Dalle passerelle alle donazioni, la moda si mobilita per l’Ucraina

Il primo, nel pomeriggio di domenica 27 febbraio, era stato Armani: a tre giorni dall’invasione dell’esercito russo in Ucraina, aveva privato la sfilata Fall/Winter 2022-23 della main line del canonico accompagnamento musicale. Prima del défilé, una voce ha avvertito che lo show si sarebbe svolto senza colonna sonora, «in segno di rispetto per le persone coinvolte nella tragedia in corso», perciò outfit – uomo e donna – dalle proporzioni esatte, velluti notturni, completi dalle disegnature geometriche e brillii déco incedevano silenziosamente nella sala.
L’effetto, a detta dei presenti, è stato potente, il messaggio forte. Del resto, in conferenza stampa, Re Giorgio era andato dritto al punto: «Volevo dare il segnale che non desideriamo festeggiare perché qualcosa attorno a noi ci disturba molto. Ho scelto il silenzio, questa non musica che si sentiva ovunque».

Il messaggio postato sui social da Armani per spiegare l’assenza di musica alla sfilata

Da quel momento in tanti, a Milano e soprattutto Parigi, hanno deciso di mobilitarsi.
Nel capoluogo lombardo, con la fashion week ancora in pieno svolgimento, il gruppo OTB (proprietario di griffe come Diesel, Margiela, Marni, Jil Sander), rispondendo all’appello dell’UNHCR per aiutare i civili costretti alla fuga, annuncia il proprio supporto economico all’organizzazione; la Camera Nazionale della Moda Italiana si unisce all’iniziativa, il presidente Carlo Capasa invita gli associati a partecipare alla raccolta fondi dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, trovando prontamente la disponibilità di numerosi big, da Prada allo stesso Armani e Valentino (entrambi devolvono all’Agenzia ONU 500mila euro) passando per Etro, Missoni, Max Mara, Furla.
Fondi per l’UNHCR vengono stanziati, a seguire, da Chanel, Isabel Marant, Acne Studios, Pronovias e Kering (holding francese che controlla Gucci, Saint Laurent, Bottega Veneta e Alexander McQueen), la principale concorrente di quest’ultima, LVMH – cioè i maggiori brand del lusso, compresi Louis Vuitton, Dior, Bulgari, Fendi, Givenchy – versa da parte sua un milione di euro a Unicef e cinque alla Croce Rossa, Versace e Balenciaga (anch’essa proprietà di Kering) decidono di supportare il World Food Programme.

Manifestanti fuori dagli show di MMD (ph. by Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)

Chiusa la settimana della moda milanese, quella transalpina si apre con l’auspicio, espresso dalla Fédération de la Haute Couture et de la Mode, di «vivere le sfilate con sobrietà e riflettere sull’oscurità del momento»; i marchi partecipanti mantengono di fatto un low profile, ma alcuni si distinguono per la nitidezza della loro posizione.
Olivier Rousteing di Balmain, ad esempio, fa avere agli ospiti del catwalk una nota nella quale si mostra quasi rammaricato per il fatto di non poter modificare una collezione sviluppata, naturalmente, mesi prima dell’attacco russo, postando inoltre un sentito messaggio («siamo consapevoli che ci sono cose più importanti che accadono oggi. I nostri pensieri e le nostre preghiere sono per gli ucraini. Siamo ispirati dalla loro dignità, resilienza e attaccamento alla libertà») sul suo profilo Instagram, sotto l’immagine di una duna sabbiosa gialla sormontata dal cielo, limpidissimo, ad eccezione della nuvola a foggia di cuore.
Altre maison, oltre a Balmain, si servono del binomio cromatico della bandiera nazionale per testimoniare la propria vicinanza al paese: da Loewe, sulle giacche dello staff, vengono appuntate coccarde gialloblu, Isabel Marant fa proiettare i colori sulle colonne del Palais Royal, sede dello show, uscendo per il saluto finale con un maglione nelle medesime tonalità.

