brasile, Corea, Giappone, Marocco, Polonia, Svizzera, Ucraina e Usa. Complessivamente, 60 concorrenti, con la giuria formata dai 12 team manager delle squadre, dal presidente del comitato mondiale d’onore Pier Paolo Magni, accompagnato da Eliseo Tonti, tra i fondatori della Coppa, e dal vicepresidente del comitato mondiale d’onore, il marocchino Kamal Rahal Essoulami. La Coppa del mondo della gelateria è una competizione biennale organizzata da Sigep e Gelato e Cultura e tornerà nel 2020, con alcune novità. Tutte le squadre partecipanti dovranno scaturire da selezioni nei singoli Paesi. Già ora accade, ma è stato definito come requisito vincolante per l’iscrizione. Inoltre, la squadra vincitrice non sarà più esclusa dall’edizione seguente, motivo per cui quest’anno l’Italia non era in gara. La selezione italiana per la Coppa 2020 scaturirà a gennaio 2019, nel corso del 40esimo Sigep, in programma dal 19 al 23 gennaio, alla fine della competizione Sigep Gelato d’Oro. Oltre ad altre norme squisitamente tecniche, gli organizzatori della Coppa del Mondo della Gelateria si sono impegnati anche a dar corpo alla proposta rivolta all’inaugurazione di Sigep al ministro Dario Franceschini, ossia quella di rendere il gelato artigianale patrimonio dell’umanità.

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Di cuore e di coraggio, un libro per conoscere Antonia Klugmann

È la prima donna a entrare nella cucina più famosa d’Italia e, per fare da giurata a MasterChef, Antonia Klugmann ha dovuto lasciare il suo ristorante stellato L’Argine, a Vencò, in provincia di Gorizia. Conosciuta dai gourmet di tutto il mondo, apre le pagine della sua vita anche al grande pubblico, con il libro “Di cuore e di coraggio” (edito da Giunti), partendo dagli elementi cui tiene di più e senza mai dimenticarsi che il cuore della cucina è, prima di tutto, quello di chi si mette ai fornelli. La sua storia ha inizio con il desiderio di libertà, che l’ha spinta a lasciare l’università per inseguire il sogno di diventare una chef, mettendo in luce una determinazione e una creatività senza limiti, che l’hanno portata a ricevere la stella Michelin a pochi mesi dall’apertura dell’Argine. Gli ingredienti attorno ai quali nasce ogni suo piatto sono il frutto del territorio dolce e aspro che ha imparato a conoscere quando, a seguito di un grave incidente automobilistico, rimane ferma per quasi un anno. Per fare rieducazione inizia a camminare tanto in campagna, dove scopre i fiori, le erbe spontanee, le bacche che entrano a pieno titolo nella sua cucina. Così, il cervo si accompagna alle foglie di cavolo dell’orto e alla brovada (rape macerate nelle vinacce e poi cotte in pentola), gli spätzle al tarassaco e prezzemolo sono conditi con midollo e aceto di Sirk (prodotto da uve intere nella vicina Cormons) e per chiudere il sorbetto è di abete e more.

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Rinaldini: la pasticceria italiana in tutto il mondo

