‘Les Amateurs: Designers in Quarantine’, il futuro della moda secondo 20 giovani creativi da tutto il mondo

Per Millennial, membri della Gen Z, giovani in generale la pandemia ha rappresentato un fenomeno dalle conseguenze se possibile ancor più disastrose che per il resto della popolazione, un colpo micidiale inferto a generazioni costrette già da anni a confrontarsi con crisi di ogni tipo – economiche, politiche, sociali, identitarie… – e prospettive oltremodo ristrette, angustianti (vedi alla voce emergenza climatica). Eppure, come vuole l’adagio, non tutto il male viene per nuocere, e c’è chi, nel lockdown del funesto 2020, ha colto un’opportunità inaspettata per ascoltarsi, per riflettere su ciò che è realmente importante nelle nostre esistenze mai così frenetiche e colme d’incertezza, sforzandosi di immaginare un futuro comunque migliore di questo tribolatissimo presente, a livello individuale e collettivo. Facendo leva magari sulla moda, che per sua stessa natura è espressione dello Zeitgeist, uno strumento formidabile per indagare la contemporaneità provando, allo stesso tempo, ad anticiparne cambiamenti ed evoluzioni.

Sono partiti da considerazioni simili Federico Cianferoni e Maxence Dinant, giovani autori del documentario Les Amateurs: Designers in Quarantine, in cui a riflettere sul futuro del fashion system sono creativi da tutto il mondo, dall’Europa all’India, da Londra a Buenos Aires, costretti – come da titolo – nelle rispettive abitazioni dal confinamento generalizzato dello scorso anno. Girati dagli stessi protagonisti, i filmati li mostrano all’opera durante le lunghe giornate della quarantena: le riprese indugiano su mani che sfiorano abiti in lavorazione, tagliano stoffe, tracciano figurini sul foglio, muovendosi su tavoli ingombri di “ferri del mestiere”, tra spilli, forbici, rotoli di tessuto, cartamodelli, libri, illustrazioni et similia.
Le venti personalità scelte sono ovviamente assai diverse tra loro, che siano però studenti o professionisti affermati, al servizio di griffe blasonate (saltano all’occhio nomi del calibro di Gucci, Alexander McQueen, Helmut Lang e Berluti) o indipendenti, condividono tutti la necessità, l’urgenza quasi, di tornare all’essenza della moda, creando per il puro piacere di farlo, assecondando un’inclinazione.

I due registi spiegano come lo spunto sia venuto dalle riflessioni condivise, nel marzo 2020, da Li Edelkoort: in una conversazione con il direttore di The Business of Fashion Imran Amed, la trend forecaster olandese, abituata com’è a indagare lo stato dell’arte del mondo fashion, aveva  parlato infatti di «inizio dell’epoca dell’amateur», sostantivo francese derivato dal latino amator (“colui che ama”) che, stando alla definizione della Treccani, designa una persona «che ha amore, inclinazione, trasporto verso un determinato oggetto», «chi si diletta di qualche cosa» oppure un «ricercatore, collezionista». Limitandosi all’industria modaiola, è dunque appropriato per indicare quei cultori che, nella loro pratica, canalizzano ed esaltano valori quali autenticità, inventiva, sostenibilità, artigianalità, dedizione, proprio come i designer che compongono il mosaico di voci della pellicola.

Aperto da una rapida testimonianza dei momenti surreali causati dal Covid-19, i cui effetti continuano tuttora a riverberarsi, il documentario consta di tre capitoli, introdotti da autorevoli insider: Angelo Flaccavento, critico, curatore e firma di punta di testate come Vogue Italia, Il Sole 24 Ore e System (L’Amore per l’autenticità), la coordinatrice italiana di Fashion Revolution Marina Spadafora (L’Amore per l’artigianato) e Sara Sozzani Maino, Head di Vogue Talents (L’Amore per il pianeta e il patrimonio mondiale).
Gli stessi Cianferoni e Dinant hanno d’altronde una certa dimestichezza col settore: il primo, regista e sceneggiatore di origine toscana, nel 2018 ha diretto un fashion film per la stilista Francesca Liberatore (How Far Is Our First Kiss) e il documentario sull’architetto della moda Gianfranco Ferré, Identity Through Ferré, vincitore nella sua categoria al Bokeh South African International Fashion Film Festival; il secondo ha un background da designer e, dopo la laurea alla Royal Academy of Fine Arts di Anversa, ha lavorato a lungo negli uffici stile di rinomate maison (tra le altre Jil Sander, Dolce&Gabbana e Salvatore Ferragamo), per poi studiare recitazione negli Stati Uniti e stabilirsi a Milano, dove si divide tra molteplici ambiti creativi, dalla scrittura alla regia.

I due film-maker, ritratti nelle foto che accompagnano l’articolo da Davide Musto, presenteranno Les Amateurs: Designers in Quarantine a Venezia dal 2 al 7 settembre, nella cornice del Venice Production Bridge, la sezione market della 78esima Mostra del Cinema; la discussione sui possibili – e auspicabili- scenari futuri della moda, più intimistici e a misura d’uomo, passa anche dal Lido.



Ph. Davide Musto
Ph. Assistant Angelo De Marchis
Stylist: Rosamaria Coniglio
Grooming Maria Esposito per Simone Belli Agency 
Location NH Collection Vittorio Veneto 


Tutto il denim F/W 2021

Quando si tratta di denim, la parola tendenza rischia di essere fuorviante: parliamo di una tela nata nell’Ottocento in Europa, dove era utilizzata per rivestire vele e merci delle navi mercantili, e codificata in forma di pantalone con tasche e rivetti di rame, nel 1873, da Levi Strauss (il fondatore di Levi’s), che ne fece un perfetto indumento da lavoro per cercatori d’oro e minatori della California.
Diffusosi urbi et orbi nel secolo successivo, incoronato nel 2000 da Time «The clothing piece of the 20th century», viene oggi proposto dalle griffe più disparate in innumerevoli lavaggi e fit, dall’ecumenico slim al modello svasato dal flair 70s, a quello a vita bassa, pronto al comeback dopo i picchi cafonal degli anni 2000, in cotone indaco come l’originale oppure total black, chiaro, candeggiato, delavé… Va inoltre specificato che, sebbene il termine sia ormai una sineddoche dei pants cinquetasche nel medesimo materiale, il jeans viene da tempo impiegato anche per realizzare camicie, giubbotti, giacche, perfino scarpe o borse.

Insomma, nonostante la storia secolare della stoffa/capo sembri cozzare con la ricerca spasmodica del nuovo che anima, da sempre, il circo della moda, passando in rassegna i lookbook dei brand che hanno una solida tradizione in materia si possono comunque individuare alcune keyword, che segneranno il denimwear nell’imminente stagione Autunno/Inverno 2021-2022.
Si può partire da Replay che, con una selezione denominata Back to work, tenta di conciliare comodità e stile comme il faut: così la camicia di lino e chambray, in una tonalità tendente al carta da zucchero, si arricchisce di taschini con patta e chiusura zip termosaldata, che forniscono un plus di praticità, mentre i chinos dal taglio regular assicurano leggerezza e versatilità.
Altra label da tenere in considerazione è Handpicked, attiva dal 2018 ma già sinonimo di jeanseria racé, frutto di una cura scrupolosa, quasi sartoriale, del prodotto; il guardaroba A/I 2021 delinea un’idea di lusso contemporaneo, insieme sofisticato e décontracté, tradotta in pantaloni dalla silhouette ben studiata, affusolata al punto giusto, disponibili in vari finissaggi, più o meno elaborati. Il marchio, inoltre, sposa senza remore la causa green attraverso le proposte Mood Eco, risultato di procedimenti a basso impatto ambientale, in filati che si fregiano delle certificazioni Gots e Oeko-Tex, contrassegnate da una speciale salpa in feltro.


Replay presenta per la collezione FW 2021 una camicia in denim con chiusura a zip
Replay-pantaloni-casual-marrone
Jeans cinque tasche classico di Handpicked con scoloriture
Retro dei jeans Handpicked con particolari cuciture sulle tasche

Replay, Handpicked

La presenza della tela blu è preponderante nelle novità stagionali di Tommy Hilfiger, capofila del casualwear americano: le mise targate Tommy Jeans, in particolare, sprigionano un fascino old school, tra giubbini sherpa foderati, cinquetasche dalla vestibilità sciolta e morbide camicie denim.
E ancora, abbondano di variazioni sul tema le collezioni di brand come Berwich e Tela Genova: il primo ricorre al denim per intessere calzoni loose fit caratterizzati da pinces profonde o tasconi cargo, il secondo ne recupera l’originaria essenza workwear, puntando su pantaloni dalla vibe retrò a gamba dritta, in nuance chiare o brunite (dal celeste al blu mezzanotte), cui si aggiungono giacche raw con impunture a contrasto e overshirt. Re-HasH, specialista della categoria, si sbizzarrisce invece in sfumature e lavaggi, mantenendo pulite e affilate le linee.


Total look denim nella collezione FW 2021 di Tommy jeans: giubbotto imbottito con bottoni e pantaloni dalle linee urban
Jeans Berwich FW 2021 dal taglio ampio che garantisce comodità e massimo comfort
Blue jeans classico con risvolti e gamba dritta di Tela Genova
Giubbino in denim blu scuro con impunture bronzo e due tasche di Tela Genova
Jeans cinque tasche Re-Hash relaxed fit con strappi ad arte

Tommy Jeans, Berwich, Tela Genova, Re-HasH

Per rendersi conto di come i jeans siano diventati un pilastro insostituibile anche del comparto luxury, è poi sufficiente un’occhiata alle passerelle A/I 2021: ce n’è per tutti i gusti, dalle versioni XXL – assai malconce – di Balenciaga ai modelli a sigaretta Saint Laurent, neri come la pece, passando per quelli stinti e laceri, fermi appena sopra la caviglia, di Celine, i modelli baggy firmati Dsquared2 (stravolti da inserti patchwork, cuciture irregolari, candeggi estremi o spalmature), il denim rigoroso, blu navy o bianco ottico, di Officine Générale, il decorativismo sfrenato, in un tourbillon di strappi, perle, catene, iridescenze e spruzzature multicolor, di Dolce&Gabbana. Soluzioni destinate a rinverdire il mito immortale dei blue jeans, consacrato a suo tempo da un gigante del fashion system quale Yves Saint Laurent, che ebbe a dichiarare: «Non c’è nulla di più spettacolare, pratico, rilassato e disinvolto»; uno statement valido, evidentemente, ieri come oggi.


Jeans con strappi ad arte nella collezione denim FW 2021 by Balenciaga
Jeans Celine in abbinamento a bomber mimentico: un must della stagione autunno/inverno 2021
Relaxed fit jeans indossati con cintura della collezione FW 2021 by Dsquared
Officine Générale sceglie un denim blu intenso e un taglio classico per la collezione autunno inverno 2021
Nella collezione FW 2021 di D&G anche il denim si riveste di paillettes

Balenciaga, Celine, Dsquared2, Officine Générale, Dolce&Gabbana

Models to follow: Luca Cobelli

Photographer: Manuel Scrima @manuelscrima
talent Luca Cobelli @l.cobelli
Stylist: Rosamaria Coniglio @rosamaria_coniglio
Stylist assistant: Filippo Todisco @itsfilippot
Make-up: Arianna Scapola @ariannascapola 
Hair: Giorgio Aloisio @giorgio.aloisioassistente
Digital Photographer assistant: Matteo Triola @matteotriola 
Hasselblad photographer assistant: Gianluca Specchia @gianlucaspecchia 
agency: Ilovemodels @ilovemodelsmngt 

Basterebbero gli oltre 280 mila follower su Instagram e la liaison professionale con Dolce&Gabbana a inquadrare Luca Cobelli come uno dei modelli italiani più hip.
Zigomi affilati, capelli leggermente mossi, physique du role di prammatica, per il ventenne milanese la partecipazione al reality show di Rai2 Il Collegio, due anni fa, si è rivelata un trampolino di lancio per il modeling, che gli sta regalando una soddisfazione dopo l’altra: è diventato infatti un habitué delle sfilate del brand meneghino (l’ultima, in ordine di tempo, la Spring/Summer 2022), posando inoltre per campagne, lookbook e scatti pubblicati sui canali social della griffe.
Di recente, poi, ha firmato un contratto di esclusiva, per alcuni stati europei e la West Coast americana, con la Two Management, dove sarà in ottima compagnia, considerato che l’agenzia rappresenta numerosi assi del settore, volti noti anche per chi ha poca dimestichezza con defilé et similia, da Jodie Turner-Smith – attrice rivelazione del 2019 – a supermodelli maschili come Oliver Cheshire o Mark Vanderloo.
Parlando con Luca dei vari aspetti del suo lavoro (debutto, esperienze più rilevanti, traguardi futuri…) emerge il ritratto di un giovane ambizioso e sicuro di sé, deciso a perseguire una carriera che, sebbene già lastricata di obiettivi centrati e riconoscimenti, è ancora tutta da scrivere.

Come ti sei avvicinato a questa professione, quali sono stati i tuoi inizi?
«Ho sempre cercato di stabilire una connessione con il mondo della moda, alla fine mi hanno contattato proponendomi uno shooting e ho accettato, poi è arrivata l’agenzia, altri lavori, ho cominciato insomma la gavetta, cercando di capire cosa significasse, nel concreto, svolgere questo mestiere. Per fortuna, sto riuscendo pian piano a farmi un nome».

Qual è stata, ad ora, la tua esperienza più significativa?
«Sicuramente il primo lavoro “serio”, l’Alta Sartoria di Dolce&Gabbana, un’occasione straordinaria per qualsiasi modello; ritrovarmi subito in un evento del genere è stato un grande passo, rimane tuttora l’esperienza cui sono più legato».

Con Dolce&Gabbana hai un rapporto per così dire privilegiato, che ti ha portato a calcare varie volte le passerelle della griffe, a prendere parte a campagne, editoriali & Co. Com’è stato lavorare con due stilisti del loro calibro, vuoi rivelarci qualche aneddoto o ricordo?
«Da Dolce&Gabbana mi hanno preso subito sotto la loro ala, già durante il secondo fitting Domenico (Dolce, ndr) ha preso a farmi dei complimenti; mi sono emozionato, per me era impensabile, fino all’anno scorso, anche solo immaginare di scambiare due chiacchiere con lui, però man mano mi sono abituato, ho iniziato a considerarlo come un datore di lavoro.
Mi hanno coinvolto in tante belle esperienze, dalle sfilate alle presentazioni in showroom, dall’e-commerce a una campagna che uscirà a settembre, aiutandomi a entrare in un’ottica diversa, più professionale; si è instaurato un buon livello di fiducia per cui mi chiamano spesso, da parte mia sono felice di mettermi a disposizione, hanno creduto in me sin dall’inizio, perciò dò la priorità alle loro proposte.
Non è da tutti poter lavorare per un brand simile, è un’opportunità incredibile anche per imparare; quello di Dolce&Gabbana è un bell’ambiente, con persone che ti seguono e supportano al meglio, c’è un senso di famiglia per certi versi».

Nel 2019 eri nel cast de Il Collegio, cosa puoi dirci del programma? In futuro ti piacerebbe lavorare nuovamente in tv?
«Per adesso preferisco concentrarmi sulla moda, non mi immagino di nuovo in un reality, danno grande visibilità ma non è una cosa positiva di per sé, anzi, è un’arma a doppio taglio, si rischia di venire etichettati solo come l’ennesima bella faccia. Inizialmente, poi, ho accusato la mancanza di privacy, giravo l’Italia come in un tour e mi sentivo sotto pressione.
Mi attrae il cinema, però è un discorso prematuro, in ogni caso è un ambito completamente diverso dalla tv, trasmissioni alla Grande Fratello o L’Isola dei Famosi non rientrano nei miei programmi.
Il Collegio è stata comunque un’esperienza positiva, una parentesi che mi ha dato molto, è grazie a quella notorietà se ho potuto esser preso in considerazione come modello».

Quali designer o brand apprezzi maggiormente?
«Sono un fan sfegatato di Virgil Abloh, ammiro anche Dior Men e Fausto Puglisi così come Dolce&Gabbana, con loro ho potuto constatare la mole – e la qualità – del lavoro che c’è dietro il marchio in termini di manifattura, cuciture, cura dei dettagli… Sono fortunato a poter assistere dall’interno a certe dinamiche, alla fine è un privilegio vedere come si crea, presenta e valorizza un prodotto in determinati contesti, ad esempio l’e-store».

Un marchio con cui sogni di collaborare?
«Dato il mio debole per Abloh non potrei non indicare Off-White e Louis Vuitton, tra gli obiettivi c’è poi senz’altro lavorare per Dior Men, è difficilissimo ma vorrei provarci».

Come descriveresti il tuo stile? A quali capi o accessori non rinunceresti mai?
«Il mio stile si modifica in base a dove mi trovo, con chi e perché, nel guardaroba, ad ogni modo, non potrebbero mai mancare un paio di t-shirt bianche e altrettante nere.
Lo stile penso stia nel trasmettere un’immagine, un’idea di sé attraverso gli abiti, per quanto mi riguarda preferisco restare nella mia comfort zone (jeans e maglietta), logicamente il discorso cambia quando è richiesta una certa immagine; se c’è da vestire appariscente mi adeguo, idem se bisogna “esagerare”».

Cos’è secondo te la moda?
«In linea generale un contenitore di creatività, una ricerca di sé attraverso il design, la visione creativa di qualcun altro, poi sta alla singola persona sposare la cifra di questo o quel brand».

Che rapporto hai con i social?
«Ho lavorato parecchio con i social, realizzando “da dentro” che per me l’ideale è trattarli come un gioco, usarli al meglio senza trasformare la propria realtà in quella di un personaggio di Instagram, appunto, come fanno alcune persone che finiscono per aderire totalmente al loro alter ego social».

La camicia di lino, il capo passepartout che non può mancare nel guardaroba estivo

Lieve, fresca, resistente, sostenibile, stropicciata quanto basta: la camicia di lino (la fibra tessile più antica, utilizzata già nel 6000 a.C.) è il capo estivo par définition, da privilegiare ogniqualvolta le temperature si attestino sopra i 30 gradi, per oziare in spiaggia o bere un drink a bordo piscina, una cena disinvolta o un’uscita formale. È ecumenica, amata da una clientela trasversale per età, inclinazioni e fisicità, si adatta egregiamente a una gran varietà di mise, regalando un pizzico di sprezzatura se portata sotto la giacca, da abbinare ai bermuda così come a jeans, chinos e – why not? – costumi, alle espadrillas tanto quanto a sandali, sneakers o mocassini.



Star del cinema, jet-setter, artisti, immarcescibili icone di stile ne hanno fatto la loro divisa d’elezione per i mesi più torridi, consolidandone l’aura di maglia jolly della stagione calda, comoda e raffinata in egual misura. Sono stati soprattutto alcuni (memorabili) personaggi del grande schermo a fissare nella memoria colletiva l’immagine – e il fascino – della camicia di lino: si pensi ai modelli sfoggiati da Alain Delon nel suo primo ruolo da protagonista in Delitto in pieno sole (1960), a maniche corte e lunghe, bianchi e neri, sempre carezzevoli; oppure alla blusa azzurrina (generosamente sbottonata, come le precedenti) indossata nel suo film più conosciuto, La piscina (1969). Opta per questo nobile filato anche Sean Connery, nelle vesti (sommamente stilose, ovvio) di James Bond in due capitoli della saga di 007, Thunderball – Operazione tuono (1965) e Si vive solo due volte (1967), dove appaiono esemplari della medesima, impalpabile consistenza, in gradienti diversi di rosa.
Stesso discorso per Julian Kaye/Richard Gere di American gigolo (1980), archetipo della nuova mascolinità edonistica degli eighties (anche) in virtù degli abiti firmati Armani, tra cui appunto le camicie light lasciate aperte sul petto, in colori tenui o cupi. Outfit simili fanno capolino anche in pellicole relativamente più recenti, come Gioco a due o Il talento di Mr. Ripley, entrambe del 1999.
Del resto, la lista dei divi di ieri e di oggi che hanno ceduto al fascino della linen shirt è interminabile: Paul Newman, Steve McQueen, Brad Pitt, Matthew McConaughey, Ryan Gosling, e l’elenco potrebbe continuare.

La moda “ufficiale”, logicamente, fa la sua parte: le passerelle maschili Spring/Summer 2021 hanno accolto un cospicuo novero di riletture sul tema, dall’infilata di varianti vista da Fendi (sottilissime, nivee, ricamate à jour) ai camiciotti scivolati, con collo rialzato, di Homme Plissé Issey Miyake, che mescolano lino e cotone in tele dalle nuance energizzanti (come lime e mandarino), passando per le versioni di Etro (su cui si accumulano striature maculate e disegni di tigri), Versace (oversize, ravvivata dal rigoglio di animali marini della stampa d’archivio Trésor de la Mer), Kiton (che ibrida camouflage e fronde stilizzate) e finendo con il beniamino del fashion biz Simon Porte Jacquemus, che per il brand omonimo propone una camicia color burro adornata di svolazzi fanciulleschi.