L’immagine postata dal direttore creativo di Balmain sul suo profilo IG @olivier_rousteing
Jonathan Anderson di Loewe con la coccarda con i colori ucraini (ph. Imaxtree)

Rick Owens, prodigo di riflessioni affatto banali sull’assurdità della guerra scatenata dal Cremlino, dichiara di aver desiderato che il womenswear della prossima stagione fosse «pretty», adeguato al generalizzato risveglio post pandemico, un afflato speranzoso valido ancor oggi, nonostante i tragici eventi nell’Est del continente, perché durante i mala tempora «la bellezza può essere uno dei modi per mantenere la fede»; si parla di una graziosità alla Owens, certamente, pur sempre il profeta di uno stile aspro, oscuro, alle volte apocalittico, però fa specie vedere le mise statuarie della griffe, definite da code, stratificazioni tessili come grumi che ingabbiano la figura, puntute spalle insellate, gambali poggianti su trampoli enormi, illuminarsi grazie alle distese di lustrini sulle texture e lampi di giallo, rosa, arancione e verde menta aprirsi un varco nel consueto dispiegamento di neri e grigi. Lo stilista californiano confida, inoltre, che il soundtrack è stato cambiato all’ultimo minuto, optando per la Quinta sinfonia di Mahler, da lui giudicata «sdolcinata, melensa, kitsch, manipolatoria ed emotiva» ma «adatta al momento», in quanto portatrice di un «desiderio di speranza». Cambiamento musicale last minute anche da Stella McCartney, dove la scelta ricade su Give Peace a Chance, immortale inno pacifista di John Lennon.

Isabel Marant con il maglione gialloblu in passerella (ph. Stephane de Sakutin – AFP)
Il finale dello show F/W 2022 di Rick Owens (ph. Imaxtree)

L’operazione più significativa e coinvolgente, però, si registra senza dubbio da Balenciaga, il cui direttore artistico Demna Gvasalia, ex profugo (è originario infatti dell’Abcasia, regione separatasi militarmente dalla Georgia negli anni Novanta, perciò quando sono iniziati gli scontri ha dovuto riparare con la famiglia a Tblisi, poi in Germania), sa cosa voglia dire affrontare simili, drammatiche situazioni.
Lascia quindi sulle sedie della platea t-shirt bicolor (le sfumature del vessillo ucraino, ancora) e una lettera, in cui racconta che le notizie provenienti dall’Europa orientale hanno «innescato il dolore di un trauma che mi portavo dentro dal 1993, quando accadde la stessa cosa nel mio paese e divenni un rifugiato, per sempre […] è qualcosa che resta […] La paura, la disperazione, realizzare che nessuno ti vuole»; e prosegue: «In un periodo come questo la moda perde la sua rilevanza, il suo stesso diritto di esistere. Ho pensato per un attimo di cancellare la sfilata […] Ma poi ho compreso che avrebbe significato darla vinta, arrendersi al male che mi ha ferito così tanto per quasi 30 anni. Ho deciso che non posso più sacrificare parti di me a questa guerra egoistica, insensata e senza cuore. Questo show non ha bisogno di spiegazioni. È dedicato al coraggio, alla resistenza, alla vittoria dell’amore e della pace».

Le t-shirt per l’Ucraina sulle sedie della sfilata Balenciaga

Ciascun outfit, effettivamente, parla da sé, addosso a modelle/i che avanzano a fatica in una bufera di neve ricreata nella sala circolare vetrata, adibita a setting, componendo una ricapitolazione della traiettoria ascendente di uno sconosciuto designer georgiano diventato sommo sacerdote del verbo fashionista, tra sartoria fuori scala, volumi anabolizzati (tautologiche, in tal senso, le scritte XXXL riportate su un paio di hoodie), pantacollant con scarpa incorporata, maxi stivali a imbuto e, in chiusura, un total look giallo e uno blu, ultima, inequivocabile dimostrazione di vicinanza alla popolazione ucraina.