Con un investimento di 6 milioni di euro, la Rinaldini Pastry Spa è il più grande progetto industriale e finanziario italiano legato al mondo della pasticceria. Nato dall’incontro fra Roberto Rinaldini, pluricampione mondiale di pasticceria e di gelateria, e Micaela Dionigi, presidente del Gruppo Società Gas Rimini, il progetto ha un business plan che prevede la creazione di un laboratorio produttivo a Rimini di quasi 4mila metri quadrati, l’apertura di oltre 30 punti vendita in tutto il mondo, l’assunzione di 250 persone e il raggiungimento, entro il 2022 di un fatturato di 25 milioni di euro. «Il sociale – ricorda Dionigi – ci ha fatto incontrare e per alcuni anni abbiamo portato avanti un progetto a sostegno dell’oncoematologia pediatrica. Nel conoscerci ho apprezzato il talento e le idee innovative del Maestro Rinaldini ed è stato per me naturale convergere in un progetto comune che ci ha trovato in sintonia. In pochi mesi, grazie anche al contributo del nostro consulente strategico Mario Esposito, siamo riusciti a definire un piano industriale che mi ha pienamente convinto».
Il primo Rinaldini Shop aprirà a Milano in marzo in via Santa Margherita, a ridosso della Scala, e vedrà la nascita di una nuova collezione di torte dedicata ai momenti storici del tempio della musica. Seguirà poi Roma (con ben 2 aperture entrambe nel centro storico) e poi Rimini e un Mall del lusso ancora top secret. Fuori dall’Italia è già previsto lo sbarco a Londra e Parigi. «È la naturale evoluzione della mia attività – spiega il Maestro –  avevo bisogno di una società strutturata che mi permettesse di raggiungere le mete che mi sono prefissato. La priorità era e resta quella di offrire ai clienti un prodotto di qualità superiore con il valore aggiunto della mia ricerca creativa». Nei Rinaldini Shop non ci saranno solo le dolcezze iconiche del Maestro (Venere Nera, MacaRol, ChocoColor, GramBelline e così via) ma anche il salato e una serie di proposte vegetariane e vegane. Il tutto preparato nel laboratorio riminese che servirà tutti i punti vendita. «Apriremo alla ristorazione – conclude Rinaldini – con un menù del territorio romagnolo che vedrà in carta piadine, passatelli, strozzapreti, tortellini e lasagne».

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Arcane Cane Crush medaglia d’oro allo ShowRum Tasting di Roma

Il rum Arcane Cane Crush, è stato nominato Best in Class per la categoria Agricole (il distillato non viene prodotto dalla melassa, sottoprodotto della lavorazione della canna da zucchero, ma dal vesou, puro succo di canna non sottoposto all’estrazione dello zucchero) Style Unaged all’ultima ShowRum Tasting Competition di Roma, la più grande rassegna dedicata al rum in Italia. Arcane Cane Crush è un rum molto aromatico, fruttato e morbido con una ricchezza di aromi sottili e freschi che gli ha fatto ottenere, dalla giuria di 18 esperti, il premio più prestigioso che un rum possa ottenere in Italia. Prodotto a Mauritius, il rum Arcane è ottenuto dalla distillazione di succo di canna puro, che offre una ricchezza incredibile di aromi sottili. Inoltre Arcane rivoluziona il classico rum bianco, che di solito è meno aromatizzato,  trasformandolo invece in un rum molto aromatico, fruttato e morbido con vasto bouquet di aromi, delicati e freschi. Questo avviene grazie a due diverse distillazioni, la prima a Mauritius in appositi contenitori e la seconda a Cognac, in Francia, nei più classici piccoli alambicchi. Ed è proprio negli alambicchi, che Arcane tira fuori il suo aroma unico e il caratteristico colore purissimo e scintillante.

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Nuovo direttore generale per The Coca-Cola Company

È Kees-Jan de Vries il nuovo direttore generale di The Coca-Cola Company per l’Europa Centrale e l’Italia. La sua sede operativa sarà a Milano, da dove opererà per Italia, Albania, Austria, Svizzera, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia.
Laureato in economia presso la Business School di Amsterdam, Kees-Jan de Vries vanta una notevole esperienza internazionale in ambito marketing e commerciale, con 23 anni di esperienza nel Sistema Coca-Cola. Infatti, ha iniziato la propria carriera nel 1994, in Coca-Cola Enterprises, l’allora imbottigliatore per l’Olanda. Passato in The Coca-Cola Company nel 2006, de Vries ha ricoperto il ruolo di Global Account Director di Coca-Cola fino al 2010, gestendo il portafoglio internazionale dei clienti retail. È poi stato nominato direttore generale della business unit Nordics fino al 2015, quando è stato posto alla guida dei mercati di Austria, Svizzera, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia.