Da sinistra: Fendi, Homme Plissé Issey Miyake, Etro, Versace, Jacquemus

Chi volesse acquistare una camicia di lino in questo periodo, giusto in tempo per le vacanze (agognate come non mai, dopo i tribolamenti dei mesi passati), può approfittare peraltro dei saldi ancora in corso, assicurandosi i capi appena menzionati di Fendi (una camicetta bianca con motivi floreali appena più scuri), Homme Plissé Issey Miyake, Versace, Jacquemus ed Etro. Le alternative, ad ogni modo, si sprecano: scandagliando i vari e-tailer si trovano modelli in una profonda tonalità di blu (A.P.C.), con colletto alla coreana e tinti in capo, per conferire al tessuto una sfumatura unica, vicina all’avio (Boglioli), in perfetto western style, provvisti di taschini, bottoni automatici e fantasia check (Alanui); motivo finestrato, su base ocra, anche per quello a maniche corte di Nanushka, mentre Polo Ralph Lauren bada alla sostanza, con una shirt in 100% lino, abbacinante nel suo candore. Tutte le camicie si possono comprare ora a prezzi scontati, con la ragionevole certezza che rimarranno a lungo nel guardaroba, pronte a essere tirate fuori al primo accenno d’estate.




Da sinistra: A.P.C., Boglioli, Alanui, Nanushka, Polo Ralph Lauren

Il percorso artistico del ballerino e attore Christian Roberto, dai musical a Netflix

Ph: Davide Musto
Assistente ph: Dario Tucci

Il percorso di Christian Roberto si snoda tra danza e recitazione, due totem per il 19enne messinese, astro nascente della new wave italica. Dopo un precoce esordio in Italia’s Got Talent e la perfomance “sdoppiata” nel musical Billy Elliot (in cui interpretava sia l’omonimo ballerino che l’amico Michael), colleziona ruoli in fiction (Baciamo le mani o La vita promessa) e al cinema, da I poli opposti a Grotto fino alla grande occasione di Sulla stessa onda, pellicola drammatica di Netflix di cui è protagonista con Elvira Camarrone; una parabola artistica destinata, con ogni probabilità, a procedere spedita.



Nasci come ballerino, ben presto hai iniziato a recitare e poi ti sei diviso fra teatro, serie e cinema, c’è un’attività tra queste che prediligi, su cui vuoi concentrarti, oppure preferisci non fare distinzioni?

«Porto avanti in parallelo queste attività fin da piccolo e vorrei continuare a farlo, dedicandomi alla danza come alla recitazione; in generale preferisco il musical che le tiene insieme, però mi trovo bene con entrambe».

Sei co-protagonista del film Netflix Sulla stessa onda, vuoi parlarcene più nel dettaglio?

«Ho saputo del provino a Los Angeles e l’ho sostenuto subito dopo il rientro dagli Usa, in realtà non sapevo si trattasse di un film Netflix. Comunque è andata bene, ne ho fatti in seguito altri cinque e fin dall’inizio c’era la mia partner sullo schermo, Elvira, come coppia siamo piaciuti subito e alle fine hanno scelto noi. Un’esperienza incredibile, poter lavorare per una piattaforma del genere in un ruolo da protagonista è un sogno avveratosi, inoltre abbiamo girato nella mia Sicilia, un vero onore. È stato entusiasmante, tutti i giorni al mare in vela, tra l’altro né io né Elvira sapevamo andarci e abbiamo dovuto imparare nel mese di training prima delle riprese. Per non parlare poi di quanto è venuto dopo, l’ottima accoglienza, il successo e così via».


Hai 19 anni ma nel tuo curriculum annoveri già numerose esperienze, ce n’è una cui sei particolarmente legato?

«Sicuramente Billy Elliot, una delle esperienze che più mi hanno fatto crescere. Esibirsi al Sistina è stato davvero emozionante, senza contare che il titolo in sé è sempre stato un mio sogno, conosco a memoria il film e non appena il musical è arrivato in Italia, ho fatto le audizioni, ritrovandomi in tournée nei successivi due anni, una grande scuola. D’altronde sul palco non è come sul set, quando sbagli non puoi rifare daccapo la scena, devi recuperare velocemente in altro modo, essere reattivo.
Lo porto nel cuore, tra l’altro mi è valso il premio come miglior attore non protagonista agli Oscar italiani del musical del 2016, che ho ricevuto da Christian De Sica; quella sera ero l’unico minorenne e sono poi rimasto l’unico under 18 ad averlo ottenuto, in competizione con i miei maestri, non mi sembrava vero».

Come ti sei avvicinato alla danza? E oggi come la vivi?

«Da piccolo mio padre mi portava a calcio, come sport mi piaceva ma la cosa che preferivo era il goal, non tanto per il risultato quanto per la possibilità di esibirmi in una specie di coreografia; resosi conto che amavo la danza, mi ha quindi segnato a una scuola vicino casa, che ho poi cambiato per dedicarmi a stili diversi. Otto anni fa, infine, mi sono trasferito a Roma, proseguendo qui gli studi».



Total Look WE ARE DREAMERS

Il passaggio alla recitazione quando e come è avvenuto?

«La mia prima esperienza è stata da bambino la partecipazione a Italia’s Got Talent, dopo avermi visto un’agenzia ha contattato i miei per farmi proseguire nello spettacolo e, sebbene non sapessi di avere doti recitative o canore, abbiamo accettato la proposta. Il primo provino è stato per il musical La Bella e la Bestia, evidentemente hanno visto qualcosa in me, sono stato scritturato con tanto di corso di un mese (recitazione, canto, danza…). Ho passato quindi otto mesi al Teatro Brancaccio, appassionandomi a questo mondo, da allora non mi sono più fermato».

Il tuo mito è Michael Jackson, ora che la tua carriera è ben avviata ci sono altri artisti che ammiri, con i quali sogni – chissà – di lavorare?

«Sono un fan assoluto di Jim Carrey, conosco a menadito i suoi film, per le scene di Michael in Billy Elliot (che nel musical hanno reso più divertente rispetto al film) mi sono ispirato proprio a lui, rendendo questo ragazzino folle e iperattivo. Mi piacerebbe, un giorno, avere una parte comica in stile Carrey, dovendo fare due nomi direi dunque lui e Michael Jackson per la danza».


Descrivici la tua giornata tipo

«Quest’anno mi sto focalizzando sulla danza, piuttosto che frequentare un’accademia preferisco variare, scegliendo volta per volta gli insegnanti, così da essere il più versatile possibile e sperimentare stili differenti. La mia giornata tipo prevede sostanzialmente gli allenamenti, poi cerco di ritagliarmi momenti per gli amici. Giugno, inoltre, è un periodo di provini, ne sto facendo diversi».


Che rapporto hai con la moda?

«Mio padre, a Messina, aveva un negozio di abbigliamento di gran tendenza, molto noto perché assortiva capi decisamente particolari, stravaganti, soprattutto per una piccola città. Sono cresciuto con la moda e la mentalità è rimasta quella, mi piace vestire in un certo modo».



Hai dei brand o designer di riferimento?

«Dipende dal contesto, passo dalla tuta Nike all’abito, ad ogni modo non mi soffermo troppo su specifici marchi, ho dei must che indosso di continuo, su tutti il chiodo di pelle (sempre e comunque), apprezzo anche le sneakers più ricercate e a livello di brand nomi come Supreme. In sostanza mi piace essere alla moda, scovando però dei pezzi con i quali posso distinguermi».


Cosa ci dici dei progetti futuri, hai un sogno nel cassetto?

«Non posso dire granché, sono alle ultime battute per un film che verrà girato a ottobre, nel caso andasse a buon fine si accavallerebbe con un altro progetto e dovrò scegliere. Spero in generale si torni regolarmente al cinema, con il pubblico in sala a guardare magari un mio film».

‘Azioni in Trama’: arte e moda si incontrano nella collaborazione tra Iuad Accademia della Moda e Marzotto Wool Manufacturing

Tra gli effetti nefasti della pandemia, ormai è assodato, rientrano le difficoltà patite dagli studenti, che nel caso delle scuole di design, fashion e discipline artistiche in generale (dove è fondamentale unire teoria e pratica) risultano oltremodo accentuate. Alla luce di questo assume grande valore, anche simbolico, un’iniziativa come Azioni in Trama, nata dal connubio tra Iuad Accademia della Moda e Marzotto Wool Manufacturing, eccellenze nostrane per quanto riguarda, rispettivamente, la formazione nella moda e nel design e i tessuti preziosi, espressione di sapienza artigianale e savoir-faire orgogliosamente italiani.
Attenendosi al briefing e alle indicazioni concordate con l’impresa tessile, gli allievi del 1° e 2° anno dello Iuad hanno avuto quindi l’opportunità di esporre le loro creazioni nella mostra L’Arte come Azione e Creazione, allestita nella cornice a dir poco suggestiva di Castel dell’Ovo, complesso monumentale del XII secolo che, stagliandosi sull’isolotto di Megaride, garantisce una vista impareggiabile sul golfo di Napoli.
Azioni in Trama è frutto di una sinergia professionale nel segno del Made in Italy e del design raffinato, e prevede una serie di workshop e incontri tra azienda e studenti che si terranno sia nella sede partenopea, sia in quella milanese della scuola. Il percorso progettuale intreccia la ricerca accademica alla pregevolezza dei filati Marzotto, trovando una prima sintesi nelle opere realizzate per l’exhibition, presentate in un vernissage lo scorso 22 luglio e rimaste esposte per i successivi quattro giorni.



Negli artwork sparsi all’interno del castello, assai diversi per tipologia, carattere e resa, risuonano temi di grande presa al giorno d’oggi (tra gli altri sostenibilità, riciclo creativo, inclusione, cambiamento climatico, hate speech), che i giovani autori affrontano cercando di fondere volontà di far riflettere e senso estetico, affinato in anni di studio, declinando inoltre in nuove, fantasiose configurazioni i tessuti messi a disposizione dalla società di Valdagno.
Nella prima sala ci si trova davanti a installazioni quali La bellezza salverà il mondo di Roberta Cicala, che oppone alle tante criticità del presente la celebrazione del bello, inteso “semplicemente” come tutto ciò che ci circonda, compresi oggetti all’apparenza privi di valore; ne risulta una scultura con al centro un cuore pulsante sferico, acceso dalla luce vivida del neon e ricoperto di fiori, fibre e simboli delle principali metropoli, contornato da ammassi di cianfrusaglie e objet trouvé (tappi, banconote, mozziconi, scampoli di cotone…) che, così disposti, acquistano una pregnanza inedita. A poca distanza The musician, di Jonah Mae Gardose, combina tecniche di free-motion e slashing (qui ricamando con la macchina da cucire le stoffe, là tagliandole per rivelarne gli strati sottostanti), delineando il profilo di un musicista.



Proseguendo nell’itinerario si incontrano altre opere degne di nota, tra cui quelle ideate da Erika Troiano e Antonio Tafuro: nella prima (Is beauty really in the eye of the beholder?) l’autrice rilegge il mito di Medusa, descritta da Ovidio come una splendida fanciulla, violentata da Poseidone sull’altare consacrato ad Atena e tramutata, per punizione, in mostro dai capelli di serpente, vista qui come una vittima, un essere fragile che piange lacrime fluorescenti; la seconda, The only place of freedom, consiste in una toilette schermata da pareti in tela quadrettata, i visitatori sono invitati a personalizzarle con pennarelli e bombolette spray, alludendo al graffitismo anarchico, spesso goliardico che caratterizza i bagni delle stazioni di servizio.
Non mancano poi proposte prettamente vestimentarie, su tutte la puffer jacket Right-hand di Valentina Turri (un capo 3 in 1 grazie al sistema di zip, pannelli e tasche che consente di trasformare il giubbotto originario, dal finishing laccato, in tote bag o cuscino da viaggio) e gli abiti rugginosi di Michela Gambi che, memore degli outfit di Hussein Chalayan sotterrati nei mesi precedenti alla sfilata (solo uno degli innumerevoli, visionari esperimenti fashion dello stilista turco-cipriota), ha deciso di applicare viti, bulloni e piastrine metalliche a un paio di pantaloni e una blusa, esponendoli per settimane alle intemperie, lasciandovi depositare aloni rossastri dalle forme e sfumature sorprendenti.



Nel commentare l’evento, il Ceo di Marzotto Wool Manufacturing Giorgio Todesco si dice «soddisfatto della collaborazione, riteniamo molto importante che gli studenti di questo prestigioso istituto possano entrare in contatto con l’azienda […] Attraverso Azioni in Trama potranno confrontarsi […], utilizzare la loro abilità per ottenere dai nostri tessuti creazioni che parlino di sartorialità, con uno sguardo all’innovazione». Gli fa eco Michele Lettieri, presidente dello Iuad, che definisce «del tutto naturale» la scelta di legarsi alla textile company veneta, aggiungendo: «La forza della scuola sta nell’insegnare i segreti dell’artigianalità praticandola in chiave moderna e sperimentale attraverso il design, l’arte, la ricerca, la progettazione, la comunicazione. I nostri giovani studenti […] saranno i futuri lavoratori di alcuni settori trainanti dell’economia italiana nonché identitari della cultura nazionale: moda, design, architettura di interni».

Il menswear romantico e delicato di Bianca Saunders, neovincitrice dell’Andam Fashion Award 2021

Convincere una giuria composta dal gotha dell’imprenditoria e dei creatori di moda (giusto per fare qualche nome, il patron di Kering François-Henri Pinault, Renzo Rosso di Otb e Phoebe Philo, paladina dello chic intellò), aggiudicandosi un premio vinto, in passato, da stilisti della levatura di Martin Margiela, Jeremy Scott e Iris van Herpen, è indice di talento adamantino, una condizione indispensabile per farsi strada nel fashion biz; ecco perché, con ogni probabilità, sentiremo parlare a lungo di Bianca Saunders, fresca vincitrice dell’Andam Fashion Award 2021, che le assicura 300.000 euro e un mentoring sotto l’ala di Cédric Charbit, Ceo di Balenciaga. Il manager ha definito il progetto della sua nuova protégé «solido e unico, ancorato nei valori di oggi», una frase che sembra appropriata per descrivere l’idea di moda della designer, che a nemmeno trent’anni (ne ha 27) è riuscita a forgiare un’estetica riconoscibile e convincente, tanto da essere in lizza anche per il Lvmh Prize, che verrà assegnato entro l’anno.

Cresciuta in un quartiere periferico a sud di Londra, di origine giamaicana, Saunders si è laureata nel 2017 al Royal College of Art, avviando subito il marchio eponimo di abbigliamento maschile; una scelta, quest’ultima, tutto sommato insolita per una stilista esordiente, eppure lei sostiene di essere attratta dal menswear perché, come dichiarato in una recente intervista concessa alla sua ex università, crede che offra «spazio per cambiare» e, rispetto alla controparte femminile, abbia «molte più barriere da infrangere per quanto riguarda il modo di vestirsi e presentarsi agli altri».
Nel ready-to-wear della griffe, effettivamente, si riscontra una tensione costante fra tradizione ed evoluzione, indirizzata a sradicare le norme e i preconcetti che, per troppo tempo, hanno ingabbiato l’espressività degli uomini in materia di abiti, cristallizzando abitudini e divisioni manichee (streetwear vs couture, formale vs sportivo, fino a quella macro tra generi), respingendo quegli accenni di ambiguità e vulnerabilità a cui la designer vuole dare invece massimo risalto.



Ph. by Bertrand Rindoff Petroff/Getty Images
Ph. by Portia Hunt
Ph. by James Mason/WWD
Ph. by Adama Jalloh

Credits: Ph. by Bertrand Rindoff Petroff/Getty Images, Portia Hunt, James Mason/WWD, Adama Jalloh

Nel 2018 il British Fashion Council (l’equivalente della nostra Camera della Moda) la segnala come nome da seguire tra i nuovi astri della scena inglese, di lì a poco viene inserita nel calendario della London Fashion Week, debuttando con la collezione Spring/Summer 2019, Gesture; già in questa prima uscita “ufficiale” appaiono ben delineati i futuri assi portanti della proposta di Saunders, volta – come specifica la diretta interessata -a «catturare il movimento»: forme tendenzialmente over, pantaloni slouchy dalle cuciture sbilenche, con spacchi laterali che si aprono sul fondo, capi strapazzati ad arte, tra orli sollevati e arricciature a volontà (top, maglie e bluse avvitate, ad esempio, danno l’illusione di modellarsi direttamente sul corpo, torcendo e increspando il tessuto).
Creazioni che emanano un senso di candore e intimità, acuito nella successiva F/W 2019 Unravelling, dove il setting ricrea una camera da letto affollata di ragazzi delicati e pensierosi, la cornice ideale per abiti solo nominalmente classici (dal trench alla camicia, dal giubbino ai jeans) ai quali viene donato un twist muliebre attraverso effetti froissé, cut-out, slabbrature e consistenze impalpabili, con la palette che si mantiene su sfumature terragne.
Nel marzo 2019 Bianca Saunders finisce nella Dazed100, la classifica – redatta annualmente dal magazine – delle giovani personalità che meglio colgono lo Zeitgeist; subito dopo il brand entra a far parte di Newgen, programma di sostegno ai designer emergenti più meritevoli, e può dunque partecipare con regolarità alla settimana della moda londinese.


Ph. by Adama Jalloh

Credits: Ph. by Adama Jalloh, Silvia Draz

Bisogna dire poi che, da talento multidisciplinare qual è, non si limita a firmare (ottime) mise, coniugando inventiva e cura maniacale della confezione, ma sconfina volentieri in territori non necessariamente attigui al fashion come mostre (si può citare la collettiva Nearness, in cui ha raccolto i lavori di vari artisti, film-maker e scrittori di colore per celebrare il Black History Month 2019, oppure l’installazione presentata nel 2020 a Parigi, che consisteva in suit sospesi a mezz’aria, tenuti da fili invisibili) ed editoria, attraverso la pubblicazione di fanzine, riviste dalla patina underground in cui si sofferma su argomenti che la toccano da vicino (blackness, sessualità, libera espressione di sé, solidarietà e altri ancora), dando ampio spazio ad amici e creativi della sua cerchia, dal poeta James Massiah al fotografo Joshua Woods, alla modella Jess Cole.
D’altronde la stilista, per indole, è quanto di più lontano si possa immaginare dal cliché del couturier solitario, umbratile, chiuso nella torre d’avorio a tracciare bozzetti; preferisce, al contrario, circondarsi di persone altrettanto fantasiose, che la aiutino a perfezionare il modo di raccontarsi del marchio, che sia un fashion film o lo styling di una sfilata.

La consacrazione, o qualcosa che le assomiglia molto, arriva nell’infausto 2020, che per la griffe si rivela un’annata formidabile: a febbraio, l’inserimento in un’altra classifica di rilievo, quella dei 30 Under 30 di Forbes, nella categoria Art & Culture; a settembre, lo show S/S 2021 The Ideal Man, con ensemble più contrastati del solito, riflesso delle identità cangianti di uomini che tentano di conformarsi a precisi archetipi, optando per giacche e camicie boxy dalle proporzioni abbreviate su pants dritti come un fuso, pattern scombinati e denim dalla testa ai piedi (fornito da Wrangler, partner in crime di stagione); a novembre la partecipazione al GucciFest, festival pensato dal direttore artistico della maison fiorentina, Alessandro Michele, come una vetrina (digitale, visti i tempi) per i colleghi più promettenti della nuova leva, con un corto che presenta la Pre-Fall 2021, prosecuzione ideale del défilé precedente.
Nell’ultima collezione F/W 2021, invece, l’attenzione è tutta rivolta sulla plasticità degli outfit, resa mediante linee geometriche, nette, smussate però dall’abituale profusione di grinze e curvature che movimentano le superfici di giacchine corte sui fianchi, blouson striminziti, bomber e pantaloni tailored svasati.


Credits: Ph. by Silvia Draz

Nonostante  sia nato solo quattro anni fa, il brand di Saunders ha già conquistato la fiducia dei negozi “giusti”, come i londinesi Browns e Matchesfashion, il grande magazzino americano Nordstrom o l’e-shop Ssense. A riprova del fatto che la fragilità, oltre ad assumere un peso via via maggiore nella sfera emotiva dell’uomo contemporaneo, inizia a fare breccia anche nel suo guardaroba.

“Classic Nudes”, la guida al nudo artistico di Pornhub

Nell’arte il nudo, si sa, è un filone praticamente inesauribile dalla notte dei tempi, e che un sito porno (non uno qualsiasi per giunta, ma il portale per adulti diventato una sineddoche dell’intera categoria, dall’alto dei suoi 3,5 miliardi di visite mensili) abbia una certa qual dimestichezza con il costume adamitico è lapalissiano. L’accoppiata Pornhub-nudo artistico, quindi, potrebbe essere meno strampalata di quanto non appaia, eppure è destinata inevitabilmente a far discutere.
Il sito a luci rosse ha varato infatti l’iniziativa “Classic Nudes”, audioguide alternative ai capolavori che, nei secoli, hanno indagato il tema della nudità, custoditi nei sancta sanctorum dell’arte sparsi nel globo (il Louvre e il Musée d’Orsay di Parigi, gli Uffizi di Firenze, il Met newyorchese, il Prado di Madrid, la National Gallery di Londra).



Facendo sfoggio di spirito filantropico – l’intento, viene specificato, è sostenere i musei, in difficoltà per la raffica di limitazioni e chiusure susseguitesi nei mesi scorsi – la piattaforma permette ora agli utenti interessati, che si trovino fisicamente a una mostra o la visitino online, di ascoltare dalla voce della pornodiva e Pornhub brand ambassador Asa Akira una spiegazione che promette di essere assai “hot”, una «guida interattiva ad alcune delle scene più sexy della storia nei musei più famosi», come si legge nell’homepage. L’elenco completo è consultabile nella sezione dedicata: sono presenti dipinti e sculture degli autori più noti in assoluto, dal Bacco di Caravaggio a L’origine del mondo di Courbet, da Le déjeuner sur l’herbe di Manet a Betsabea con la lettera di David di Rembrandt, fino alla selezione di Another Perspective, una miscellanea di artwork uniti dal fil rouge del nudo (tele di Munch e Artemisia Gentileschi, busti, bassorilievi, ceramiche giapponesi…); in alcuni casi sono disponibili anche riproduzioni video, piuttosto accurate, delle opere, ovviamente adults only.