Il setting della collezione Balenciaga F/W 2022 (ph. Imran Amed)
Gli ultimi due look dello show Balenciaga


Infine, lo stop alle attività commerciali. Il numero di brand che hanno chiuso i rispettivi store russi si allunga di giorno in giorno, formando un bollettino di guerra – logicamente commerciale e incruenta – parallelo a quello (tragico) del conflitto, ma a differenza di esso virtuoso poiché rimarca la distanza abissale tra il sistema valoriale sotteso alla moda, nel suo complesso, e il brutale neoimperialismo di Putin e compari: i già citati LVHM (124 boutique nella Federazione), Kering, Prada, Chanel, e poi Hermès, Richemont, Nike, Asos, i colossi del fast fashion, Inditex, H&M e Mango in testa. Una mobilitazione senza precedenti che, si spera, porterà qualche risultato concreto, andando oltre le – pur lodevoli – condanne di rito a mezzo social.

La boutique (chiusa) di Gucci nel centro di Mosca

Accuratezza e portabilità, le parole d’ordine alle sfilate della PFW Men’s F/W 2022

La quarta – quinta? – ondata di Sars-CoV-2 imperversa, ma all’ombra della Tour Eiffel si è reagito stoicamente alle insidie continue del virus, con l’appuntamento della fashion week maschile rivelatosi abbastanza partecipato; dei 76 brand totali, 46 hanno mostrato le collezioni Fall/Winter 2022-23 in presenza, come ci si è ormai abituati a specificare, i restanti 30 sono ricorsi nuovamente al digitale, tra corti e catwalk in streaming.

In linea di massima, l’enfasi è sulla desiderabilità di capi dall’esecuzione – ovviamente -ineccepibile e portabili, lontani da lambiccamenti e cerebralismi che, in tempi tribolati come questi, rischierebbero di essere fuori sincrono. Il che non significa sfornare (ancora) felpe in cachemire, simil-ciabatte, abiti bozzolo e derivati, piuttosto stimolare la curiosità di chi osserva con pezzi piacevoli da guardare, toccare e, soprattutto, indossare, come quelli dei cinque marchi dell’elenco seguente, tra conferme puntali, inizi ad alto contenuto di hype e toccanti addii.

Bianca Saunders

Vincitrice dell’ultimo Andam Fashion Award, l’anglogiamaicana Bianca Saunders conferma, con la sua entrée alla settimana della moda parigina, di essere tra i designer più dotati della new generation.
Per la F/W 2022-23, A Stretch, spedisce in passerella outfit a tutta prima basici, composti da tee a maniche lunghe, cappotti, duvet, blouson, coordinati in denim indaco, spesso monocratici; basta però un’occhiata ravvicinata e ci si accorge di come i capi diano l’illusione di avvitarsi su se stessi, tra impunture asimmetriche, chiusure oblique, tasche disallineate quel tanto che basta per trasmettere un’impressione di leggera disarmonia.
Il lavoro ingegnoso su volumi e tagli, quasi ipnotici nella loro irregolarità, mira in realtà a lusingare la silhouette maschile: i pattern spiraleggianti, dall’andamento contorto, assottigliano il busto e ingrossano le braccia, le camicie sono riprese sui lati per accentuare la naturale linea a V del torso, i pantaloni si attorcigliano sulla vita (alta) grazie alle pinces, per poi cadere dritti o flessuosi sulla gamba, snellendo comunque la figura.
A margine dello show, Saunders confida a GQ di volere «far sapere agli uomini che possono avventurarsi in aree sconosciute, indossare qualcosa un po’ fuori dal comune», di sicuro i suoi modelli risultano palpitanti, come attraversati da un gradevole frisson, l’ennesima riprova del fatto che, nelle mani giuste, siano ben più di meri indumenti per coprirsi.


Photo IMAXtree


Lemaire

Con la griffe omonima, gestita insieme alla compagna Sarah-Linh Tran, Christophe Lemaire prova ogni volta che minimalismo non è per forza sinonimo di canoni immutabili e look privi del “wow effect”, semmai di piccoli ma decisivi aggiustamenti degli intramontabili del guardaroba, con cui distillare armonia e sofisticatezza in abiti dal fascino effortless, proprio come le movenze dei protagonisti del défilé. Uomini e donne del brand passeggiano infatti nelle stanze degli Ateliers Berthier, davanti a un fondale dipinto che simula l’alba nel deserto.
L’outerwear (parka, caban, spolverini, overshirt, giubbetti con collo a imbuto) si stratifica, per proteggersi dalle escursioni termiche dei luoghi ricreati dalla scenografia, borse capienti e custodie per borracce vengono assicurate alla cintura o portate a spalla, con le tracolle incrociate sul corpo, i pants, decontratti, sono trattenuti sul fondo da cinturini oppure arrotolati alla caviglia, ai piedi stivaletti Chelsea o slip-on in pelle aperte sulle tomaia.
I colori, conseguenti all’ambientazione evocata, passano in rassegna tutte le sfumature neutre e terrose che si incontrerebbero in un paesaggio desertico, dai marroni e arancio bruciati al verde oliva, dal cachi all’écru, dall’antracite al rosso granata, adottate da «un’orda urbana di moderni cacciatori-raccoglitori» (così viene descritta nelle note della sfilata) che, definizioni a parte, è indubbiamente stilosa.