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Selinunte brinda con Mandrarossa

Selinunte – il parco archeologico greco più grande d’Europa, situato sulla costa sud-occidentale della Sicilia, a Castelvetrano, in provincia di Trapani – ha finalmente un sistema di illuminazione degno della sua importanza. Settesoli che, con i suoi 2mila viticoltori per 6000 ettari di superficie vitata è la più grande cantina vitivinicola europea, ha avviato il progetto “Settesoli per Selinunte”, prevedendo per ogni bottiglia di vino venduta, che 10 centesimi vengano destinati a interventi per la conservazione e la fruizione del sito. il consumatore può partecipare anche in maniera più attiva, facendo una donazione e usufruendo, così, dei benefici dell’Art Bonus. «Il progetto – spiega Vito Varvaro, presidente di Cantine Settesoli – è partito nel 2016. A oggi abbiamo raccolto oltre 200mila euro. L’obiettivo è arrivare a 500mila euro per i restauri e lanciare quindi il sito di Selinunte e il territorio come meta obbligata per i turisti che visitano la Sicilia». Settesoli lavora sulla tradizione anche in cantina. Infatti, insieme al Consorzio di Tutela della DOC Sicilia, si sta impegnando nella ricerca delle varietà di uve più antiche e rappresentative dell’Isola.
Photo by Antonio Lori
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La pizza napoletana è patrimonio dell’umanità

L’altra sera, a consolare Napoli dall’uscita della sua squadra di calcio dalla Champions League, ci ha pensato un altro simbolo della città partenopea. Infatti “L’arte del pizzaiolo napoletano”, dopo 8 anni di negoziati internazionali, è stata inserita fra i patrimoni immateriali dell’umanità. A Jeju, in Corea del Sud, con voto unanime del Comitato di Governo dell’Unesco, è stato riconosciuto che la creatività alimentare della comunità napoletana è unica al mondo. Per l’Unesco, si legge nella decisione finale, “il know-how culinario legato alla produzione della pizza, che comprende gesti, canzoni, espressioni visuali, gergo locale, capacità di maneggiare l’impasto della pizza, esibirsi e condividere è un indiscutibile patrimonio culturale. I pizzaioli e i loro ospiti si impegnano in un rito sociale, il cui bancone e il forno fungono da “palcoscenico” durante il processo di produzione della pizza. Ciò si verifica in un’atmosfera conviviale che comporta scambi costanti con gli ospiti. Partendo dai quartieri poveri di Napoli, la tradizione culinaria si è profondamente radicata nella vita quotidiana della comunità. Per molti giovani praticanti, diventare Pizzaiolo rappresenta anche un modo per evitare la marginalità sociale”.
L’ “impresa pizza” genera in Italia, secondo i dati dell’Accademia Pizzaioli, un business di 12miliardi di euro e impiega almeno 100mila i lavoratori fissi, ai quali se ne aggiungono altri 50mila nel fine settimana.
Ogni giorno solo in Italia, si legge in una nota di Coldiretti, si sfornano circa 5milioni di pizze nelle circa 63mila pizzerie e locali per l’asporto, taglio e trasporto a domicilio, dove si lavorano in termini di ingredienti durante tutto l’anno 200milioni di chili di farina, 225milioni di chili di mozzarella, 30milioni di chili di olio di oliva e 260milioni di chili di salsa di pomodoro.
L’amore per la pizza trova il suo apice negli Stati Uniti che, con 13 chili a testa l’anno, guidano la classifica mondiale. Gli italiani sono invece i primi in Europa con 7,6 chili l’anno seguiti da spagnoli (4,3), francesi e tedeschi (4,2), britannici (4), belgi (3,8), portoghesi (3,6) e austriaci che, con 3,3 chili di pizza pro capite annui, chiudono questa classifica.

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