D’altronde, precisa ancora la nota, «Il porno potrebbe non essere un’arte, ma alcune opere d’arte si possono sicuramente considerare porno», e quale testimonial migliore del programma se non un’icona osé quale Ilona Staller aka Cicciolina, ex moglie di Jeff Koons (uber artista assurto da tempo al rango di autore in attività più pagato al mondo)? Nel filmato promozionale, assume una posa plastica che richiama la Venere botticelliana, erta sulla conchiglia e contornata da due (improbabili) epigoni di Zefiro e Ora, (s)vestita di un bodysuit color nude che lascia poco o niente all’immaginazione; invita lo spettatore a scoprire un «tesoro pornografico dal valore inestimabile», insospettabilmente nascosto nei musei, appunto.

Le reazioni, com’era prevedibile, non si sono fatte attendere: la Galleria degli Uffizi (in cui si trovano diversi masterpieces descritti in “Classic Nudes”, realizzati da maestri quali il citato Caravaggio, Botticelli, Tiziano, Ammannati e altri ancora) si dichiara pronta a diffidare MindGeek, holding proprietaria di Pornhub, che non avrebbe chiesto (né tantomeno ottenuto) alcun permesso all’istituzione fiorentina per l’uso delle immagini, che in base al codice dei beni culturali italiano risultano sempre vincolate all’autorizzazione del museo.
Il “matrimonio”, o rapporto occasionale che dir si voglia, tra la piattaforma regina del porno online e l’establishment artistico, insomma, non è cominciato nel migliore dei modi.

SuvAttack 2021: Holubar e Mercedes uniscono le forze per un viaggio sul Gran Sasso, tra arte, cultura e craftsmanship

L’unione fa la forza: un concetto spesso abusato ma assai calzante per l’attuale frangente storico, che ha mostrato la necessità della collaborazione, a tutti i livelli (sociale, economico, creativo). Devono pensarlo anche Holubar e Mercedes, realtà d’eccezione nei rispettivi ambiti (outerwear e automotive), artefici di un’iniziativa voluta per dare il giusto risalto ai valori che accomunano i due brand, tesi per vocazione a spingersi oltre, a superare costantemente i propri limiti per offrire ai clienti prodotti impeccabili sotto il profilo esecutivo, perfettamente bilanciati fra tradizione e rinnovamento. Il Ceo di Holubar Patrick Nebiolo, a tal proposito, precisa che l’operazione è figlia di «una visione molto simile, che unisce heritage e innovazione, un concetto, quest’ultimo, che oggi passa anche attraverso la sostenibilità e un forte impegno per l’ambiente».



Nasce da queste premesse “SuvAttack 2021: da Oaxaca al Gran Sasso”, un viaggio che ha toccato diverse località del gruppo montuoso più alto dell’Appennino; l’itinerario on the road si è snodato tra gli altopiani della regione, da Campo Imperatore al paese di Rocca Calascio (su cui troneggiano le torri del castello omonimo) fino a raggiungere Santo Stefano di Sessanio, borgo medievale dal fascino fiabesco, incastonato sulle pendici del Gran Sasso a 1.250 metri di altitudine.
Proprio tra le distese incontaminate caratteristiche di quest’angolo del Belpaese (un outback decisamente suggestivo, che negli anni ha ospitato le riprese di diverse pellicole cult quali Il nome della rosa, Ladyhawke e gli spaghetti western di Sergio Leone) è stato possibile ammirare Alebri-G, esemplare unico nel suo genere di Classe G, il mitologico fuoristrada del marchio della Stella. La sua storia merita di essere raccontata: è stato il team dello stabilimento di Graz (l’unico del gruppo Daimler tuttora deputato alla produzione della gamma) a rivolgersi alla coppia di artisti messicani María e Jacobo Ángeles per realizzare una versione eccezionale – nel vero senso della parola – del suv, trasformato in un’opera d’arte zapoteca su ruote. Ispirandosi agli alebrije del folklore messicano, spiriti-guida che assistono le vite delle persone (come degli angeli custodi, trasfigurati spesso in variopinti animali fantastici), il duo ha riversato la propria inventiva sull’auto, tracciando con minute pennellate in cromie sature (giallo, rosso, turchese, blu oltremare…) motivi che si ripetono ritmicamente sulla livrea, rendendo la Classe G in questione un connubio one of a kind di tradizione, cultura e maestria artigianale.



Il senso del colore, del resto, è un tratto identitario anche per Holubar, brand Usa che fa dell’abbigliamento outdoor la propria ragion d’essere sin dalla fondazione, avvenuta per mano di una coppia di alpinisti – Alice e Roy Holubar – 74 anni fa a Boulder, in Colorado; luogo non certo casuale, poiché la cittadina ai piedi delle Montagne Rocciose è la mecca americana di climber, escursionisti e appassionati di sport all’aria aperta in generale. L’azienda, nel tempo, si è distinta per l’approccio pionieristico al settore dell’outerwear tecnico, ad esempio utilizzando già negli anni ‘50 una combinazione di nylon e imbottitura in piuma come tessuto esterno di sacchi a pelo e capispalla, mettendo a punto l’imbottitura a sandwich, introducendo modelli reversibili e, soprattutto, il parka da montagna Deer Hunter, divenuto rapidamente “il” capo Holubar, chiamato così in onore del capolavoro di Michael Cimino del 1978, in cui a indossarlo erano nientemeno che Robert De Niro e Meryl Streep.
In tutto ciò, le tonalità accese fanno parte da sempre del vocabolario di stile della griffe, basti vedere il giubbotto arancione sfoggiato, appunto, da De Niro/Mike Vronsky ne Il cacciatore, oppure il duvet azzurro cielo di Jonathan Hemlock – alias Clint Eastwood – in Assassinio sull’Eiger (1975).

Una storia pluridecennale rinverdita, ora, da collaborazioni mirate (tra le più recenti quella con l’etichetta parigina Maison Kitsuné), dall’ingresso in selezionati department store e multibrand internazionali (da Le Bon Marché a Rinascente passando per El Corte Inglés, Galeries Lafayette, Merci e tanti altri, per un totale di 500 negozi tra Europa, Asia e Nord America) e dall’impegno green profuso in azioni come l’adesione al programma 1% For The Planet, per cui le imprese collegate devolvono l’1% delle vendite alle cause delle organizzazioni ambientaliste.
D’altronde la sostenibilità è uno dei principi alla base della partnership tra Holubar e Mercedes per il progetto SuvAttack, accompagnato dal claim “Stronger than time”; ché unirsi, lo si diceva all’inizio, vuol dire essere più forti.



Recitazione, moda, social: il talento prismatico di Fabius

Ph: Martina Chiapparelli

Hair: Idola Saloon Roma

22 anni, radici francesi ma attitudine cosmopolita, Fabius ha una creatività prismatica che riflette un approccio vitalistico all’arte in senso lato. Il suo carattere entusiasta lo spinge ad abbracciare con un’energia straripante, piuttosto contagiosa, la recitazione come pure la scrittura, la moda e il rapporto con i (tanti) follower, coinvolti in un dialogo ininterrotto che tocca spesso argomenti sui generis, dalla legge dell’attrazione alla mindfulness; nel mentre, si impegna per emergere nel cinema, per cui prova da sempre un amore incondizionato.

Lavori come modello e basta scorrere il tuo profilo Instagram per intuire quanto tu sia interessato a questo mondo. Cos’è per te la moda?

«Una grande forma d’espressione, sono convinto ci si possa esprimere attraverso l’abbigliamento e dunque presto attenzione alla ricerca dei capi senza farmi influenzare troppo dalle tendenze, mi appassionano le cromie, i possibili abbinamenti ecc.
Tempo fa avevo un blog – Oblivioncoffee – tra i più seguiti in Italia, gran parte delle persone che ora mi seguono su IG (che l’ha soppiantato) vengono da lì, magari apprezzano il mio rifuggire l’omologazione; penso valga anche per il cinema, ovviamente ho dei modelli di riferimento ma mi sforzo di distinguermi, di rendermi autentico in ogni sfumatura caratteriale, in tutto ciò che faccio e sono».



Come descriveresti il tuo stile?

«Innovativo, sebbene non sia un eccentrico credo la differenza stia nel dare un’impronta personale ad abiti non per forza estrosi o coloratissimi, aggiungendo dettagli alla mise o ricorrendo a tutto ciò che può differenziarci. Di base vesto casual, però mi piace usare tessuti particolari quali il lurex, ad ogni modo il discorso cambia a seconda del momento.
Sono camaleontico, una caratteristica che riverso anche nel percorso attoriale: può darsi, ad esempio, che esca in cappellino e sneakers perché sto sostenendo i provini per interpretare un ragazzino. Definirei il mio stile imprevedibile oltre che innovativo, muta adeguandosi alle esigenze recitative, assorbendo i tratti del personaggio».


Hai dei marchi preferiti? Ci sono capi o accessori cui non potresti rinunciare?

«Jacquemus e Louis Vuitton sono i due brand che riflettono al meglio il mio stile tendenzialmente ‘70s. Un capo cui proprio non rinuncio è il jeans, un bel paio di denim pants ampi credo facciano la loro figura con tutto».

Hai cominciato da giovanissimo a teatro, poi il trasferimento a Firenze per la scuola di cinema Immagina, il primo film e tanto altro. Riavvolgendo il nastro, quali sono le tappe di questo percorso che ricordi con maggior piacere?

«Mi sono trasferito a Roma proprio perché il sogno era – è – affermarsi nel cinema, ho iniziato da poco ma sono già arrivate occasioni importanti, anche per Netflix. Tra le esperienze migliori cito la masterclass diretta da Muccino o quella con Anna Gigante che mi ha poi segnalato a Sorrentino, è stato prezioso ricevere dei feedback da registi di tale livello. Tutti i set sono stati significativi, dai corti al film Re minore, che ha vinto il Festival Internazionale del Cinema di Salerno».




Hai citato la Nouvelle vague come genere di riferimento…

«Non posso non menzionare Godard, se penso ai dialoghi, ai tagli, ai piani-sequenza di Fino all’ultimo respiro… Inoltre amo Parigi, che nella pellicola è quasi un personaggio, al pari di Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo. Poi Truffaut, mi vengono in mente le citazioni felliniane di Effetto notte. La Nouvelle vague racchiude l’essenza del tipo di cinema che amo, un mezzo per conoscere tante realtà eterogenee, per allargare gli orizzonti».


Ci sono serie che catturano la tua attenzione?

«Mi sembra che cinema e tv odierni siano proiettati verso una dimensione più inclusiva, predisposti ad accogliere nuovi volti e storie, ne sono felice, pur avendo iniziato da poco posso concorrere a ruoli per piattaforme come Netflix; noto, insomma, una freschezza che ritengo peculiare di questo periodo. Apprezzo le serie, ma sinceramente guardarle a casa di continuo fa perdere loro un po’ di valore, non nego che sarebbe fantastico prendervi parte ma ad ora, se dovessi scegliere tra un serial dal grande seguito o un film non avrei dubbi, preferirei il secondo».


Parlando di attori e registi, chi apprezzi di più?

«Joaquin Phoenix, Pierfrancesco Favino e Belmondo, tra i registi apprezzo Özpetek per le sue storie coraggiose, Muccino per La ricerca della felicità… Comunque cerco di non legarmi ai singoli attori, trovo un po’ fuorviante il concetto alla base, nel senso, riconosco tutto ciò che alcuni artisti sanno regalarmi, preferirei tuttavia non menzionarli troppo, lasciare dentro di me uno spazio che non sia influenzato dal nome ».


Su Instagram e Clubhouse affronti spesso argomenti singolari, specie per il medium: fisica dei quanti, meditazione, consapevolezza ecc., vuoi parlarcene?

«Su Instagram mi divido tra outfit, contenuti fotografici e professionali, cioè una parte di me, come lo sono la legge di attrazione o la teoria dei quanti, perciò durante le dirette dedicate, con vari ospiti, ci confrontiamo sull’avere un atteggiamento mentale proattivo, sulla gratitudine, sul dare rilievo alle cose positive. Sono felice che argomenti simili abbiano ottimi riscontri, capita che intervengano personaggi come Stash dei The Kolors o Biagio Antonacci, oppure colleghi attori più o meno affermati: li invito a parlare delle proprie esperienze, del prendersi cura di sé, li coinvolgo in letture motivazionali e così via.
Su Clubhouse con la mia community (loro si definiscono Soulsfires) cerchiamo di capire come affrontare le negatività e lavorare su di noi senza lasciarsi condizionare dai giudizi, reagendo sempre e comunque a quanto ci succede; ne parlo come un ragazzo di 22 anni che invita chi ascolta a sfogarsi, a porsi in una determinata maniera, riuscendo ad aggregare persone di varie età; possono ascoltare e condividere perché non è uno spazio solo mio, dò volentieri la possibilità agli altri di raccontarsi».


Tre aggettivi che ti rappresentano.

«Camaleontico, creativo, riflessivo».




Su quali progetti stai lavorando ora, e cosa sogni per il futuro?

«Sono alla fine di una selezione per un personaggio inglese con accento francese. Mi piacerebbe partecipare al Festival di Venezia, mi era stato proposto in qualità di influencer però ho rifiutato, desidero arrivarci come attore. Quello che gli inglesi chiamano purpose per me è senz’altro la recitazione, non per il successo – più o meno effimero, piuttosto per la soddisfazione data dall’emozionare il pubblico; vedo ogni personaggio come un regalo, io in primis voglio arricchirmi, costantemente. Ho un forte senso di giustizia e odio i pregiudizi, vorrei arrivare a esser bravo abbastanza da non giudicare i personaggi interpretati, così che chi guarda possa fare altrettanto.
Poi mi attirano anche regia, inquadratura e composizione dell’immagine, al momento sono alle prese con una sceneggiatura che non so ancora come evolverà; avverto l’urgenza di comunicare, credo che ciascuno possa trasmettere qualcosa, non si tratta di ego o voler passare alla storia, quanto di amare ogni forma di arte, dalla scrittura alla recitazione. Vorrei continuare a esprimermi, a raccontarmi, ho questa sorta di furia vitalistica che spero di riversare sullo schermo, regalando emozioni agli altri».

5 brand emergenti da seguire dalle sfilate S/S 2022

La situazione attuale del settore della moda, con tempi e dinamiche frammentarie come non mai e i catwalk costretti, nella quasi totalità dei casi, a migrare sul web, sotto certi aspetti favorisce i designer emergenti, che se prima del Covid erano relegati ai margini dallo strapotere di maison ben più affermate, ora sono posti sullo stesso piano di queste ultime – almeno in teoria – dalla digitalizzazione forzata delle fashion week. Lo hanno certificato i calendari delle sfilate uomo Spring/Summer 2022 di Londra, Milano e Parigi (il Cfda di New York ha preferito accorpare le passerelle maschili e femminili nell’edizione di settembre), infoltiti da un cospicuo numero di brand emergenti.
Vediamo allora cinque tra i nomi più interessanti, distintisi nelle scorse settimane con le rispettive collezioni per la Primavera/Estate del prossimo anno.

Federico Cina

Vincitore nel 2019 del concorso Who is on next? (promosso da Vogue Italia e AltaRoma) e arrivato quest’anno tra i semifinalisti del Lvmh Prize, Federico Cina si prefigge l’obiettivo, ambizioso per un sistema della moda milanocentrico come il nostro, di consolidare l’etichetta omonima mantenendola saldamente radicata nella sua Romagna. Lo stilista, infatti, fa del territorio il centro di gravità del proprio universo creativo, intriso di romanticismo, eleganza rarefatta, tradizioni artigianali (inclusa quella alla base del motivo più rappresentativo del marchio, un intrico di foglie e grappoli d’uva ripetuto sui tessuti, ottenuto pressando la stoffa con stampi di legno intagliati) e rielaborazioni in forma d’abito dell’opera di esimi artisti locali, dall’onirismo di Fellini ai panorami di Ghirri.
E appunto da un topos squisitamente romagnolo origina lo show S/S 2022 Infanzia a mare, con cui Cina trasla i ricordi delle estati trascorse sul lungomare della Riviera (nuance sbiadite dal sole, righe marinare, reti da pesca ecc.) in outfit ariosi e charmant, contrassegnati da volumi fluidi, pull, canotte e shorts all’uncinetto, top annodati in vita, bisacce crochet adatte a portare con sé tutto il necessario per una giornata in spiaggia.



Federico Cina
Federico Cina modello estivo
Federico Cina camicia bianca
Federico Cina impermeabile
Federico Cina trasparente

Reese Cooper

Definire Reese Cooper un talento in rampa di lancio è eufemistico; a parlare, per il designer (che si considera un narratore, incline a raccontarsi attraverso gli abiti), sono i fatti, da snocciolare in ordine cronologico: due anni fa, Anna Wintour in persona ha speso per lui parole lusinghiere durante il gala del Cfda/Vogue Fashion Fund (Cooper tra l’altro ha sfiorato la vittoria, guadagnandosi i 150.000$ in palio per la seconda posizione); l’anno seguente, Forbes l’ha inserito nella classifica 30 Under 30 per la categoria Art & Style; sempre nel 2020, StockX gli ha riservato un documentario dal titolo (ironico) We’re Not Particularly Talented, We Just Try Hard. Dal suo headquarter di Los Angeles, questo 23enne dall’aria sorniona firma collezioni in cui campiona gli emblemi dell’American Style (workwear, preppy, abbigliamento sportivo & Co.) infondendogli una vibe rétro, apprezzate da clienti del rango di Travis Scott, Idris Elba e Bella Hadid.
A fornirgli l’ispirazione per la S/S 2022 è stata la location prescelta, un ponte nelle San Gabriel Mountains californiane, passerella ideale per accogliere uscite variamente ispirate all’hiking, dalla vestibilità soft; utility pants, giubbotti, overshirt e maglie tecniche sono i capi preponderanti, da cui occhieggiano fibbie di metallo per agganciare la borraccia termica, accessoriati da borse capienti e robuste scarpe da trekking. I colori sono quelli dell’area circostante, tra sfumature da sottobosco e lampi di rosso e bluette.


Sfilata Reese Cooper
Sfilata Uomo Reese Cooper
Sfilata Uomo Reese Cooper
Sfilata Uomo Reese Cooper
Sfilata Uomo Reese Cooper - uomini al completo

Ernest W. Baker

Ernest W. Baker, o come rendere nuovamente desiderabili i canoni sartoriali di un tempo: è questa, in buona sostanza, la stella polare del marchio portoghese attivo dal 2017, così chiamato in onore del nonno di Reid Baker (direttore artistico insieme a Inês Amorim), che ha avuto un grande ascendente sul nipote in termini di stile. D’altra parte i due designer, conosciutisi durante il master alla Domus Academy di Milano, sono sempre stati affascinati dai completi inappuntabili dei gentlemen incrociati nelle vie della città, ed è quindi logico che sia il tailoring l’oggetto privilegiato della loro pratica creativa.
Non fa eccezione la sfilata S/S 2022, un susseguirsi di suit doppiopetto dalle spalle pronunciate, pantaloni svasati con piega al centro, gilet sovrapposti all’accoppiata camicia e cravatta; mise rispettose dei dettami della sartoria d’antan, in cui viene però instillata una vena ora punk, ora fanciullesca, tra pins in ceramica smaltata fissate al bavero, tenute sporty dalla mano serica e roselline apposte su maglieria e denim.



Phipps

Nativo di San Francisco, hippie quanto basta, studi alla Parson School of Design di New York cui sono seguiti incarichi da Marc Jacobs e Dries Van Noten, Spencer Phipps è l’all american boy alle redini della griffe che porta il suo cognome; nata nel 2018 a Parigi, incrocia radici e interessi del fondatore (rintracciabili nell’insistenza su survivalismo, outdoor e un certo pragmatismo a livello di costruzioni e linee), un quid ironico e il tema della nostra epoca, la sostenibilità, che, lungi dall’essere mero espediente narrativo, si configura come un pilastro insostituibile nelle attività della label, dalle certificazioni che ne attestano l’aderenza ad elevati standard ambientali (Gots, Oeko-Tex e Rws) al supporto a organizzazioni come Oceanic Global o Usda Forest Service.
La formula di Phipps mira a scardinare gli archetipi della mascolinità, ed è centrale anche nell’ultima collezione S/S 2022, un’indagine a tutto campo sui codici del menswear più audace e performante: sulla pedana si danno il cambio avventurieri new age (muniti di pants con tasche applicate, zaini, maglioni in pile, anfibi al ginocchio e simili), raver in giacche denim grondanti ricami, toppe e spille, atleti i cui look fanno il verso alle divise di campioni come Dennis Rodman, John Cena o Éric Cantona (ad esempio magliette del Manchester United spruzzate di borchie oppure pantaloni “fiammati”), in un mashup di reference e ornamenti all’insegna dell’upcycling, tra cinture ricavate dagli pneumatici, collane objet trouvé e pantaloni patchwork assemblati da ritagli di pelle.