Ph. Courtesy of Lemaire


Louis Vuitton

Si è parlato in abbondanza della morte di Virgil Abloh, di una parabola dirompente per fatturati e rilevanza culturale, eppure è impressionante vedere, ancora una volta, i frutti del suo operato col menswear di Louis Vuitton dispiegati negli enormi spazi del Carreau du Temple, che ospitano la casa dei sogni, anzi, la Louis Dreamhouse (questo il titolo della collezione) in cui per l’ultimo, sentito tributo si riunisce il pubblico delle grandi occasioni. Amici, collaboratori fidati, semplici fan, star come Tyler, The Creator, J Balvin, Dave Chappelle, Tahar Rahim e Venus Williams assistono allo show concepito, in buona parte, dal designer e portato a termine dal suo team, un sunto, in 68 uscite, del triennio dell’outsider di Chicago alla testa della corazzata luxury transalpina, che ha sancito la compenetrazione di strada e atelier, istanze nate dal basso e dettami stilistici calati dall’alto.
Un concentrato di naïveté (la purezza, l’immaginazione fanciullesca avevano un’importanza capitale nel design del creativo scomparso a novembre) bilanciato però dal pragmatismo di chi, col proprio lavoro, voleva arrivare a quante più persone possibili: perciò valigeria d’impronta artistica (dal profilo distorto come in quadro surrealista, a tasselli semitrasparenti, con monogram effetto sfocato…), baseball cap messi di traverso, cappellini fumettistici accessoriano coat rigidi, pantaloni a sigaretta e completi velvet, le ampiezze da breakdancer si contrappongono ai tagli sharp dei capispalla, il bling bling di fermagli e paillettes ai viola e verdi profondi. Nel finale, a resettare la suddetta sequenza “contrastata”, il candore assoluto del bianco su cumuli di veli, strascichi e ali in pizzo; il simbolismo è evidente, la grandezza di Abloh pure. 


Ph. Courtesy of Louis Vuitton, ph. n. 5 Matthieu Dortomb for Vanity Teen


Paul Smith

Dopo una serie di presentazioni digital only, Sir Paul Smith torna fisicamente nella capitale francese con una sfilata – sebbene a porte chiuse – in cui, tra mise gagliarde e una tavolozza estremamente variegata, ricapitola l’evoluzione del cinema, sfruttando il potenziale evocativo del medium che ha plasmato l’immaginario collettivo del XX secolo.
Lo fa mediante il colore, anzitutto, sparso a pieni mani (vale per blu notturni, grigi e cromie glacé quanto per le energiche tonalità di rosso e verde), incanalato in stampe di tutti i tipi – trademark dello stilista – dalla qualità fotografica, tanto vivide da evocare le locandine delle sale cinematografiche di una volta, oppure psichedeliche e zigzaganti, a omaggiare David Lynch e Wong Kar-Way, guru della settima arte conosciuti (anche) per gli intensi cromatismi delle loro pellicole, disturbanti o poetici.
Lo styling, spigliato, si lascia suggestionare dai costumi del David Bowie de L’uomo che cadde sulla Terra e di Harry Dean Stanton in Paris, Texas. Persino le musiche in sottofondo, opera del compositore Richard Hartley, rimandano alle cupe sonorità delle soundtrack di Twin Peaks, Vizio di forma e You were never really here.
La ritrovata voglia di dress up, di vestirsi a modo è percepibile nella sontuosità dei materiali (shearling, mohair, raso opaco, in contrasto con velluto a coste, pelle e nylon dalle nuance smaglianti), nel mix di quadrettature spalmato su tweed, lane e drill, nell’equilibrio tra fit over e slim, evidente nel tailoring, asciugato ad eccezione che nei pantaloni, lievemente scampanati, per consentire l’abbinamento con maglie spesse, nonché nella cospicua offerta dell’outerwear (tra gli altri montgomery, piumini, impermeabili alla Mackintosh, giubbotti cropped, loden imbottiti); proposte polivalenti e adatte a un pubblico trasversale, come un buon film. 