Phipps Men’s Spring 2022
Phipps Men’s Spring 2022
Phipps Men’s Spring 2022

Youths In Balaclava

Un gruppo di studenti singaporiani, determinati a sfidare consuetudini e convenzioni (anche) vestimentarie della florida città-stato asiatica, dà avvio a una produzione do it yourself di t-shirt, hoodie, jeans e altri basics dello streetwear, partita in sordina nel 2015 e notata due anni dopo da un’eminenza grigia della moda: si può riassumere così la storia di Youths In Balaclava, un collettivo con base a Singapore oggi sotto l’egida di Adrian Joffe (presidente di Comme des Garçons International e marito di Rei Kawakubo, vestale del concettualismo fashion più radicale).
La verve dissacrante è evidente fin dal nome, con il passamontagna assurto a simbolo di una visione ribellistica scevra da vincoli di sorta, ammiccando all’operato di Martin Margiela, che fece dell’anonimato un sinonimo di coolness.
Il défilé più recente del marchio, Ace of Spades (presentato con un filmato dal tono lo-fi), mette in fila pezzi immediati e grafici, dalle felpe lacere alle leather jacket borchiate passando per camicie western, pantaloni cargo multizip e magliette stampate come se piovesse, riproponendo quei capisaldi dello stile urban che gli hanno già permesso di trasformarsi da esperimento creativo a brand strutturato, venduto nei negozi Dover Street Market del citato Joffe.



La recitazione per Michele Ragno: un’arte da vivere intensamente, tra cinema e teatro

Ph: Dario Tucci

Ass ph: Edoardo Russi

Sono sufficienti poche battute con Michele Ragno per rendersi conto che, per l’attore 25enne, la recitazione sia una pratica in cui immergersi completamente, da perfezionare attraverso studio, dedizione e disciplina, e al contempo una questione di pelle, quasi un’urgenza personale. D’altra parte, il suo cursus honorum è lì a dimostrarlo: dopo gli studi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, ha lavorato con autori di rango, districandosi tra opere teatrali classiche, pièce moderne, tv (da 1994 a La stagione della caccia) e ora cinema con il film School of Mafia. La sua è dunque una traiettoria artistica in fieri, che spera possa permettergli di «mettersi in gioco e continuare a imparare».

Hai studiato all’Accademia per poi inanellare varie esperienze teatrali, tra cui uno spettacolo con Marion Cotillard. Cos’è per te il teatro, puoi raccontarci il tuo percorso in quest’ambito?


«Il teatro è dove tutto è cominciato, ho iniziato a sette anni e non mi sono più fermato. Dopo il liceo ho proseguito all’Accademia, lì ho capito che nulla viene lasciato al caso, ci sono dinamiche precise che necessitano di studio e disciplina; e ancora, ho incontrato registi come Emma Dante o Bob Wilson, la prima in particolare ha lavorato tanto su di me, cercando di decostruire e ricostruire, scavando, insistendo sui limiti corporei, aiutandomi a toccare corde che neppure conoscevo.
L’esperienza con Marion Cotillard è stata davvero emozionante e d’impatto, abbiamo recitato in piazza al Festival di Spoleto, davanti a 3000 persone. Lei è un’attrice estremamente sensibile, magnetica, riesce a farti vibrare qualcosa dentro, a volte mi sedevo nella platea e, semplicemente, mi abbandonavo alle sensazioni che sa trasmettere»



Al momento a quali progetti stai lavorando?

«A un riallestimento di Uomini e topi di Steinbeck, che presenterò insieme alla compagnia dell’Accademia al Festival di Spoleto».

Sembra si stia tornando alla normalità anche nel settore artistico, con cinema e teatri aperti e la ripresa di festival, rassegne e quant’altro. Ti chiederei, ex post, come hai passato il lockdown e come vivi ora la ripartenza.

«All’inizio è stato difficile, ho cercato di tenermi in allenamento, leggendo più del solito, praticando yoga, concentrandomi sulla respirazione, lavorando in sostanza sia sul corpo che sulla mente.
Ho poi avuto la fortuna di vivere la prima esperienza cinematografica in estate, subito dopo la chiusura, un’opportunità grandiosa».



Il film in questione è School of Mafia (attualmente al cinema), che declina in un’inedita chiave comico-grottesca un tema ampiamente esplorato quale la criminalità organizzata. Vuoi parlarcene?


«È un film comico dalle sfumature western; affronta un argomento assai delicato, trattandolo però con intelligenza, così da screditare la mafia, toglierle ogni forza attraverso la commedia, descrivendola come un anacronismo, un mondo bigotto e goffo. Per fare ciò, ricorre all’esempio di tre giovani figli di boss, che non intendono seguire le orme criminali dei genitori, contrapponendosi alle pratiche opprimenti e obsolete della mala. Girare School of Mafia è stata una fortuna in un momento complicato, per me ha rappresentato sul serio una scuola con diversi veterani dello schermo, un’esperienza travolgente sotto ogni aspetto. Sul set, insieme a Giuseppe Maggio e Guglielmo Poggi, ci ritrovavamo spesso in situazioni comiche, quindi bastava abbandonarcisi, vivere tutto con naturalezza».

Sei nel cast (d’eccezione) della nuova serie Rai di Bellocchio Esterno Notte, puoi dirci qualcosa in più?
«Il mio è un piccolo ruolo: sarò Franco Tritto, l’assistente personale di Aldo Moro, e ho avuto l’onore di lavorare al fianco di Fabrizio Gifuni (che interpreta il presidente Dc rapito dalle Brigate Rosse, ndr), attore meraviglioso da cui ho imparato moltissimo; anche nelle sue pause, si percepisce il modo in cui vive, in cui diventa il personaggio di turno, e questo aiuta chi gli sta intorno a porsi in una determinata maniera, detta il ritmo agli altri anche solo con la gestualità. Con lui si è creata un’energia comune che ci ha permesso di condividere appieno la scena, sono davvero contento di averlo visto all’opera».




Hai preso parte a diversi serial, da Il miracolo a 1994, a quali esperienze sei più legato?


«Ne Il miracolo avevo una parte minore, brevissima, in un flashback di Marcello/Tommaso Ragno, la porto comunque nel cuore perché è stata la prima in assoluto in tv.
In seguito ho girato 1994 e La stagione della caccia (parte di un ciclo di film ispirati alle opere di Camilleri, ndr); in quest’ultima, per una coincidenza incredibile, ho girato le scene in cui il personaggio compiva gli anni lo stesso giorno del mio compleanno. C’erano (di nuovo) Ragno, Donatella Finocchiaro, Miriam Dalmazio… In effetti sono sempre stato fortunato nel trovarmi accanto attori di questo calibro, compreso Accorsi nella scena face to face in aereo di 1994, una situazione piuttosto intima, ha favorito la connessione».


Ci sono generi non ancora sperimentati con cui vorresti metterti alla prova?


«Mi piacerebbe esplorare un thriller psicologico, lavorare su personaggi lontani da me costretti a fare i conti con i loro demoni, del resto adoro lavorare con il corpo, plasmarlo per aderire al personaggio, una situazione del genere sarebbe l’ideale».


Tra i tuoi colleghi chi ammiri particolarmente? E tra i registi?


«Nel panorama italiano direi Lino Musella, Elio Germano e Luca Marinelli, personaltà di enorme fascino scenico oltreché estetico. Tra i registi Nanni Moretti, Paolo Virzì e Matteo Garrone».




Come vivi la relazione tra personaggio e abiti di scena?


«Ricordo che una volta entrai di corsa in scena, indossando il mantello al contrario, la regista – Emma Dante – si infuriò e disse una cosa che non scorderò mai: “Il costume è come dici la battuta”. Mi è rimasta scolpita in mente, ho sempre grande cura degli abiti di scena, come fossero oggetti personali ai quali tengo. Ho una relazione molto intima con il costume, mi aiuta quasi sempre a dar vita al personaggio, indossarlo mi permette di essere lui al 100%, naturalmente prima viene il lavoro sul corpo e sulla voce, ma l’abito lo completa».


Fuori dal set, invece, che rapporto hai con la moda?


«Ho un debole per il vintage, mi piace vestire bene, di solito non cose appariscenti; ho molti capi in colori tenui, soprattutto camicie, cerco però di portare nel modo giusto anche la semplice combo t-shirt e jeans; ci tengo, non per apparire o altro, piuttosto credo abbia a che vedere con l’immagine che ho di me, per certi versi ciò che indossiamo ci rappresenta»




Cosa ti auguri per il futuro?


«Sicuramente non abbandonerò il teatro, sto pensando di mettere su uno spettacolo, adesso che ho scoperto il cinema, poi, voglio senz’altro continuare, sperando che l’esordio possa darmi una marcia in più; ho voglia di mettermi in gioco, di continuare a imparare, ci sto prendendo gusto».

Models to follow: Clinton, Daniel, Santiago

Da alcuni anni nel milieu creativo nostrano sta emergendo «una nuova generazione di italiani» – come la definisce un saggio pubblicato nel 2009 – con ascendenze eterogenee. Sono portatori di una visione e un ethos altri rispetto a quelli predominanti in un contesto impregnato di eurocentrismo, di valori spesso stereotipati che (finalmente) iniziano a cedere il passo all’intraprendenza di personalità determinate a imporsi nella musica (si pensi a Mahmood o Ghali) come nella tv (Skam Italia, Summertime, Zero…) o nella moda.
In quest’ultimo ambito, nello specifico, si fanno largo volti nuovi, modelli che prestano un’immagine fresca ed energica alle griffe di turno, spesso nati o cresciuti nel nostro Paese, forti di un background multiculturale e al contempo italianissimo; mostrano un approccio per certi aspetti più immediato e naïf – eppure d’effetto – alla professione, sulle passerelle come negli shooting.
Un’attitudine spontanea che trova degli interpreti ideali in Clinton, Daniel e Santiago, tre giovani talenti che, supportati dall’agenzia Models Milano Scouting, muovono i primi passi nell’industria fashion. Si sono ritrovati sullo stesso set, sorridenti e rilassati in total look Levi’s (poiché si tratta del marchio Usa, sarebbe più appropriato parlare di total denim, in lavaggi scuri dall’inconfondibile tonalità indaco) davanti l’obiettivo del fotografo Manuel Scrima.
Gli abbiamo rivolto alcune domande, per restituire un ritratto accurato di questi ragazzi, esempi di un’italianità diversa nell’accezione migliore del termine, slegata da cliché estetici o caratteriali.


Uno scatto in primo piano di Daniel, Clinton e Santiago durante lo shooting per Levi’s

Dall’alto: giacca in denim Levi’s Red Tab, camicie in denim Levi’s Red Tab

Primo piano di Daniel, Clinton e Santiago durante lo shooting in total look Levi’s

Da sinistra: camicie in denim Levi’s Red Tab, giacca in denim Levi’s Red Tab

La giacca Levi’s Red Tab indossata dai tre modelli italiani durante lo shooting

Da sinistra: camicie in denim Levi’s Red Tab, giacca in denim Levi’s Red Tab

Daniel, Clinton e Santiago in total look Levi’s

Dall’alto: camicia in denim Levi’s Red Tab,
giacca in denim Levi’s Red Tab, underwear Levi’s, jeans 551Z Authentic Straight Levi’s Red Tab,
camicia in denim Levi’s Red Tab

Clinton

Clinton è un 17enne afroitaliano appassionato e caparbio. Il segno distintivo del suo look sono i dreadlocks raccolti in hair jewels metallici, sfoggiati anche nell’editoriale sopracitato in cui indossa jeans e altri capi Levi’s, che ha rappresentato il suo primo, vero banco di prova nel modeling.

Come sei diventato un modello?

«Me l’hanno sempre suggerito, inizialmente mi sono rifiutato di provare, poi però ho cambiato idea».

Finora qual è stata l’esperienza migliore?

«È appunto questa, avere l’opportunità di partecipare a uno shooting ed essere intervistato».

Raccontaci qualcosa di te…

«Adoro giocare a calcio e mi piace scoprire cose nuove sul mio continente d’origine, l’Africa, ad esempio la storia dei singoli stati, argomenti che non abbiamo mai affrontato a scuola».

Anche in Italia si sono svolte proteste legate al Black Lives Matter, si comincia a prestare maggiore attenzione alle discriminazioni, a parlare di afrodiscendenti ecc. Tu come vivi e ti rapporti a tutto ciò?

«Secondo me ciascuno può pensarla come vuole, tuttavia la libertà di pensiero non deve mai tramutarsi in atti come offese o aggressioni per il colore della pelle, che purtroppo vediamo quotidianamente e limitano la libertà altrui, altrettanto fondamentale».


Cos’è per te la moda?

«Trovo che, perlomeno in quest’epoca, le persone vogliano vestirsi per esprimere il loro pensiero e personalità».

Ci sono brand o designer che apprezzi particolarmente, con cui ti piacerebbe lavorare?

«Il top sarebbe lavorare con quelli che mi piacciono di più come Off-White, Nike e altri che interpretano al meglio lo streetwear».

Un capo/accessorio che racchiude il tuo stile?

«Gli anelli che porto sempre sui capelli».

Social: quali usi e per quanto tempo.

«Instagram e YouTube. Con il primo mi divido tra svago e informazione, con il secondo guardo soprattutto video che trattano degli argomenti più discussi e in generale di avvenimenti storici».


Clinton indossa la camicia in denim Levi’s Red Tab


Camicia in denim Levi’s Red Tab

Daniel

Classe 2004, fisicità nervosa e longilinea da velocista, Daniel gareggia nel campionato italiano di corsa a ostacoli e si considera un atleta. La moda è una novità con cui prendere confidenza, ma gli ha già regalato una campagna per Yezael e l’ingresso nella scuderia milanese della IMG (l’agenzia, per intendersi, di top model quali Kate Moss, Karlie Kloss e le sorelle Hadid).

Raccontaci qualcosa di te…

«Ho 17 anni e vivo a Cinisello Balsamo. Sono un atleta, ho iniziato a fare il modello quest’anno, partendo decisamente bene tra editoriali, interviste e un servizio tv».

Come ti sei avvicinato a questo mondo?

«Mi hanno scritto dopo aver notato delle foto su Instagram, è cominciato tutto così».

Qual è stata finora la tua esperienza migliore?

«Sicuramente quella con Yezael, il mio primo shooting “serio”, ho scoperto solo dopo di essere finito sul Tg5, non me l’aspettavo, assolutamente».

Quali sono i tuoi brand o designer preferiti?

«Il mio brand preferito è Nike, casual chic e sportivo allo stesso tempo, mi piacciono molto anche Gucci, Balenciaga e altri che tendono allo streetwear».

Cosa ti piace fare, quali sono le tue passioni?

«Mi piace un sacco recitare, ho partecipato a un corto e a un video musicale. Nel tempo libero generalmente esco con gli amici».

Cos’è per te lo stile?

«Credo sia soggettivo, comunque non ha a che fare solo con l’indossare certi marchi, capita di vedere persone con capi griffati che, però, non risultano “vestite bene”; oltre agli abiti ci vuole personalità, creatività, bisogna sentircisi bene e farli propri».

Un capo/accessorio per cui hai un debole?

«Le collane».

Social: quali e per quanto tempo li usi.

«Non ci passo molto tempo pur avendo sempre il telefono in mano, però entro spesso su Instagram, anche solo per vedere i feedback».


Anche l’Italia è stata toccata dalle proteste del Black Lives Matter e si comincia a prestare maggiore attenzione alle discriminazioni, all’afrodiscendenza e così via. Tu come vivi e valuti tutto questo?

«Per la mia esperienza personale posso dire che crescere in Italia non è facilissimo, sei consapevole che avrai sempre e comunque gli occhi addosso, come quando a scuola si parla di argomenti come la schiavitù. È un qualcosa che mette a disagio e, allo stesso tempo, ti rafforza, non mi lascio mai intimidire, nemmeno dalle occhiatacce».


Un’immagine di Daniel durante il servizio fotografico che il modello ha realizzato per Levi’s

Camicia in denim Levi’s Red Tab

Santiago

Fisico slanciato, lunghi capelli corvini, Santiago ha sedici anni ed è di origini colombiane. Pratica atletica a livello agonistico, ma è determinato a perseguire la carriera da modello, tanto da spulciare online i catwalk più prestigiosi, in primis quelli di Maison Margiela, marchio di cui apprezza la verve anticonvenzionale.

Come e quando hai iniziato a fare il modello?

«Già due anni fa guardavo i video delle sfilate, mi piaceva l’idea di calcare una passerella vestito in un certo modo; poi mio zio, che lavora da Dolce&Gabbana, ha buttato lì l’idea di provare a fare il modello, mi sono “fissato” e ho cominciato a guardarmi intorno, inviando anche foto alle agenzie, finché ho visto una storia di Manuel su IG; alla fine ci siamo incontrati e ho avuto l’opportunità di mettermi alla prova con un’attività che sognavo da sempre».

Raccontaci qualcosa di te…

«Sono un atleta e questo mi ha sicuramente aiutato dal punto di vista fisico. Correvo fin da quando ero in Colombia (sono stato adottato), in Italia mi sono subito iscritto a una società sportiva e pratico atletica da nove anni, ho partecipato ai campionati italiani e recentemente agli europei. È sicuramente molto impegnativo, ma faccio tutto con enorme piacere.
Frequento inoltre lo scientifico, scuola tosta, devo star dietro anche allo studio che è necessario.
Poi la musica, una delle cose più belle in assoluto, la ascolto continuamente, anche subito prima di una gara perché fa salire l’adrenalina e mi aiuta a entrare nella giusta condizione».

Qual è stata ad ora la tua esperienza migliore?

«Lo shooting con Daniel e Clinton, mi è sembrato un lavoro appunto da modello, passato a fissare l’obiettivo, assumere determinate pose ecc., mi è piaciuto molto, a fine giornata ero esausto ma soddisfatto».

Hai dei marchi o designer preferiti con i quali, magari, vorresti lavorare?

«Mi piace molto Maison Margiela, una griffe davvero particolare, come del resto sono “strani” i suoi modelli, con delle caratteristiche rare a trovarsi, anche a me piace avere un look alternativo, che non segua troppo i trend. Sotto questo aspetto, penso Margiela sia un marchio cui ispirarsi perché al di fuori dei canoni che vanno per la maggiore.
Sarebbe un sogno lavorare con Calvin Klein, uno dei principali brand di cui apprezzo molto l’immagine, ricercata senza essere eccentrica».

Un capo/accessorio che esprime il tuo stile?

«Ho un debole per i gioielli, non esco mai senza un paio di bracciali o una collana: la mia preferita è quella che mi ha regalato mia nonna con delle pietre di fiume. In generale mi piace vestire in modo abbastanza elegante, magari con camicie strutturate, per costruire il mio outfit però mi baso di più sugli accessori».

Cos’è per te lo stile?

«Secondo me una persona ha stile quando, al di là che risulti vestita bene o male, è convinta dei propri abiti e riesce così a distinguersi».

Social: quali usi e per quanto tempo.

«Ultimamente uso molto Snapchat perché mi permette di restare in contatto con gli amici all’estero, poi Instagram per prendere spunto in termini di stile, novità dei brand, canzoni e così via».


Santiago posa per Levi’s con la camicia Red Tab

Camicia in denim Levi’s Red Tab

Paris Fashion Week S/S 2022: un’edizione phygital sospesa tra escapismo e voglia di normalità

Raccogliendo il testimone dalle passerelle meneghine nell’anticipare le linee guida del menswear per la prossima stagione calda, la Paris Fashion Week – andata in scena fino al 27 giugno – ha mutuato da Milano Moda Uomo la formula phygital, crasi che indica la commistione di défilé fisici e virtuali, con una netta prevalenza dei secondi. A fronte di sei show in presenza, infatti, sono stati 68 quelli digitali, per un totale di 73 brand ripartito tra new talent di belle speranze e marchi esemplari della couture, un mix che si ritrova anche nelle collezioni prese in esame, tra designer smaniosi di cancellare le angustie della pandemia a colpi di colore e outfit fantasmagorici e altri che, all’opposto, optano per creazioni “rassicuranti”, ovviamente confezionate comme il faut. A seguire, le proposte di sei griffe che ben sintetizzano la dicotomia stilistica appena menzionata.

EgonLab

È un pot-pourri in bilico tra sartoriale rimaneggiato, tropi di derivazione street, echi 70s e leziosità (pseudo)nobiliari la sfilata Spring/Summer 2022 di EgonLab, label in rapida ascesa guidata da Florentin Glémarec e Kévin Nompeix; «Un invito alla libertà», nelle parole del duo, concretizzato in ensemble prorompenti che mescolano liberamente must-have dell’urban style (giubbetti smanicati, camicie boxy, bomber, windbreaker, frutto anche della co-lab con Sergio Tacchini) e vezzi da gentiluomo di campagna inglese (fantasie minute a quadretti, giacconi matelassé, trench stazzonati, uso copioso del beige ecc.), forme attinte dall’abbigliamento sartoriale degli anni ‘70 (sagomate nella giacca, a zampa nel pantalone) e stravaganze giocate sulle tradizioni aristocratiche o cavalleresche, reali o meno che siano; queste ultime si manifestano nei molteplici tocchi playful, dai pugnali infilati nella giarrettiera ai blasoni posati su scarpe e tessuti, dai colletti di pizzo al bric-à-brac tintinnante delle catenelle di metallo, ché per il marchio francese noblesse oblige è un invito a divertirsi, a osare uno stile variopinto e sopra le righe.



Rick Owens

Rick Owens ambienta nel Lido di Venezia Fogachine, il défilé S/S 2022 che chiude in bellezza la parentesi lagunare del designer, approdato in città nel 2020. La nebbia del titolo simboleggia, nella visione del brand, un’esperienza ambigua, quasi soprannaturale, e dopo le collezioni più recenti (oltremodo cupe e severe) si allude ora a un’ascesi, da realizzarsi – ça va sans dire – attraverso gli abiti. Le linee, tanto per iniziare, sono secche e precise, con una stratificazione appena accennata; fanno eccezione i pantaloni, che sebbene possano ridursi a lacerti di stoffa tagliati al vivo, il più delle volte risultano liquidi, oppure solcati da cerniere che ne estendono il volume.
I modelli avanzano sulle note techno di Mochipet indossando tuniche fruscianti, canotte sbrindellate, aeree o incollate sul corpo, e top velati, portati all’occorrenza sotto capispalla scattanti con spalle rinforzate, ciclopiche come da prassi owensiana. Altrettanto grintosi gli accessori, tra occhiali a mascherina specchiati, monili-scultura e stivali con maxi platform.




Dior Men

Avezzo alle collaborazioni con artisti di fama mondiale, per lo show Dior Men S/S 2022 il direttore creativo Kim Jones fa le cose (ancora più) in grande reclutando Travis Scott, stella di prima grandezza del rap abituata a infrangere record di visualizzazioni e vendite, per la gioia delle molte aziende che lo hanno ingaggiato, da McDonald’s a Nike.
L’intento, spiega una nota, è unire i codici della maison alla mole di input fornita dalla guest star di stagione, che immagina il Texas (suo stato d’origine) come un luogo dello spirito, tra paesaggi desertici e grafismi che afferiscono all’etichetta discografica – e marchio personale – Cactus Jack. In un setting vagamente lisergico sfilano quindi i fili conduttori dell’era Jones (tailoring magistrale, monogrammi, borse dalle dimensioni contenute e compagnia bella) aggiornati à la Scott: così sui blazer sciancrati, chiusi lateralmente e con i revers sollevati, si appuntano spille e catenine bling bling, i pantaloni si allargano sul fondo, il motivo Dior Oblique viene rielaborato per ottenere la scritta “Jack”; per non dire della Saddle Bag sdoppiata, dei camicioni graffitati da George Condo, della profusione di ricami più o meno naïf, delle cromie che, ad eccezione del verde lime, appaiono polverose, come riarse dal sole (caffè, terra di Siena, rosa baby, malva, ceruleo ecc).
Una collezione che si preannuncia tra le più desiderate dell’anno venturo, applaudita da un parterre de rois formato, tra gli altri, da Robert Pattinson, Kate Moss e Bella Hadid.




Hermès

Tra le poche griffe ad aver optato per una sfilata dal vivo, Hermès concepisce da sempre l’abbigliamento maschile come una naturale prosecuzione dei valori che hanno reso le sue borse la quintessenza del lusso, cioè savoir-faire e qualità senza pari al servizio di un’eleganza misurata ed effortless, ammantata di quel je ne sais quoi tipico dello stile parigino; i 41 outfit in passerella ne sono la dimostrazione lampante, uscite che trasudano sofisticatezza, nelle quali il superfluo è bandito e la figura alleggerita sia nei volumi, sia negli abbinamenti.
Parka, soprabiti, blouson e altri capispalla lineari esigono pantaloni relaxed fit o bermuda, trattenuti da cinture in corda d’ispirazione nautica, annodate sul fianco, ai piedi stivaletti Chelsea o sneakers minimaliste. Fanno la differenza, al solito, tagli, costruzioni e texture delle proposte, che nonostante l’impressione di grande scioltezza rivelano una perizia sopraffina nelle lavorazioni, dal suède impalpabile agli effetti dévoré passando per coccodrillo felpato, traforature che delineano i profili di selle, cavalli e altri stilemi equestri cari al brand, pelle resa sottile come carta velina e cuciture in rilievo.
Una semplicità (soltanto apparente) che Véronique Nichanian, direttrice artistica dell’uomo di Hermès, eleva a epitome dello chic.



Davi Paris

Nell’ultima prova della sua label Davi Paris, Davide Marello recupera mollezze e sensibilità cromatiche abbastanza inconsuete nel menswear, per quanto homewear e affini abbiano incoraggiato il vestire comodo. Il designer limita la scelta a pochi, ragionati evergreen (magliette, camicie, suit, tank top, pantaloni a gamba dritta e così via) che colpiscono per l’uso munifico e inventivo del colore: boccioli, petali e tralci sono pennellati sui tessuti in tonalità decise o flou, riprodotti ton sur ton sullo jacquard o sfocati in pattern vibranti, esplorando un ricco repertorio di nuance, dalla gamma dei blu al rosso, dal glicine al verde brillante. Le calzature (sandali in pelle a doppia fascia) si accordano al mood studiatamente languido delle mise, ideali per chi, nell’attesa di tornare in modo definitivo alla normalità, voglia liberare la fantasia almeno nel proprio look.





Con la collezione S/S 2022 debutta il total look di PT Torino

Di fronte alle difficoltà e incertezze di questa fase storica, alcuni brand anziché tenere botta hanno deciso di rilanciare. È il caso di PT Torino, che ha fatto di trousers e cinquetasche in denim haut de gamme la colonna portante della propria attività sin dalla fondazione nel 2007: come spiega infatti Edoardo Fassino, Ceo di Cover 50 SpA (gruppo proprietario della griffe, ndr), l’ultimo anno è stato caratterizzato da «una profonda analisi che ha rimesso tutto in discussione, evitando di cadere nell’errore di considerare immutabili alcuni fattori di successo del passato».



Si è arrivati perciò a un ampliamento dell’offerta del marchio, con l’introduzione di camicie, capispalla, jersey e maglie, oltre 400 articoli in totale; una collezione a tutto tondo quindi, che affiancherà dalla Spring/Summer 2022 i pantaloni must di PT Torino e, come questi, aspira a sovvertire la nozione comune del “classico”, privandolo di sovrastrutture, elementi routinari e rigidità di ogni sorta, così da trasformarlo in un segmento del menswear contemporaneo e dal forte appeal, all’insegna di abbinamenti inusuali, virtuosismi costruttivi e un’attenzione meticolosa a forme e tessuti. D’altronde, continua Fassino, «Per noi un classico è ciò che riesce ad evolversi e restare sempre attuale senza perdere il suo valore intrinseco, è questo il concetto che vogliamo trasmettere».
Gli fa eco Domenico Gianfrate, direttore artistico del brand, che rivela come la spinta all’innovazione sia venuta «dalle lamentele dei nostri clienti e, in generale, dall’eccessiva staticità della categoria. Secondo noi, invece, i consumatori sono molto preparati e pronti a recepire le novità cui abbiamo pensato».



È sufficiente, in effetti, uno sguardo alle immagini del lookbook che presenta il ready-to-wear S/S 2022 per rendersi conto del carattere sperimentale dell’operazione: se i volumi si mantengono clean, prevedendo linee morbide in alternativa a quelle più asciutte, le scelte dei colori e, soprattutto, quelle materiche ribaltano le consuetudini, optando per filati tecnici o mix inediti (ad esempio lana accoppiata a mohair o jersey ultraleggero, cotone mescolato a viscosa oppure lyocell). Lavorazioni e tagli studiati al millimetro donano freschezza e duttilità ai capi, tra bowling shirt dalla linea squadrata, trench minimalisti interamente termosaldati e nastrati, texture mosse da stampe o righe marinière, camicie tramutate ora in overshirt, ora in bomber décontracté.
La rivisitazione del classico non può non passare, infine, dal fiore all’occhiello del marchio, i pantaloni: se i jeans esplorano fit assai diversi (dalla vestibilità skinny del modello Rock a quella loose del Reggae, all’oversize del Rebel), i chinos scoprono nuove declinazioni grazie all’aggiunta di note grintose quali zip e coulisse, oppure si ibridano con i cargo pants, preservando sempre quell’eccellenza nella confezione che, da ora in poi, distinguerà anche il total look firmato PT Torino.

Mos Design: il connubio tra moda e design secondo la direttrice creativa Sara Chiarugi

Direttrice artistica e co-founder, insieme a Michele Morandi, di Mos Design, Sara Chiarugi considera inscindibile il connubio tra moda e design, alla stregua di un continuum creativo in cui fondamenti e metodi dell’una sfumano con naturalezza nell’altra, e viceversa, alla continua ricerca di un equilibrio ideale tra le due discipline; l’unico assioma è l’artigianalità, subilimata in ogni prodotto, immancabilmente ideato, modellato e dipinto a mano nel laboratorio romano dello studio.
Abituata fin dagli esordi a tenere in equilibrio ambiti differenti, Sara si è fatta apprezzare in egual misura nel mondo fashion e del teatro, collaborando con mostri sacri della moda (Romeo Gigli, Gucci, Fendi, Saint Laurent) e costumisti quali Yanni Kokkos o il premio Oscar Gabriella Pescucci.
Nella sua pratica è centrale il dialogo tra scultura e arte tessile orientale (nello specifico lo shibori, millenaria tecnica giapponese che, attraverso la manipolazione dei tessuti, ottiene cromatismi unici, nel senso letterale del termine), avvicinate fino a fondersi in una crasi che trova la propria concretizzazione in tavoli, pannelli decorativi, quadri e altri elementi d’arredo, realizzati in collaborazione con vari studi di design e progettazione d’interni. È la stessa Sara, nell’intervista che segue, a precisare i contorni della sua prolifica visione, difficile da incasellare in categorie specifiche.



Quali sono i codici, i valori che definiscono l’identità di Mos Design?

«I codici dell’identita di Mos Design vanno individuati nella passione per ciò che ha segnato la nostra storia, una ricerca a ritroso verso il nostro passato nell’ottica di riproporne le caratteristiche principali in chiave moderna, ponendo attenzione a valori imprescindibili come la sostenibilità, che manteniamo laddove è possibile in tutta la filiera, imballaggi compresi».

Può parlarci del processo creativo che segue nel suo lavoro? Fonti di ispirazione, reference, step…

«Uno degli elementi fondamentali per me è lo sguardo al passato, l’esigenza di replicare un’entità che abbia una storia, come un muro di Roma vissuto, consunto e scrostato, che diventa una base da cui partire per poi mixarla all’idea del tessuto.
Mi appassiona da sempre tutto ciò che è “vecchio”, che presenta un’immagine degradata dal tempo; è per questo che ho voluto imparare lo shibori, un’antichissima tecnica giapponese che dona alla stoffa un aspetto vissuto, perché la tintura, muovendola, fa sì che ciascuna sia completamente diversa dall’altra, concretizzando il concetto di unicità.
In definitiva, riservo una profonda attenzione e rispetto al passato, riproposto per leggere i codici del presente».

Il segno distintivo dello studio è rappresentato dall’artigianato, ogni oggetto viene ideato, modellato e rifinito a mano nel suo laboratorio. Quali materiali predilige e come vengono lavorati?

«Sono sempre gli stessi, semplici: legno, vernici ad acqua, Mdf (una pasta di legno) sostenibile, stucchi composti di una parte in marmo ecc. Lavoriamo con tutti i materiali cercando di trasmettere fedelmente l’idea che ci ispira. Il metallo di Mos Design, ad esempio, è invecchiato, tanto da sembrare quasi ottone. L’artigianalità è insita nella realizzazione manuale dei pezzi, diversi gli uni dagli altri, le cui basi presentano un riferimento che ricorda i tessuti, come tartan, coccodrillo o texture effetto squame».

Parla, riferendosi a Mos Design, di “binomio moda e design”, di un’unione tra “mondi dalle comuni radici culturali” che possono condividere “strumenti e fondamenti”; le chiederei, dunque, quali crede siano i punti di contatto tra i due ambiti, e cosa ne apprezza di più singolarmente.

«Che sia per la moda o il design, lavoro sempre per ispirazioni, seguendo un mood, inoltre mi sono formata negli anni ‘80 e per me quel tipo di background è una sorta di Dna, lo ripercorro in ogni processo creativo. Ero parte integrante delle tendenze stilistiche di un periodo storico che mi ha segnata in profondità, oggi la passione per il mio mondo di appartenenza è rimasta intatta, sono ancora fedele a quella sensibilità tra il dark e il nordico.
Il punto fondamentale è che tutto ciò che produco parla stilisticamente lo stesso linguaggio, deriva dal mio gusto estetico».



Qual è il pezzo o progetto cui è legata maggiormente tra quelli realizzati finora?

«L’inizio è stato entusiasmante, sono davvero legata alle prime proposte di set di tavoli in tutte le misure e texture che siamo riusciti a realizzare; abbiamo avuto infatti riscontri positivi da subito, non riuscivamo a stare dietro agli ordini, tante erano le richieste».

Ci sono designer o marchi che le piacciono in modo particolare?

«Rick Owens e sua moglie Michèle Lamy, trovo siano sempre assolutamente coerenti, in tutto, fanno sempre ciò che dicono, anche a costo di risultare controversi e provocatori. Forse non vengono sempre apprezzati dal pubblico, ma restano fedeli al proprio credo».

Proviene dal mondo della moda, dove ha lavorato con maison del livello di Gigli, Gucci, Saint Laurent e altre ancora. Quali sono state le esperienze più significative?

«Il lavoro svolto da Saint Laurent, quando era disegnata da Tom Ford, è stata la soddisfazione maggiore: proprio perché fu l’ultima sfilata sotto la sua direzione, finì su tutti i giornali, ero felicissima di vedere le mie maglie dipinte ovunque. Al tempo facevo riferimento a Stefano Pilati, il suo assistente di allora, mi chiamarono chiedendomi delle proposte, nella collezione finì senza modifiche tutto ciò che avevo ideato, passando tre mesi a dipingere giorno e notte. Penso sia stata la gratificazione più bella, in assoluto, oltretutto vendette benissimo.
Ho lavorato spesso anche per la lirica, il teatro, i principali costumisti, sempre con grande soddisfazione per il contributo dato al successo delle opere».

Quali sono i progetti dello studio per il 2021?

«Quest’anno abbiamo deciso di non partecipare né al Salone del Mobile né a Maison & Object, ma abbiamo una grande novità per settembre: una libreria modulare, da interpretare in base agli spazi a disposizione, vedremo più in là se organizzare qualcosa».

L’estate addosso nella collezione S/S 2022 di Iceberg, tra sportswear, street culture e Pop Art

East Coast e riviera adriatica, abbigliamento sportivo e utilitywear, tocchi artsy e sottoculture musicali, comics e attitudine street: la collezione di Iceberg per la Primavera/Estate 2022 è un amalgama di suggestioni attinte da ambiti disparati, riunite per l’occasione negli stabilimenti della costa romagnola che fanno da cornice agli scatti del lookbook Uomo e Donna, scenari evocativi di un’estate inconfondibilmente italiana, tra distese di ombrelloni a perdita d’occhio, feste notturne pieds dans l’eau e partite sul bagnasciuga.
Il trait d’union dei look, sia maschili che femminili, è rappresentato dallo spirito giocoso ed irriverente che permea ogni singola proposta, in un métissage di stili e riferimenti ad alto tasso di energia, l’ideale per lasciarsi definitivamente alle spalle (o quasi) il senso di oppressione dell’ultimo anno e mezzo, fantasticando sulle vacanze di là da venire. Quella delineata dal brand del gruppo Gilmar è infatti «una nuova era» – per usare le parole del direttore creativo James Long, che vede protagoniste «persone decise a “provarci”, senza farsi trattenere dalla paura».




Il designer approfondisce la tradizione del marchio in tema di athleisure dall’animo luxury, rifacendosi alle tenute da gioco di due sport enormemente popolari oltreoceano, baseball e basket: così ampi bermuda, sweatpants, polo rigate, blouson, maglie smanicate e felpe con lettere sovradimensionate puntellano outfit che trasudano rilassatezza e joie de vivre, passando con disinvoltura dai pantaloni dalla foggia militaresca ai pullover décontracté, dalle coulisse che rifiniscono gli orli agli anorak dagli accenti rosso fuoco, senza che vengano mai meno note sartoriali handmade e tagli puliti, confortevoli. Completano il quadro stampe audaci in tonalità vivide – una specialità di Iceberg – che accolgono, al solito, elementi sottilmente kitsch e personaggi dei cartoon (nel caso specifico, Charlie Brown e Snoopy), oltre a scritte che reiterano ad infinitum il nome del brand, striature fluo sulle superfici della maglieria e disegnature dal tratto pop, su tutte le banane di conio wharoliano.


La palette cromatica richiama i gusti dello snack estivo per antonomasia, il gelato, alternando nuance verde menta, cioccolato, giallo limone, arancio ecc., con l’aggiunta di campiture nere, bianche, beige e blu Klein. Gli accessori ricalcano il mood di stagione, a metà tra sporty-chic e utilitarismo, a partire da marsupi e borselli crossbody ricorrenti, per proseguire poi con cappelli (da baseball o bucket hat), occhiali da sole allungati, sneakers dalle linee marcate, sandali e ciabatte slides fornite di microscopico pouch.
Le mise femminili, infine, sono speculari al menswear, e puntano in particolare sul carattere active dei capi, tra grafiche dal tono vintage, volumi over, zip, techwear, tessuti naturali abbinati a materiali innovativi come il taffetà ricamato.




Il ‘ritorno alle origini’ della collezione Giorgio Armani P/E 2022, nel segno dell’eleganza timeless

La pandemia ha segnato inevitabilmente una cesura anche nel mondo della moda, facendo tabula rasa di molte dinamiche date per assodate e costringendo i vari brand a ripensare l’offerta di prodotto, in alcuni casi la propria stessa identità creativa. Nel caso di Armani, tuttavia, questo stravolgimento ha piuttosto rafforzato un’idea del (ben) vestire da sempre distinguibile per l’esattezza, la solidità e la coerenza della visione di Re Giorgio, una sorta di continuo labor limae dei capisaldi che hanno consacrato l’omonima maison nell’empireo del fashion.
La collezione Giorgio Armani Primavera/Estate 2022 è solo l’ultima, sontuosa testimonianza dell’assunto, significativamente intitolata Ritorno alle origini, al quartier generale del marchio di via Borgonuovo, nel cuore di Milano, là dove tutto è iniziato oltre quarant’anni fa. Un ritorno che il designer intende come un concentrato degli essenziali dello stile (termine che, ribadisce, preferisce alla parola moda), sui lemmi inequivocabilmente armaniani che consentono di riconoscere tra mille una sua creazione.





Nel cortile dello storico palazzo meneghino sfila, dunque, una summa dell’eleganza maschile made in Armani, soffusa e superbamente noncurante, che vira sullo sportswear pur senza rinunciare al «senso di appropriatezza» – così lo definisce lo stilista – traducibile come un secco rifiuto degli eccessi, delle stravaganze fini a se stesse. Ci sono pertanto i pantaloni con le pinces, che scivolano languidi sulla gamba oppure carrot fit, dal fondo assottigliato, e i blazer destrutturati di prammatica, dalla proporzioni armoniose, che si accompagnano a maglie sottili, blouson o camicie intonse, e da sostituire all’occasione con combinazioni inedite, ad esempio giubbino e pants nel medesimo tessuto gessato, oppure con bomber, capispalla chiusi da zip e gilet, indossati anche a pelle; qui e là si stagliano fiori stilizzati, motivi geometrici dal sentore etnico e le iniziali del fondatore e direttore artistico, effigiate sulle texture a mo’ di sigillo di garanzia. Per la sera, ecco poi l’immediatezza, per certi versi radicale, delle bluse con collo a listino sui pantaloni scuri.
Le uscite trasmettono leggerezza e comfort, tra materiali ariosi che appaiono privi di peso e forme lineari che accarezzano il corpo, una sensazione accentuata dalle sfumature della palette cromatica, che vanno dal blu oltremare a sprazzi di rosso e verde, dal bianco gesso al greige, una tonalità quest’ultima in puro Armani style, come del resto l’intero show.




L’eterno ritorno del preppy, lo stile college che piace (anche) a star, marchi street e Gen Z

Dopo mesi e mesi trascorsi prevalentemente in casa, vestiti alla bell’e meglio con tute informi, pigiami & Co., curando il look al massimo dalla vita in su per adeguarsi ai canoni dello zoomwear (l’abbigliamento formato videochiamata), è alquanto strano immaginarsi alle prese con camicie button down, cardigan, pullover a trecce e altri punti fermi del preppy, l’abbigliamento “perbene” diffusosi negli Stati Uniti dagli anni ‘50 attraverso le divise degli studenti delle preparatory school (preppy è appunto un’abbreviazione del termine) e delle università appartenenti al titolatissimo circuito Ivy League. Eppure non ci sarebbe nulla di strano nel fatto che un periodo a dir poco complicato venga seguito dal ritorno a uno stile habillé, curato fin nei minimi dettagli: interpellato dal sito Oracle Time a gennaio, il direttore del corso in Fashion Design della University of Westminster Andrew Groves spiega, infatti, che «In tempi di crisi economica, disoccupazione e futuro incerto […] adottiamo un approccio molto tradizionale e formale a ciò che indossiamo».
A ben guardare, effettivamente, nei reami della moda – fenomeno ciclico in sé – lo stile college è un fiume carsico che appare e scompare a intervalli più o meno regolari, e mettendo in fila una serie di elementi c’è da credere che sia arrivato l’ennesimo affioramento; ruota ovviamente intorno ai cardini della categoria (penny loafer spazzolate, pantaloni con la piega, maglie da rugby, varsity jacket e via discorrendo), conferendogli però un quid disinvolto, in ossequio a quella spigliatezza nel vestire che un anno e passa di pandemia ha reso un dogma inderogabile.