Foto n. 5 dal sito web di Paul Smith


Kenzo

Era la passerella più attesa della stagione e, di certo, non ha deluso le aspettative, anche grazie a un parterre d’eccezione, capitanato da Ye alias Kanye West, mano nella mano con la neofidanzata Julia Fox, e Pharrell Wiliams: il nuovo corso by Nigo (figura seminale della street culture nipponica e non, artefice del successo stellare di etichette quali A Bathing Ape, Human Made e Billionaire Boys Club) di Kenzo (ri)parte dalla Galerie Vivienne, dove tutto è cominciato 52 anni fa, quando Kenzo Takada irruppe nella compassata scena francese scombussolandola con stampe e rêverie indossabili.
Il restart del marchio, preceduto dalle parole inequivocabili dell’esordiente creative director – «voglio mettere l’accento sui vestiti», prende la forma di un real-to-wear (sempre Nigo) che onora l’eredità del predecessore e trasporta i capisaldi del suo stile spumeggiante nell’hic et nunc, congiungendo Usa e Sol Levante, archetipi dell’abbigliamento americano (workwear, casual, look collegiali) con cui i giapponesi hanno familiarità fin dall’occupazione postbellica ed esplosioni cromatiche, decorazioni florealeggianti e jeanseria vecchio stampo. I petali di papaveri, rose e affini invadono ogni superficie disponibile, bomber, varsity jacket, salopette, giacche da aviatore e suit sagomati si danno il cambio, accompagnandosi a borsette printed, baschi à la française, cappelli furry e altri briosi accessori, la tigre simbolo della maison si confonde tra greche, bande contrastanti e figurini ripescati dagli archivi, in una mescolanza festosa e accattivante che, attraverso il vestiario, getta un ponte tra Oriente e Occidente.


Photo Filippo Fior/Gorunway.com


In apertura, photo by Victor Boyko/Getty Images

PFW: BERLUTI

Avrete notato che lo spirito di Berluti e il culto della “patina”, in particolare, si concentrano su ciò che il tempo può portare alla vita? Non appena Haider Ackermann fu nominato direttore creativo di Berluti, è stato colpito dall’idea di moda che può svilupparsi nel tempo.
Mentre stava lavorando a questa collezione, si è reso conto di come un paio di pantaloni o un cappotto possono diventare più attraenti se sviluppano una patina che li rende più desiderabili e preziosi per noi.
Il mood board di Haider includeva parole come “Trash”, “Dark” e “Wood” e si focalizza sul concetto di un uomo che si risveglia all’alba dopo una serie di esperienze notturne. Alcuni dipinti di Francis Bacon hanno dato l’ispirazione per le combinazioni di colori insoliti che Haider aveva in mente. Blu e tonalità rosa cipria si scontrano con i bordeaux per esempio.
Prendendo questi concetti di base come punto di partenza, Haider Ackermann ha progettato questa collezione come una lista di pezzi chiave: giacca aviatore di pelle nera, giubbotti in nylon, smoking di velluto, maglioni di cashmere, stivali in pizzo, borse casual.

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PFW: ISSEY MIYAKE

Ascolta il richiamo selvaggio. Questa collezione combina il comfort dell’outfit urbano, lo spirito outdoor del trekking e i pattern che scaturiscono dall’energia della natura. Oggi gli uomini ambiscono a un nuovo rapporto con l’eleganza, che integri la sensibilità per i tessuti naturali. Continuando a perseguire l’estetica della funzionalità, questa stagione ISSEY MIYAKE MEN propone un workwear che include l’essenza della foresta come vista attraverso uno spettro di colori che sfumano.

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