Il mese prossimo, tanto per cominciare, debutterà su Hbo Max il reboot di Gossip Girl, telefilm cult nel primo decennio del 2000, incentrato su un gruppo diliceali dell’altà società newyorchese tutti party, limousine, shopping sfrenato, beghe familiari e amorose spifferate dall’anonima ragazza del titolo. La nuova versione si preannuncia inclusiva e queer friendly, a partire dal cast totalmente rinnovato che va da Evan Mock, skater e modello dall’inconfondibile buzz cut rosa bubblegum, all’ex enfant prodige dell’editoria digitale Tavi Gevinson; vestiranno i panni (azzimati, of course) dei rampolli dell’Upper East Side di Manhattan, tra chinos color sabbia, cravatte a righe portate lasche sulle camicie, mocassini lucidati a specchio, blazer e felpe rifinite dagli stemmi dei (fantomatici) istituti d’élite frequentati.

Ci sono poi le iniziative di griffe come J.Crew o Gap, gloriosi simboli del casualwear made in Usa costretti a fare i conti con travagli economici e una generale perdita di appeal, soprattutto tra le giovani generazioni, che la chiusura dei negozi dovuta al Covid-19 ha ulteriormente accelerato. Il primo nel 2020 ha addirittura dichiarato bancarotta, avviando una fase di ristrutturazione culminata con la nomina di Brendon Babenzien alla guida della divisione maschile.
Il nome a molti non dirà granché, ma si tratta del designer che ha guidato per anni l’ufficio stile del brand street per eccellenzaSupreme – e del co-fondatore di Noah, label particolarmente apprezzata per l’abilità nel rivisitare gli essentials dell’abbigliamento di stampo classico (polo a maniche lunghe, pantaloni con le pinces, doppiopetto pied-de-poule, completi in velluto a coste ecc.) elevandoli al rango di novelli desiderata maschili grazie all’aggiunta di tocchi spesso imprevisti e scanzonati, che siano ghirigori floreali, fodere in tartan dagli accenti flashy o righe multicolor, che ha collaborato tra le altre con Barbour (marchio preppy in purezza) scombussolando l’aplomb british delle giacche cerate preferite dai Royals a colpi di paisley, tonalità evidenziatore, adv d’archivio e zebrature.

Il suo è dunque il nome giusto, in teoria, per ridare slancio a un’azienda appannata come J.Crew, che ha costruito la sua fortuna sui pezzi basici e rischia adesso di risultare passé.




Un discorso simile vale per Gap, nato nel lontano 1969 e divenuto un colosso dell’abbigliamento riempiendo i negozi di maglie d’ispirazione collegiale, articoli in denim, calzoni khaki e altri American classics dall’invidiabile rapporto qualità-prezzo, fino agli odierni periodi di magra. La proprietà prova a superarli, da un lato, annunciando un drastico taglio dei punti vendita, dall’altro mettendosi nelle mani di colui che nel bene o nel male (de gustibus) ha segnato le cronache modaiole degli ultimi anni, ovvero Kanye West. Il rapper, produttore ed ex marito della bombastica Kim Kardashian firmerà una collezione in esclusiva per la catenaribattezzata Yeezy Gap, l’equivalente a buon mercato della linea di streetwear con cui ha ottenuto successi planetari. Un assaggio si è avuto con l’uscita del primo frutto della collaborazione, un giubbino in nylon imbottito azzurro dalla silhouette aerodinamica, ovviamente sold out a tempo di record.


Una spinta non secondaria l’hanno data anche, di recente, alcuni big dell’industria musicale come Tyler, The Creator, Pharrell Williams e Asap Nast, decisamente a proprio agio con indosso gilet, blouson zippati, maglioni con scollo a V, suit dai toni cipriati e tutto il corollario guardarobiero degli studenti di buona famiglia che, a suo tempo, tracciarono le coordinate del college style, contribuendo inoltre, con la loro personalità istrionica, a stemperarne la marcata connotazione wasp (letteralmente white anglo-saxon protestant, i cittadini bianchi appartenenti alle classi più abbienti degli Usa) che lo ha accompagnato fin troppo a lungo.
Last but not least, i circuiti ufficiali della moda: va citata, in primo luogo, la capsule collection Boss x Russell Athletic, presentata a marzo con uno show-evento che ha coinvolto una pletora di influencer, celebrità e top model (da Bella Hadid a Lucky Blue Smith passando per Keith Powers e Ashley Graham) in un trionfo dell’iconografia preppy in salsa sportiva, tra cardigan, felpe logate da campus universitario, camicie Oxford, completi dégagé rosa salmone o blu navy, spolverini tagliati da bande ton sur ton e via così.



Pullulano di spunti collegiali pure le sfilate per la stagione in corso, a partire dalla Ouverture of Something that Never Ended di Gucci (svelata nella già mitologica miniserie diretta da Gus Van Sant), in cui appaiono polo color block, maglioni a rombi e abiti madras, spesso appaiati a bermuda sartoriali, calzettoni al ginocchio e loafer; la collezione S/S 2021 di Rhude, invece, è colma di giacche varsity, mocassini scamosciati e maglieria in nuance terrose, mentre da Maison Kitsuné abbondano capi fantasiosi in stile rugby, girocollo bon ton e tessuti finestrati. E ancora, nella sfilata di Amiri campeggiano giacche collegiali di ogni tipo, minimaliste oppure profuse di stemmi e toppe, da Lacoste l’aspetto compìto di pullover profilati, gilet e shirt viene ravvivato da sfilacciature e tinte piene, mentre Ernest W. Baker propende per soprabiti scivolati, quadretti gingham e iniziali ricamate sui taschini.

Allargando lo sguardo alla stagione fredda che verrà, la musica non cambia: si notano elementi preppy in quantità su molteplici passerelle, da Isabel Marant a – di nuovo – Boss, da Wales Bonner a Etro. La tanto agognata ripartenza post-Covid, insomma, potrebbe essere all’insegna di un dress code che, nonostante sia comparso decenni or sono, dimostra di poter ancora fare scuola – o meglio, college.

Tombolini e Tenuta Colpaola, una veste d’autore per la nuova etichetta Sacrifizio

Oggi più che mai, per rimanere rilevanti i brand devono aprirsi ad ambiti affini alla moda, che rispecchino i valori, i tratti fondamentali della propria identità stilistica. È esattamente questo il caso dell’ultima iniziativa intrapresa da Tombolini e Tenuta Colpaola, due realtà d’eccellenza delle Marche, espressione compiuta del genius loci di un territorio ricco di storia, cultura, heritage tout court, anche e soprattutto a livello di tradizioni artigianali ed enogastronomiche.



Il marchio sartoriale di Urbisaglia, sinonimo da oltre mezzo secolo di formalwear di alta gamma in cui il saper fare italiano si traduce in abiti elegantemente contemporanei, dinamici e riconoscibili, ha stretto infatti una collaborazione con l’azienda vinicola del maceratese (un locus amoenus a ridosso del Monte San Vicino, dove natura e agricoltura si integrano alla perfezione), “vestendone” la nuova etichetta, Sacrifizio. Un rosso Taglio Bordolese armonico e sfaccettato, frutto di dieci anni di ricerche e perfezionamenti, necessari a unire il gusto pieno e rotondo del Merlot d’altura marchigiana al rigore del Cabernet Franc friulano. Il risultato è un vino energico, dirompente, particolarmente audace considerata la vocazione della regione alla produzione dei bianchi, dalla tonalità intensa e compatta, che presenta un sentore deciso e sensuale ma al contempo etereo e, una volta assaggiato, rivela l’equilibrio complesso raggiunto dall’accostamento di materie prime differenti che, pur amalgamandosi, non rinunciano a una nota contrastante.

La cifra di Tombolini è riconoscibile a colpo d’occhio già nella bottiglia dal look tailor made, su cui è drappeggiato un nastro di tessuto color burgundy rifinito dal logo della griffe, un drago sovrapposto all’iniziale maiuscola; l’accessorio, raffinato e fantasioso, può essere usato come salvagoccia o, perché no, tramutato in una vezzosa pochette, da infilare nel taschino o lasciare adagiata con studiata nonchalance sul polso.



La proposta viene completata dalla custodia circolare in pelle scura, il cui profilo ricorda quello delle boîte (i bauli tondeggianti usati dai viaggiatori più charmant nel XIX secolo); sul fronte sono stampigliati, in caratteri dorati, il nome dell’etichetta e quelli dei due marchi, protagonisti di una partnership destinata a fare la felicità dei novelli epicurei e di chiunque metta sullo stesso piano la qualità del vino, un rosso unico nel suo genere, e la pregevolezza di una veste d’autore firmata da un nome simbolo del tailoring.


A tu per tu con Francesco Arca: esordi, passioni, progetti passati e futuri

Ph: Davide Musto

Styling: Stefania Sciortino

Ass ph: Michele Vitale, Eleonora Cova Minotti

Grooming: @simonebellimakeup

Location: Corso 281 Luxury Suites Roma

Toscano doc (è nato a Siena nel 1979), l’attore Francesco Arca si è avvicinato alla recitazione quasi casualmente, grazie anche alla notorietà regalatagli nei primi anni Zero da alcuni programmi e reality show, ma da allora non l’ha più abbandonata, costruendosi una solida carriera. Dopo gli inizi in fiction dal grande seguito è approdato al cinema d’autore con Ferzan Özpetek – che l’ha voluto al fianco di Kasia Smutniak in Allacciate le cinture (2014), poi sono arrivati serial italiani (Sacrificio d’amore, La vita promessa, il recente Svegliati amore mio) e di respiro internazionale come Los nuestros o Promesas de arena. A breve lo vedremo in nuovi titoli per il grande e piccolo schermo, come ci ha confidato nell’intervista che segue.

In questo momento sei sul set, a cosa stai lavorando?

«A una serie per Canale 5 di cui sarò protagonista con Vanessa Incontrada, girata quasi del tutto ad Arezzo; per la prima volta interpreterò un personaggio appunto toscano, il che mi riempie di soddisfazione. Sono anche sul set di una serie Netflix e, a fine giugno, inizieranno le riprese del nuovo film di Lillo, in questo caso si tratta di poche scene per un piccolo ruolo, ma sono contento di dare il mio contributo».



La recitazione è sempre stata tra i tuoi obiettivi oppure è venuta fuori man mano?

«Non era assolutamente tra i miei obiettivi, all’inizio per un discorso di emulazione della figura paterna volevo fare il militare, poi ho intrapreso un percorso televisivo di cui mi sono stancato dopo un paio d’anni, lasciando anche Milano che per me rappresentava quell’ambiente lì.
L’amore per la recitazione è nato quando mi sono fidanzato con Laura (Chiatti, ndr), seguendo lei, accompagnandola sui set dove ho cominciato silenziosamente a guardarmi intorno, a osservare; ben presto mi sono fatto coinvolgere dalla magia del cinema, così ho cominciato a studiare, a inserirmi pian piano in questo mondo, da lì è partito tutto».



Sei stato tra i protagonisti di Allacciate le cinture (2014) di Özpetek, cosa puoi dirci di quell’esperienza, com’è stato lavorare con un autore della sua caratura?

«È stata un’esperienza unica, all’epoca non riuscivo a rendermene conto appieno, tornandoci a distanza di anni ne traggo delle considerazioni che prima non sarei stato in grado di fare, su tutte quanto mi abbia aiutato in termini lavorativi girare un film con lui, quanto si possa imparare da un maestro del genere, che ti fa capire come, alla base di questo mestiere, ci sia sempre l’emozione, nel bene e nel male bisogna emozionare il pubblico.
Özpetek insisteva molto proprio sul piano emozionale, sul far rivivere determinati momenti, non era un lavoro tanto pratico quanto psicologico, perlomeno prima di girare, quando mi ha fatto entrare nella sua fantastica visione. Sul set invece mi guidava, anche perché ne avevo bisogno, essendo privo dell’esperienza necessaria a gestire un ruolo simile, dunque mi ha guidato e io saggiamente, in modo quasi militaresco, l’ho seguito».



Ci sono dei registi, in particolare, con cui vorresti lavorare?

«Lasciami dire che un’altra figura per me fondamentale è stata Ricky Tognazzi: mi ha dato una cosa che in pochi mi avevano concesso, la fiducia, ha creduto in me e, pur seguendomi, mi ha lasciato andare. Ricky e Simona (Izzo, moglie e collaboratrice del regista, ndr) sono state due persone davvero importanti a livello sia umano sia lavorativo.
Per quanto riguarda i registi ce ne sono tanti, ad esempio ultimamente mi sono trovato a girare con Fabrizio Costa, una persona squisita che mi ha aperto il cuore; è un cineasta di vecchio corso e mi sta insegnando molto, il bello di questo lavoro sta nel fatto che ogni persona con la quale collabori apporta un qualcosa, ti dà un quid. La più grande vittoria per me consiste nel riuscire a lavorare con tanti autori che possono regalarti altrettante sfumature diverse, solo allora puoi diventare un attore completo».

Al di là del lavoro, quali sono le tue passioni?

«Sono sempre stato per il mens sana in corpore sano, il mio tempo libero lo dedico allo sport; da 6-7 anni, inoltre, ho scoperto la meditazione, che intendo anche semplicemente nel senso di prendere asciugamano e libro, andare in un parco e mettermi lì da solo, immergendomi in una pratica che riesce a tranquillizzarmi».

Che rapporto hai con i social?

«Sono ormai parte integrante della nostra vita, non mi sono certo messo contro questo dato di fatto, ho cercato di assecondarlo senza farne un uso smodato. Penso di avere un rapporto tutto sommato equilibrato con i social, pubblico qualcosa quando mi va, non perché debba o voglia apparire per forza, anzi, di mio sono abbastanza riservato, però ci sono persone che magari mi seguono da anni e cerco di metterle al corrente di ciò che faccio. D’altra parte se prima il pubblico poteva informarsi sugli attori solo attraverso interviste e articoli, ora con i social può farlo in maniera diretta ogni giorno».



Cosa pensi del connubio tra abiti di scena e interpretazione del personaggio? E che rapporto hai con la moda?

«I costumi ti aiutano tantissimo a entrare in una determinata situazione, nel momento di indossarli avviene come una magia e diventi quel personaggio specifico, in questo senso più gli abiti di scena sono caratterizzanti, meglio è; credo però che i veri artisti, cui va dato tutto il merito, siano i costumisti, che piegano abilmente la moda alle esigenze del cinema o del teatro. Per quanto riguarda il mio gusto personale, ho alcuni stilisti di riferimento che, anche a livello comunicativo, mi lasciano la libertà che cerco, in effetti è proprio questa la parola chiave parlando di moda; non mi piacciono gli stereotipi, adattarmi per forza alle tendenze o avere cose che portano tutti, cerco di definire un mio mondo».

Quali capi o accessori non possono mancare nel tuo guardaroba?

«In estate sicuramente dei jeans corti neri che ho da circa dieci anni, li indosso continuamente, poi un paio di sneakers che porto sempre con me, per potermi ritagliare ovunque un’oretta per correre o allernarmi».


Cosa ti aspetti dal 2021 e, in generale, quali sono i tuoi progetti per il futuro?

«Mi aspetto di tornare in Spagna, dove intendo portare avanti dei contatti che risalgono al 2017, ho fatto due lavori lì che mi hanno permesso di crescere tanto e non vedo l’ora di tornarci, ho trovato una dimensione per certi versi molto più vicina a me.
L’obiettivo, per il futuro, è passare nel paese almeno meta dell’anno lavorando a progetti in lingua spagnola o araba, nel solco di quanto fatto finora».

Summertime, cinema d’autore e non solo: il talento sfaccettato di Andrea Lattanzi


Volto della serie Summertime insieme ad altre promesse del panorama attoriale italiano, Andrea Lattanzi è un artista poliedrico: al di là della carriera ben avviata sullo schermo (che l’ha visto cimentarsi con opere prime, thriller e pellicole drammatiche, da Manuel Palazzo di Giustizia passando per Letto N. 6 e Sulla mia pelle), impegna il suo tempo scrivendo, componendo musica, dilettandosi con la fotografia. In attesa di vederlo nuovamente nei panni di Dario nella terza stagione del teen drama di Netflix (la seconda è disponibile ora sulla piattaforma di streaming) e nel film La svoltacon Manintown ha parlato di esordi, provini, set, città agli antipodi nel vero senso della parola (Roma e New York) e altro ancora.

Hai frequentato vari corsi di recitazione e, a un certo punto, ti sei trasferito negli Usa con il sogno dell’Actors Studio. Diventare un attore, dunque, è sempre stato un tuo obiettivo?

«La recitazione in realtà è arrivata un po’ per caso, un primo approccio risale all’ultimo anno di scuola media, quando sostenni un provino di cui avevo letto su un volantino. Intorno ai 17 anni la passione si è riaccesa, ho iniziato a studiare e un coach mi ha dato la spinta necessaria ad andare fuori, così mi sono trasferito a Londra e poi a New York, con il sogno dell’Actors Studio.
Ho vissuto un periodo intenso, ritrovandomi anche a dormire per strada. Ogni settimana andavo all’Actors Studio ma non avevo il coraggio di entrare, quando l’ho fatto ho realizzato che per frequentarlo sarebbero state necessarie troppe cose, a partire dalla Green Card. Perciò sono tornato in Italia, il giorno prima di partire ho letto di un casting alla Festa del Cinema di Roma che vedeva in giuria Carlo Verdone, Lina Wertmüller e Daniele Luchetti. Bisognava recitare un monologo, ho scelto Er fattaccio di Gigi Proietti, fatto sta che Il giorno del provino il ragazzo prima di me ha portato lo stesso pezzo e Verdone lo ha interrotto dopo qualche minuto; quando è stato il mio turno ho preso coraggio e, davanti alle sue rimostranze, l’ho pregato di non fermarmi. Alla fine ho vinto il concorso, è cominciato tutto da lì».

Hai dichiarato che «un attore dovrebbe essere un artista a 360 gradi», in effetti sembri avere una creatività sfaccettata: fotografi, scrivi, componi musica… Ti va di parlarci di queste tue inclinazioni, pensi che potrebbero trovare spazio nel tuo percorso artistico?

«Tutte queste attività, semplicemente, mi completano, mi fanno stare bene. Ho iniziato adesso un’altra sceneggiatura, canto, ho scritto dei testi musicali. Sono un attore e mi piace da morire, ma in quanto tale mi reputo un artista, e alla fine ogni artista è un insieme di tante cose differenti».

Hai recitato in film drammatici, thriller, serie, ci sono generi che prediligi o con cui vorresti metterti alla prova? E registi con i quali sogni di lavorare?
«Credo che un attore debba essere versatile, disposto a trasformarsi, a sperimentare il più possibile. Detto ciò, preferisco il cinema autoriale, come i due film che finora ho più amato, cioè Manuel e La svolta, gli unici dai cui set ho preso un ricordo, il giubbotto indossato in scena; sono pellicole sotto certi aspetti simili e, a livello di sceneggiatura, mi hanno dato maggiore visibilità, potrei dire di essere stato tra i protagonisti di entrambe, sebbene non mi piaccia affatto l’espressione e tutto ciò che ruota intorno al concetto di protagonismo.

Parlando di registi, anche italiani, non saprei scegliere, ci sono diversi autori emergenti con i quali mi piacerebbe lavorare, come i fratelli D’Innocenzo, il duo Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, lo stesso Dario Albertini (regista di Manuel, ndr), però ce ne sono davvero tanti».

Cosa puoi dirci di Summertime? Esperienze sul set, ricordi, tutto ciò che vuoi…
«Nella seconda stagione si assisterà a una crescita di tutti i personaggi, compreso il mio (Dario, ndr), vedremo nuove storie, rivalse e tanto altro. Di Dario posso dire che forse troverà una sua strada, rispetto all’anno precedente è maturato molto.
L’esperienza in sé è stata totalmente diversa dalle precedenti, ero abituato a lavorare con troupe abbastanza ristrette, sul set di Summertime le persone erano il triplo. Mi sono confrontato con un modo di fare parecchio diverso rispetto al cinema, dove le cose sono più impostate, nelle serie invece è tutto frenetico, inoltre mi sono trovato splendidamente sia con gli altri ragazzi del cast che con la produzione».

Sei un romano verace, che rapporto hai con la capitale? ci sono luoghi ai quali sei particolarmente legato, oppure tappe imperdibili per un weekend in città che consiglieresti a chi ci legge?

«Sono dell’idea che qualunque cosa faccia un romano, prima o poi tornerà alla base. Ho trascorso due anni a New York e, all’improvviso, ho sentito una mancanza incredibile della città. Ormai mi sono “rassegnato”, amo Roma pur con tutti i suoi pregi e difetti, qui in ogni angolo spuntano storia e bellezza. Il luogo che preferisco è forse il Gianicolo, nei momenti di solitudine spesso andavo lassù e sedevo sul muretto, ammirando il panorama meraviglioso.

Tra le tappe obbligate menziono San Pietro, bisogna visitarlo e salire in cima al Cupolone, ho avuto la fortuna di andarci recentemente e c’erano pochissimi turisti, una goduria! Ad ogni modo ci sono così tante cose da fare e vedere, chi viene in città dovrebbe trovarsi un amico romano che lo porti in giro».

Il protagonista di Summertime in uno degli scatti realizzati in esclusiva per l’intervista con Man in Town

Come vivi il legame tra abiti da indossare sul set e interpretazione del personaggio?

«Mi è capitato che alcuni abiti di primo acchito non mi convincessero ma poi, vedendoli sullo schermo, mi sono reso conto di quanto funzionassero, quindi ho imparato a non giudicarli frettolosamente. I costumi di scena, inconsciamente, mi aiutano tanto, mi danno una mano a entrare nella parte, in questo senso le persone esterne possono avere una visione differente e magari più precisa della tua; secondo me, comunque, non ci si deve focalizzare troppo sui vestiti né preoccuparsi di essere fighi, gli abiti devono essere giusti per il personaggio, uno stumento al suo servizio».

Che rapporto hai con la moda, ci sono capi o accessori cui non potresti rinunciare?

«Ultimamente ho un’autentica fissazione per anelli, bracciali e occhiali da sole, a livello di capi sto rivalutando il look anni ‘70».

Hai film o serie in uscita? Quali sono i tuoi progetti, se vogliamo anche i sogni, per il futuro?

«L’ultimo progetto è stato La svolta, al momento sono fermo ma a breve cominceranno le riprese della terza stagione di Summertime.

Tempo fa mi era arrivata una chiamata dall’estero, una grande opportunità che purtroppo ho dovuto declinare perché impegnato con un altro lavoro, spero in futuro capiti di nuovo un’occasione simile, sarebbe fantastico prendere parte a un progetto internazionale».

Ph: Davide Musto
Styling: @vaneboz @la_sara_kane @othersrl
Ph Assistant: @michelevitale_ @_eleonoracm_

Total look Dior

L’edizione 2021 del MM Award – International creative award premia i nuovi talenti del design

Sono stati svelati i vincitori dell’edizione 2021 del MM Award – International creative award, progetto lanciato nel 2017 dall’agenzia di consulenza creativa MM Company (che vanta tra i propri clienti brand del tenore di Prada Group, Micam e cc-tapis) per promuovere
e, appunto, premiare i nomi più promettenti del design italiano e non solo, nello specifico di tre ambiti che corrispondono alle categorie dell’award, ossia Fashion, Product e Interior Design.

Il contest si propone di creare e rafforzare una comunità di talenti provenienti da ogni parte del mondo, così da facilitarne la connessione con media, aziende e altri operatori del settore; è aperto a tre tipologie di partecipanti: studenti e new talent fino ai 25 anni;
professionisti e creativi di età compresa tra 26 e 35 anni; società, studi e collettivi fondati da massimo dieci anni.


Limitandoci al fashion design, la giuria (presieduta dal co-fondatore e creative director di MM Company Marco Magalini e formata da esperti, stilisti e altri addetti ai lavori come Federica Biasi, Luca Larenza, Studio DiDeA e Leonardo Talarico) ha deciso di premiare, tra i
giovani under 25, Tamara Fontana, che precede Sonia Ciamprone e Pawel Lyskawinski. Se la vincitrice, attraverso il progetto I Think Therefore I Am (Somewhere Else), esplora i paracosmi, realtà immaginarie popolate da figure che indossano outfit dall’allure avant
garde ed escapista, la Cloudy Imperfection della seconda classificata (che prende spunto dagli offuscamenti della depressione), considera i capi degli strumenti con cui esternare la propria interiorità, caratterizzati da lavorazioni studiatamente “imperfette” quali tagli in
sbieco rifiniti da cordoncini e plissettature manuali; Lyskawinski, invece, riversa negli abiti poliedrici di Nomadic Serendipity la sua concezione della moda come un viaggio in continuo divenire.



Passando ai professionisti, il terzetto dei vincitori è composto nell’ordine da Annarita Bianco, Giulia Soldà e Chiara Maltinti: la prima con il progetto 3020 – Artifacts from next millennium riflette sulle conseguenze dell’antropocene – l’era odierna nella quale l’azione
dell’uomo condiziona la vita sul pianeta a tutti i livelli, immaginando un futuro segnato da processi geologici influenzati da rifiuti elettronici e detriti, esemplificato qui da rocce sintetiche che includono scarti di cavi usb; la seconda nella sua Maatroom Collection n.0
firma un guardaroba definito da linee pulite e costruzioni dal gusto architettonico, riflesso dell’idea di femminilità sussurata ed equilibrata a lei cara; la terza grazie a Fit in home diluisce i confini tra abbigliamento e living, trasformando tre complementi d’arredo Ikea in
altrettanti capi dalla superfici fortemente materiche.


Per quanto riguarda aziende e studi professionali, il marchio brasiliano Room si è aggiudicato la vittoria con Pillow, un sandalo a fasce bombate frutto di uno studio meticoloso delle proporzioni; a seguire le mise girlish di Laju Slow Apparel, confezionate in modo da sprecare la minor quantità possibile di tessuto, e il borsone multiuso di Solferini Milano.
Il modello produttivo Zero Waste, che prevede di non produrre indumenti in più rispetto alle effettive richieste, la filiera corta, italiana al 100%, e il ricorso a filati certificati Gots e fibre di derivazione biologica sono poi valsi a Laju Slow Apparel la menzione speciale ‘Made in Italy is’.




La moda, a ben vedere, si è ritagliata spazi di tutto rispetto anche nella categoria Interior Design, tra il Concept store per Golden Goose di Sofia Teresa Bonvicini, esempio riuscito di combinazione della brand identity di una boutique con il genius loci della città che la ospita
(nel caso in questione, la metropoli cinese Shenzhen), l’analogo di Keti Diakonidze per Yves Saint Laurent, che indaga il rapporto simbiotico tra la maison e il mondo dell’arte, e lo Store Concept dello studio Stile Bottega Architettura, che mette da parte i trend du moment in favore di soluzioni capaci di trasmettere l’identità del marchio.
Tutti i vincitori, oltre agli attestati di merito e ai trofei griffati Cimento (riservati ai primi classificati), riceveranno un supporto comunicativo che può contare su un network di giornalisti, un database profilato e i contatti legati al concorso e all’agenzia MM Company.



Krug presenta lo champagne Grande Cuvée 169 èmè Édition

«Lo champagne aiuta la meraviglia», ebbe a dire in tempi non sospetti la scrittrice George Sand; deve pensarla così anche Krug, una delle maison di riferimento nel mondo delle bollicine, che per celebrare l’ultima edizione – la 169esima – del suo Grande Cuvée ha ideato Encounters, una serie di esperienze musicali immersive da fruire online, davanti a un calice della nuova Édition, lasciandosi avvolgere da un’esperienza sinestetica che fonde degustazione, suoni, voci e audio 8D, curata dal cantautore e producer belga Ozark Henry e dai VOCES8, gruppo di punta del canto corale internazionale.


Encounters: l’esperienza di degustazione musicale realizzata da Krug per festeggiare lo Champagne Grande Cuvée 169 èmè Édition

Il progetto si pone come una sorta di interpretazione musicale della Grande Cuvée, ossia il simbolo migliore, la ragion d’essere stessa del marchio fondato nel 1843; del resto la sua realizzazione, affidata alla Chef de Caves Julie Cavil, presenta diverse analogie con il lavoro del direttore d’orchestra, chiamato a raccordare strumenti differenti: ogni anno infatti Cavil, affiancata dal Comitato di Degustazione, inizia il processo creativo assaporando centinaia di vini, così da valutare adeguatamente le singole “melodie”, e procede poi con la composizione, in cui ciascuna di esse è determinante per l’effetto finale.


I cofanetti dell’esperienza Krug Encounters
Cofanetto dedicato all’esperienza Encounters: degustazione musicale dello Champagne Krug Grande Cuvée 169 èmè Édition
Cofanetto con bottiglia di Champagne Krug e due flûte

Nel caso specifico, il punto di partenza è stata la vendemmia del 2013, per la quale non sembra eccessivo ricorrere all’espressione un po’ abusata di “annata eccezionale”, che ha donato ai millesimati del periodo pienezza e straordinaria eleganza cromatica, ulteriormente accentuate nel blend con decine di vini di riserva, provenienti da vitigni e années diverse (il più datato è del 2000); il risultato è uno champagne dalla tonalità tenue e raffinata, con un vivace perlage, contraddistinto da note floreali, fruttate e agrumate, con punte di marzapane e pan di zenzero. Si presta a una gran varietà di abbinamenti, dalle pietanze più semplici come il parmigiano stagionato ai piatti gourmet, dal pesce (ad esempio ostriche o gamberi grigliati) ai dessert (torte di carote, cheesecake, tarte tatin ecc.).

La Grande Cuvée numero 169 rappresenta l’ultimo capitolo, in ordine cronologico, di una percorso ultracentenario avviato dal fondatore Joseph Krug, un viticoltore idealista e anticonvenzionale, che aspirava sempre ad ottenere, di anno in anno, lo champagne migliore, a prescindere dalle variazioni climatiche, e il cui sogno viene omaggiato ora dal primo capitolo di una serie di esperienze immersive.


Lo chef Ciccio Sultano, uno degli ambassador dello Champagne Krug

Tra gli estimatori del nuovo arrivato in casa Krug si annovera lo chef Ciccio Sultano del Duomo di Ragusa, due stelle Michelin mantenute dal 2006 e ambassador dell’etichetta: loda la maison in quanto espressione di semplicità (che secondo lui «è sinonimo di unicità. Centrarla è un dono, un lusso!»), e abbina dunque al KGC 169 èmè Édition quattro portate altrettanto basic quali caponata, olive incaminate, salsa di alici Taratatà e pane croccante, che insieme creano «un momento di leggerezza e spensieratezza di cui abbiamo un grande bisogno»; quale modo migliore per brindare – letteralmente – alla ripartenza post-pandemia?

Serhat Işik e Benjamin A. Huseby, i nuovi designer di Trussardi che hanno raggiunto il successo con il collettivo GmbH

Lo scorso martedì Trussardi ha annunciato la nomina dei nuovi direttori artistici Serhat Işik e Benjamin A. Huseby, duo dietro il collettivo GmbH. Il marchio del levriero tenta così di ritrovare lo smalto dei tempi migliori, che dagli anni ‘70 l’avevano visto trasformarsi da guanteria di lusso a una delle stelle più luminose nel firmamento del nascente prêt-à-porter nostrano, per conoscere poi un periodo di appannamento, tra il passaggio al fondo QuattroR (la famiglia ha mantenuto una quota di circa il 30% della società), la razionalizzazione di un’offerta a lungo frammentata in varie linee young e contemporary, i cambi di guida creativa e le sporadiche capsule collection con designer emergenti, chiamati a reinterpretare gli archivi. A Işik e Huseby spetterà il compito di risollevare una griffe che, come hanno precisato loro stessi commentando la notizia, «si distingue per il suo heritage e il suo enorme potenziale».



In attesa della prima collezione per Trussardi, si può approfondire il percorso compiuto dagli stilisti alle redini del brand berlinese, creato nel 2016 e affermatosi rapidamente come il più interessante e dinamico della scena tedesca. Già il nome GmbH (acronimo corrispondente al nostro S.r.l.) è una dichiarazione d’intenti perché, andando oltre il significato in senso stretto, suggerisce la volontà di porsi come una pagina bianca da riempire volta per volta di contenuti dissimili, aprendosi a qualsivoglia suggestione ma rifuggendo etichette e dogmatismi. Una label legata a doppio filo con Berlino, di cui dà l’impressione di aver introiettato la natura costantemente in fieri, il fervore di una città crogiolo di etnie e culture, nonché mecca europea – se non mondiale – del clubbing grazie a locali che hanno scritto la storia dell’elettronica e della techno, uno su tutti il Berghain.

I due fondatori, in effetti, si conoscono proprio in una discoteca e trovano subito una certa affinità: entrambi figli di operai e impiegati emigrati nel Vecchio Continente dall’estero (Işik ha origini turco-tedesche, Huseby pakistano-norvegesi), condividono un’indole creativa che li ha avvicinati alla moda da prospettive diverse ma complementari, il primo come designer, il secondo come fotografo con all’attivo editoriali per un gran numero di magazine (i-D, Dazed & Confused, W e Purple tra gli altri); danno vita quindi a GmbH, stabilendo il proprio quartier generale nell’animato quartiere di Kreuzberg. 

Nella sintassi di stile del marchio confluiscono le ossessioni del tandem, che attinge da ambiti in teoria distanti: l’estetica abrasiva dei raver si mescola così al vestiario un po’ sottotono della working class, la trasgressione dei look che animano le serate nei club cittadini (harness, jockstrap, indumenti dalle lucentezze viniliche ecc.) ai codici utilitaristici dell’abbigliamento di carpentieri, falegnami e altri lavoratori, e si potrebbe continuare. Una tensione che si rispecchia anche nelle proporzioni e vestibilità degli ensemble, in cui il sopra inguainato in maglie disegnate sulla pelle collide con i pantaloni ampi del sotto, o viceversa i capi scultorei, possenti della parte superiore si accompagnano a biker pants affilati.
Un pilastro fondamentale per il brand è poi quello della sostenibilità: i tessuti sono per il 90% eco-friendly, provenienti soprattutto da deadstock di fabbriche italiane; una scelta che, se all’inizio è dettata dalla necessità di contenere i costi, nel tempo viene abbracciata convintamente, e ora tra i materiali più ricorrenti nelle collezioni si contano ad esempio pelle vegana, lana vergine e mischie di filati organici o riciclati.




Altro elemento su cui Işik e Huseby mettono volentieri l’accento è la collegialità, un fil rouge che intesse la pratica di GmbH nella sua interezza, tale per cui ogni dinamica rimanda a un «senso di comunità e famiglia», come dichiarato in un’intervista ad AnOther; una famiglia allargata a numerosi membri della comunità Lgbtq+ e di minoranze etniche.
L’ethos progressista informa tutte le attività della griffe, dai casting per i défilé (che arruolano spesso artisti trans, modelli dalla sessualità fluida e amici del team come Honey Dijon, Fatima Al Qadiri o lo stilosissimo ex direttore creativo di Zegna e Saint Laurent Stefano Pilati) agli spunti disseminati negli stessi, critici verso il sentimento di crescente ostilità all’immigrazione o il conformismo di una parte non trascurabile del mondo fashion che secondo i designer, al netto dei proclami, privilegia tuttora un immaginario alquanto stereotipato, per lo meno in Germania («basta prendere una pubblicità tedesca a caso: è come se la gente di colore non esistesse»), alla comunicazione; emblematica, da quest’ultimo punto di vista, la campagna Europe Endless di tre anni fa, con protagonisti ragazzi immigrati di seconda generazione di origine azera, indiana o srilankese, immortalati in pose plastiche che riecheggiano quelle delle top model Versace nelle adv degli anni ‘80 e ‘90.




Guardando alle collezioni, sebbene già la prima del 2016 avesse colto nel segno, finendo sugli scaffali del concept store Opening Ceremony, il salto di qualità avviene con la Spring/Summer 2018: una show in calendario alla fashion week maschile di Parigi, dove fanno la loro comparsa i futuri must del marchio, dai jeans relaxed fit con patta incorniciata da due zip ai top stretchati, dai pantaloni in Pvc riflettente ai massicci pullover di pile, per non dire di tropi quali spalle bombate, colli montanti e tasche a profusione.
Ugualmente degne di nota le sfilate successive, che affinano il blend di clubwear, passatismo vestimentario e suggestioni industrial distintivo di GmbH: ad esempio nella S/S 2019 il titolo Survival Strategies si invera in outfit pensati come armature, tra imbottiture sui cargo pants, cinture con fibbie triangolari simil-scudo e strisce di tessuto a rinforzare busto e spalle; nella F/W 2020, invece, la successione di coat, trench e giubbotti stentorei, che sovrastano i pantaloni sfinati, è inframezzata da dolcevita traforati e top a fascia, cesellati sulla silhouette, oppure da capi con fregi zodiacali.
Nell’ultima collezione in ordine cronologico, la F/W 2021, il clash di forme, tagli e consistenze si fa ancora più ardito, con texture incrociate sul torace, scolli generosi e cerniere che fendono diagonalmente le superfici di abiti e calzature. Il défilé registra inoltre il debutto del progetto demi-couture: quattro mise viste in passerella potranno essere realizzate in atelier con tutti i crismi del bespoke, seguendo le indicazioni del cliente.

Bisogna poi accennare alle collaborazioni, divenute ormai un efficace barometro per valutare lo status di un brand: la prima, nel 2018, coinvolge Helly Hansen, risultando in una serie di giacconi color block sovradimensionati; l’anno seguente la scelta ricade sul jewelry designer Alan Crocetti, che accessoria i look della griffe con i suoi caratteristici gioielli bold; sempre nel 2019 prende il via la co-lab con Asics, per cui Ia coppia di stilisti rinnoverà diverse trainers, dalle Gel-Kayano 5 (dad shoes vecchia maniera declinate in cromie pastellate quali menta e crema) alle Gel Quantum 360, sneakers multimateriche dall’effetto screziato.
Il lavoro fin qui compiuto da Işik e Huseby viene ora coronato dall’approdo chez Trussardi. Il debutto coinciderà con la stagione F/W 2022, nel frattempo si può star certi che il duo berlinese continuerà a far parlare di sé per le creazioni audaci e politicamente impegnate di GmbH. 

Il ritorno dei cappelli Von Dutch, tra social e nostalgia degli anni 2000

Gli anni Zero sono diventati una sorta di golden age della moda da cui mutuare innumerevoli trend: dopo i revival di pantaloni a vita bassa, cinture con fibbia-logo de rigueur, occhialoni a mascherina et similia, ora sembra sia il turno dei trucker hat, o meglio del brand che nella prima decade del nuovo millennio ha reso il cappello con il retro in mesh traforato, usato perlopiù dai camionisti americani (da cui il nome), uno dei più venduti – e vituperati – accessori del periodo.
Si parla di Von Dutch, label californiana che raggiunse l’acme della popolarità negli anni Duemila, quando i berretti in questione erano un tormentone perfino tra star e starlette (Madonna, Justin Timberlake, Jay-Z, Britney Spears e Ashton Kutcher, solo per citarne alcune), per poi entrare in crisi e finire rapidissimamente nel dimenticatoio.

Adesso, a quanto pare, sarebbe pronta per un ritorno in grande stile nell’agone del ready-to-wear, proponendosi addirittura come marchio “pigliatutto” che al numero sterminato di varianti dei citati cappellini affianca magliette, calzature, borse e una linea in edizione ultralimitata, che consta per esempio di jeans stampati e bauletti tempestati di paillettes, cristalli e broderies dai prezzi non proprio ecumenici.
Gli indizi del comeback di Von Dutch, sotto questo punto di vista, ci sono tutti: limitandosi ai più recenti, vanno registrate la notizia di una docuserie prevista entro l’anno su Hulu, che ne racconterà ascesa e caduta, e la presentazione di una collezione di denim pants dall’allure esclusiva prodotti in Italia, che comprende modelli maschili dai lavaggi spericolati o istoriati dal lettering della griffe.


Justin Timberlake (Photo by James Devaney/WireImage)

Per comprendere come un brand epitomo di un’estetica parecchio discutibile, archiviata da tempo, stia raccogliendo favori tra celebrità e frotte di imberbi tiktoker, è bene anzitutto riavvolgere il nastro, tornando alle imprese del capostipite Kenneth Graeme Howard, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Von Dutch.
Precursore di quella Kustom Kulture che si sarebbe diffusa negli Stati Uniti dalla metà del secolo, Howard lavorava come meccanico nei sobborghi di Los Angeles. Alla fine degli anni Trenta perfeziona la tecnica del pinstriping, tracciando sulle superfici di auto e moto grafiche come il Flying Eyeball, l’occhio alato assurto in breve a simbolo dell’attività.

Quattro anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1992, le figlie cedono il nome agli imprenditori Michael Cassel e Robert Vaughn, che nel ‘99 fondano la Von Dutch Originals, inaugurando l’anno seguente un flagship store a L.A., su Melrose Avenue.

È l’inizio di una parabola fulminea, sospinta anche dal contemporaneo, improvviso interesse per il mondo del tuning innescato dal primo film della saga di Fast & Furious: il trucker hat viene adottato dal gotha di Hollywood, che ne fa l’accessorio prediletto per le uscite off-duty; i più temerari lo sfoderano addirittura sui red carpet, mentre le prezzemoline à la Paris Hilton ne calcano uno praticamente h24.

Il novello oggetto del desiderio, un semplice berretto da baseball in cotone e rete, non può certo definirsi un capo di pregio, ma tant’è. L’azienda, ovviamente, asseconda la mania, declinando i cappellini in ogni alternativa possibile e immaginabile, dal denim raw alla pelle, passando per fantasie camouflage, tie dye, glitter, eccetera. La fiammata però si esaurisce presto, e nel 2004 lascia l’incarico lo stilista Christian Audigier, autore degli stravaganti design che avevano inaspettatamente fatto sfracelli tra vip e non; il marchio si trascina ancora qualche anno finché, nel 2009, viene ceduto alla società francese Groupe Royer.
Ad ogni modo, il successo di Von Dutch era figlio soprattutto della celebrity culture degli anni Zero veicolata da videoclip, reality show e siti di gossip; venuta meno quest’ultima, il declino era per molti versi inevitabile.



Nel 2016, tuttavia, a risollevare le sorti del Flying Eyeball è nuovamente una celebrità, stavolta 2.0: nel feed della regina di Instagram Kylie Jenner spuntano i famigerati trucker hat, seguiti in successione da bra, minigonne, giubbotti e altri indumenti con la scritta ricurva di Von Dutch bene in vista. Che sia un’ingegnosa trovata pubblicitaria o il ghiribizzo di turno della star poco importa, la strada per il revamp della griffe è ormai tracciata, e come non bastasse lo strapotere mediatico di Jenner arrivano gli esempi di rapper, supermodel e influencer, vale a dire le personalità che hanno ormai scalzato i divi “tradizionali” quanto a capacità di condizionare i gusti dei consumatori.
Il copricapo Von Dutch torna a essere un feticcio ostentato da Travis Scott, Megan Thee Stallion, DaBaby, Tyga e altri assi del rap, così come dalle modelle du moment (Bella Hadid, Kendall Jenner) e star del web quali Emma Chamberlain e Jordyn Woods, tutti accomunati dall’enorme seguito di cui godono nel pubblico più giovane.
D’altronde il rinnovato interesse per il brand sembra attecchire principalmente tra adolescenti e affini: ad esempio su TikTok, social d’elezione della generazione Z, l’hashtag #TruckerHats conta 1,4 milioni di visualizzazioni. Von Dutch beneficia insomma della riscoperta generalizzata di marchi in voga almeno una ventina di anni fa, trascinata da un pubblico di nativi digitali abituato ad attingere in massima libertà dalle tendenze passate più diverse, traslando nell’abbigliamento il concetto di anemoia, la “nostalgia per un tempo che non si è mai vissuto” che connota quest’epoca più liquida che mai.



In tutto ciò, la label prova a sfruttare al meglio il momentum: distribuzione e direzione creativa delle collezioni tornano in house; si dà fondo all’archivio, traendone oltre ai berretti camicie dal retrogusto workwear, bowling bag e altri prodotti che hanno segnato gli anni d’oro; nell’ottica di riannodare i fili con lo show business hollywoodiano, viene riaperto il negozio di Los Angeles; infine arrivano le collaborazioni, che oggi rappresentano la via maestra per rinfrescare la grammatica di stile dei brand e aprirsi a nuovi clienti.
Nel settembre 2020 ecco allora la co-lab con Puma, una capsule collection che glorifica l’estetica (fin troppo) irruenta e appariscente dei 2000, tra nuance pastellate, grafismi che ibridano i segni distintivi delle due griffe e pattern retrò a quadretti, con l’ovvia prevalenza di felpe, tute, sneakers e altri essenziali dello streetwear imperante.

Lo scorso marzo, invece, esordisce nella sfilata Fall/Winter 2021 di Koché una partnership incentrata su proposte quali maglie adorne di piume e cappelli puntinati da borchie cilindriche. Commentando lo show, la stilista Christelle Kocher appariva entusiasta della collaborazione con «un marchio street che ammiro e finalmente vive un rilancio»; e se a parlare così è una delle designer più autorevoli della sua generazione, vincitrice di un Andam Prize e direttrice artistica della prestigiosa Maison Lemarié, c’è da credere che la rentrée di Von Dutch sia definitiva.  

Le migliori collezioni maschili della Lisbon Fashion Week 2021


Come la quasi totalità delle kermesse di moda internazionali, anche quella di Lisbona ha dovuto fare i conti con le restrizioni legate al protrarsi della pandemia, lanciando una versione totalmente digitale della Lisbon Fashion Week incardinata sul concetto di ‘comunità’, ospitata per quattro giorni, a partire dallo scorso 15 aprile, sulla piattaforma dedicata.

Abbiamo stilato un resoconto delle collezioni menswear presentate in questa prima – e auspicabilmente ultima – edizione online di ModaLisboa, tra esordienti assoluti, nomi di punta della scena lusitana e brand che abbracciano in tutto e per tutto la causa della sostenibilità.

Sangue Novo

Ad aprire le danze, nella prima giornata, è la finale del concorso Sangue Novo, riservato ai migliori talenti del fashion system portoghese (e non solo), che quest’anno vedeva in lizza cinque new names: Andreia Reimão, Ari Paiva, Arndes, Fora de Jogo e Rafael Ferreira. 

Se ad aggiudicarsi il ModaLisboa X Tintex Textiles Awardè stato il mix and match di João Januário (Fora de Jogo), Rafael Ferreira con le sue mise scultoree, di grande impatto visivo ha ottenuto il premio assegnato da Moche al designer più votato via app.



Béhen

Si intitola I want you so bad la collezione Béhen disegnata da Joana Duarte, fautrice di una visione etica e circolare del prêt-à-porter che passa dal recupero di lenzuola, trapunte, federe,stoffe second hand in generale.

L’upcycling è dunque al centro del défilé svelato il 15 aprile, in cui la fanno da padrone copriletto, velluti, sete preziose e altri tessuti rétro scovati un po’ ovunque, dal Portogallo a Macao, usati per forgiare un guardaroba che indulge in atmosfere oniriche e trasognate, accendendosi grazie a print effetto tappezzeria, chinoiserie efantasie bucoliche dai toni vividi (bordeaux, oro, acquamarina, arancione e così via).
Le silhouette, rilassate, evitano qualsiasi costrizione o formaltà, e nelle uscite maschili si alternano capi stampati da cima a fondo, fluenti camicie dai motivi orientaleggianti su pantaloni scampanati, coat e completi ornati da ramages floreali, blouson pittati come arazzi, in un turbinio di cromie e decori.


Hibu

Hibu tiene alto dal 2013 il vessillo del genderless, punto d’approdo naturale per la creatività rutiliante, polimorfa, a tutto colore della direttrice artistica Marta Gonçalves.
Anche stavolta, quindi, lo show della griffe si rivolge indistintamente a uomini e donne, con outfit energici che guardano al grunge e alle vestibilità ampie degli anni ‘90, in un assemblage di t-shirt delavé, denim sfilacciato, casacche bucherellate sovrapposte ad abiti madras, maglioni dai pattern ipnotici, cargo pants in velluto millerighe e sottili camicie fittamente pieghettate, che stridono con le forme dei pantaloni oversize cui vengono accoppiate.



Duarte

La sostenibilità è parte integrante del lavoro di Ana Duarte, che con il marchio omonimo punta a rinnovare in senso green lo streetwear; la sua ultima prova, Reef, omaggia la Grande Barriera Corallina, meraviglia della natura minacciata dal processo di graduale sbiancamento in atto, un’emergenza su cui la stilista vuole richiamare l’attenzione.
In passerella sfilano lookimmediati e grafici dalla vibe sportiva, ispirati in varia misura proprio alla sterminata distesa di coralli al largo dell’Australia, tra parka, tracksuit e giacche college a blocchi di colore saturo, oppure percorse da stampe acquose che movimentano le texture, tingendole delle intense gradazioni cromatiche dei coralli, dal rosso al lilla, dal verde al blu.
Coerentemente alla filosofia del brand, la scelta dei materiali ricade perlopiù su fibre come plastica e cotone riciclati che affiancano i filati tecnici, neoprene in primis.



Constança Entrudo

Con la sfilata A/I 2021 – The world we live in: Part IIConstança Entrudo enfatizza la manipolazione dei materiali riciclati che l’ha resa una delle personalità più promettenti e seguite della moda lusitana.
La designer prende le mosse dalle foto naturalistiche pubblicate su Life negli anni ‘50 come dalla tradizione del ricamo di Madeira e dal movimento tropicalista (che propugnava al tempo una sorta di cannibalismo culturale), concretizzando il tutto in un défilé misto che vive di contrasti, campionando ensemble dai tratti irregolari, che appaiono (volutamente) disomogenei, non rifiniti; sul davanti dei capi ondeggiano fili e scampoli di tessuto, i frequenti patchwork scoprono qua e là la pelle e abbondano trasparenze, intagli e grafiche ridondanti.
Una collezione che dimostra, in sostanza, come la sostenibilità non sia per forza sinonimo di uno stile severo e understated.



Valentim Quaresma

Per Valentim Quaresma riuso creativo fa rima con progresso, creatività, con quella metamorfosiche dà il nome alla sfilata co-ed e viene innescata, per l’appunto, dalla commistione di scarti tessili, resine, vetri, alluminio e altri materiali di recupero per plasmare outfit stratificati e dalle linee allungate. Lo stilista li associa a bozzoli protettivi ed esoscheletri, ad ogni modo si tratta di creazioni a dir poco intricate, che certificano le innumerevoli possibilità offerte dall’upcycling.



Heron Preston, il designer innamorato del workwear che ha conquistato la Nasa


Se a 38 anni possiedi un brand presente nel calendario della fashion week parigina, tra i tuoi apprezzatori si contano The Weeknd, Hailey Bieber e Travis Scott, nel tuo cursus honorum campeggiano mostri sacri dello showbiz (leggi Kanye West) e marchi iconici come Nike o Levi’s, vuol dire che hai già conquistato un posto d’onore nell’affollatissimo milieu della moda contemporanea. Le informazioni appena snocciolate si riferiscono a Heron Preston, titolare dell’etichetta eponima con cui, dal 2017, è impegnato a sfumare sempre di più i confini tra lusso, abbigliamento street e workwear.

Sanfranciscano ma newyorchese adottivo, incarna alla perfezione quella poliedricità che oggi sembra essere la carta vincente per gli stilisti, destreggiandosi agevolmente tra passerelle, graphic design, fotografia, dj set e consulenze per il citato West, che in passato gli ha affidato la direzione artistica di numerosi progetti, dalla linea ready-to-wear Yeezy all’album ‘The Life of Pablo’. Un autentico factotum della creatività, dunque, la cui formazione non poteva non essere sopra le righe.



Nato e cresciuto nella Bay Area, il nostro per sua stessa ammissione è uno smanettone fissato con internet che, nel tempo libero, sperimenta con la serigrafia e non disdegna lo skate.
Nel 2004 si trasferisce nella Grande Mela, dove studia alla Parsons School of Design, inserendosi rapidamente nei giri giusti ed entrando in contatto con Aaron Bondaroff, ex gallerista della Morán Morán (all’epoca OHWOW Gallery); è quest’ultima a pubblicare, nel 2008, il photobook ‘The Young and the Banging’, una sorta di annuario fotografico zeppo di polaroid scattate da Preston, che fin dal suo arrivo in città si diletta a immortalare la meglio gioventù creativa di Downtown. Tra gli sponsor dell’iniziativa c’è Nike, che finisce per assumere l’autore, nominandolo in breve Global Digital Strategies della divisione NikeLab.
Nel 2012 viene contattato da Virgil Abloh e Matthew M. Williams, allora due designer semisconosciuti, che lo invitano a unirsi a loro da Been Trill, un collettivo che nel suo triennio di attività sarà assai chiacchierato, ma lancerà definitivamente le carriere dei membri più in vista. In questo periodo, Preston continua a stringere relazioni con i nomi che contano nell’industria modaiola e affina ulteriormente la sua estetica, tutta giocata sulla manipolazione spigliata di codici e suggestioni provenienti dagli ambiti più eterogenei.

Conclusa la parentesi di Been Trill, si dedica a vari progetti una tantum, ad esempio affastellando loghi disparati su magliette rinominate ‘NASCAR Factory Defeat’, oppure customizzando un paio di Nike Air Force 1 con patch a forma di stella (una copia dichiarata del simbolo della label Bape) ritagliate da uno scampolo di tessuto Gucci GG Supreme.
Nel frattempo, turbato dal ritrovamento di un sacchetto di plastica nel mare di Ibiza, prende consapevolezza dell’urgenza della questione ambientale e si associa al Department of Sanitation di New York per la capsule Uniform, in cui vengono riciclate proprio le vecchie uniformi dei netturbini dell’ente che gestisce la raccolta rifiuti, convertite in borsoni dalle tonalità fluo, giubbini a stampa foliage, felpe e t-shirt dall’aria un po’ dimessa.
A quel punto – siamo nel 2016 – Preston si convince a seguire le orme degli ex colleghi Abloh e Williams, che cominciano a fare faville rispettivamente con Off-White e 1017 Alyx 9SM, e lancia l’e-store HPC Trading Co., preludio alla nascita della griffe col suo nome che arriverà un anno dopo.



Il designer ha ormai definito il proprio vocabolario di stile, i cui lemmi sono presto detti: in primo luogo, la fascinazione per le uniformi dei lavoratori (operai edili, poliziotti, vigili del fuoco ecc.), con collezioni che largheggiano in nuance evidenziatore, bande catarifrangenti, tag identificativi, nastrature, abrasioni, cinture a guisa di imbracatura e chi più ne ha più ne metta, una caterva di riferimenti al workwear combinati al repertorio ormai consolidato dello streetwear, che prevede felpe, pantaloni cargo, denim jacket, smanicati e altri capi easy, dalle forme anabolizzate e il tono rude quanto basta.
In secundis, il ricorso copioso alle stampe, che siano scritte icastiche come la quasi onnipresente dicitura in cirillico стиль (che sta per “stile”), print che rimandano alla grafica basilare dei primi pc o raffigurazioni variegate dell’airone, animale feticcio del marchio, un calembour che gioca con il significato dell’inglese heron, airone appunto.
Da ultimo, una certa, costante dose di sfrontatezza, che lo spinge di volta in volta ad (auto)ironizzare su tic e contraddizioni degli influencer (categoria di cui fa parte, d’altronde), oppure a stampigliare sulle magliette vendute nella boutique moscovita KM20 l’immagine di Vladimir Putin che inforca gli occhiali da sole.



Il novero delle collaborazioni di riguardo si infoltisce velocemente, a cominciare dalla doppietta dello show F/W 2018 in cui Preston presenta le capsule collection con Carhartt e Nasa: se la prima codifica la sua affinità con l’abbigliamento da lavoro in diciotto proposte di chiara derivazione utilitaristica, tra giacche chiazzate di vernice, gilet zippati e maglie slabbrate, la seconda omaggia la storia dell’agenzia spaziale statunitense, facendo largo uso di materiali futuribili quali nylon ripstop e alluminio per zaini che imitano il jetpack e abiti ricalcati sulle tute degli astronauti, con un afflato avveniristico degno delle visioni Space Ace di André Courrèges, Paco Rabanne e Pierre Cardin.
Nello stesso anno mette mano agli Ugg, i famigerati stivaletti foderati di pelliccia, apponendovi le sue caratteristiche linguette in colori flashy, un’iniziativa bissata e allargata ad altre calzature dell’azienda nel 2019, quando ha l’opportunità, tra le altre cose, di ibridare le silhouette di due celebri modelli Nike Air Max (95 e 720), ottenendo una sneaker bombata e avvolta in strati di TPU traslucido, e di intervenire sui 501 Levi’s, i jeans per definizione, divertendosi a decolorarli e maltrattarne il tessuto.

Nel 2020 si concede un coup de théâtre con il dentrificio – tanto per cambiare – arancione per Moon, co-firmato dalla supermodel Kendall Jenner e in tiratura ovviamente limitatissima. 

L’ultima collaborazione risale invece alla fine di aprile e coinvolge Calvin Klein, un’istituzione del casual a stelle e strisce di cui Preston ha aggiornato i pezzi più pratici e discreti (jeans a gamba dritta, tee, intimo ecc.) in chiave unisex e sostenibile.
Le prossime collaborazioni, con tutta probabilità, non tarderanno ad arrivare, per convincersene è sufficente riprendere le parole del diretto interessato, che già nel 2006, parlando con il magazine Freshness della propria imprevedibilità, aveva fornito una summa del Preston-pensiero: «Non voglio che le persone mi comprendano appieno perché sarei noioso. Saprebbero cosa aspettarsi. Se [invece] con Heron Preston creo un contrasto, facendo un giorno qualcosa su Warren Buffett, quello dopo su Huf [brand di skatewear, ndr] o sulla sicurezza di internet, susciterò una certa attrattiva e le farò tornare».


Backstage at Heron Preston Men’s Fall 2020, photographed in Paris on Jan 16, 2020.

Con la collezione FW 21/22 Luca Larenza coniuga innovazione e sostenibilità, restaurando i telai del Real Belvedere di San Leucio

Complice anche la pandemia di Covid-19, la cura del proprio sé interiore è (ri)diventata una priorità generalizzata, e l’obiettivo sembra essere adesso raggiungere una sorta di stato di grazia, di contemplazione spirituale; in tutto ciò, la moda può essere capace di esprimere icasticamente un proposito tanto ambizioso. Ne è una prova l’ultima collezione del designer Luca Larenza per la stagione Fall-Winter 2021/22, in cui la vita al di fuori delle grandi metropoli, all’insegna di buone letture e dell’immersione totale, quasi religiosa, nella natura assurge al ruolo di nuovo modello esistenziale.
Quello proposto dall’omonimo brand è uno stile che indulge nel gusto nostalgico per l’arte classica, nella voglia di perdersi nei propri pensieri superando limiti e angustie della contemporaneità, e segna il ritorno a un passato caratterizzato da principi e pratiche ormai quasi scomparse.

In parallelo alle proposte per il prossimo Autunno/Inverno, Larenza presenta un progetto di resposabilità sociale, che l’ha visto collaborare con la regione Campania per il recupero degli antichi telai del Real Belvedere di San Leucio, nella provincia di Caserta, un complesso edificato a partire dal 1779 per volontà del re Ferdinando IV di Borbone.

Larenza stesso ci ha raccontato : ” Come ho anticipato via Instagram, ho creato una connessione con la regione Campania dando vita ad un progetto di Social Responsibility per ridare valore ad un luogo, sinonimo di eccellenza nel mondo. Lo storico sito nasce nel 1779 dal sogno di Re Ferdinando di dar vita ad una comunità autonoma, fondata sulla produzione di pregiatissima seta, famosa in tutto il mondo per la sua raffinatezza ed eleganza. Il complesso monumentale racchiude tra le sue numerose stanze un piccolo gioiello di archeologia industriale, un’ampia sala con telai in legno per la produzione e lavorazione della seta perfettamente funzionanti. In accordi con le sedi delle Belle Arti, ho quindi preso parte al restauro dei prestigiosi telai e i lavori, iniziati i primi di dicembre, si sono conclusi durante i primi giorni del 2021″.



A fare da sfondo (altamente scenografico) agli outfit della collezione FW 2021/22, contraddistinti da volumi languidi e nuance calde, è dunque proprio il sito oggi patrimonio dell’Unesco.
I giovani pensatori del marchio sfoggiano morbidi suit effetto macchiato in velluto maltinto, declinati nelle sfumature del beige e blu; il motivo “macchiato” viene tradotto anche sulla maglieria in tessuto merino extrafine, ricorrendo alla tecnica jacquard. Ritroviamo la stessa, soffice varietà di lana nei cardigan a punti alternati e a coste larghe, proposti in cromie che spaziano dal senape al bianco latte al blu navy, mentre i pull di dimensioni maxi, vivacizzati da grafismi mutlicolor a mo’ di pixel e lavorati a jacquard, presentano colli “importanti” e trecce in rilievo sulla texture.

Per quanto riguarda i capispalla, spiccano i voluminosi cappotti checked in lana e alpaca, con maniche raglan, e gli overcoat doppiopetto con cintura d’impronta homewear, ampi e confortevoli come una vestaglia. Tra gli accessori, bisogna menzionare i cappelli modello beanie in alpaca bottonata, color panna o caratterizzati dalle striature tipiche del mouliné, e le sciarpe extra long in diverse tonalità di arancio e azzurro, percorse da righe.

Va rimarcata, infine, la citata partnership con la Regione e le sedi delle Belle Arti, volta a restaurare e donare nuova vita agli storici telai del Museo della Seta del Belvedere di San Leucio; una declinazione inedita e sorprendente del concetto di sostenibilità, in cui quest’ultima si lega alla valorizzazione di una tradizione di grande valore storico-culturale, oltre che artigianale.




La camicia hawaiana è il must dell’estate 2021 (Beckham docet)

Un paio di settimane fa Maserati ha rilasciato un filmato che vede David Beckham – novello global ambassador del Tridente – sgommare a bordo di un Suv Levante Trofeo. A fare notizia però, più delle prodezze al volante, è stata la camicia hawaiana di Saint Laurent esibita da Beck, uno sfavillio di fregi tropicali nelle sfumature del rosso, azzurro e bianco su base nera.
Un pezzo con tutti i crismi della categoria aloha shirt, lasciato aperto sulla t-shirt e accompagnato da ampi pantaloni neri; considerato il gradiente di coolness dell’asso del calcio inglese, c’è da scommettere che diventerà un must-have del menswear primavera/estate 2021.

Beckham, tra l’altro, va ad aggiungersi a una schiera di estimatori di prim’ordine avvistati recentemente con indumenti in stile Hawaii, da Justin Bieber a Cara Delevingne, dalla blusa vitaminica di Celine indossata da Rihanna per una capatina al supermercato a quella in tinte neon con cui Bill Murray si è collegato alla cerimonia (virtuale) dei Golden Globe 2021.



Questa plausibile, inattesa centralità della hawaiian shirt, che evoca in genere istantanee ben poco glam (signori attempati ritiratisi a svernare in Florida, commedie ambientate in location idilliache, freak che manifestano a mezzo camicia la volontà di non prendersi mai sul serio, ecc.) causerà probabilmente parecchie alzate di sopracciglio, ma a ben guardare si è insinuata da tempo nel reame dello stilisticamente corretto – o perlomeno accettabile, ricomparendo a fasi alterne nelle tendenze di stagione.

Dopotutto, le grafiche palpitanti che la caratterizzano (fiori di ibiscus, piante esotiche e altri motivi jungle) accendono l’immaginazione e forniscono alla mise un boost non indifferente di colore, utile a spezzare la monotonia di tute e simili tenute casalinghe, senza contare che questa è la stagione in cui, si spera, riusciremo finalmente a sbarazzarci del virus mortifero, trasferendo magari anche sugli abiti una sensazione di ritrovata vitalità.

Per inquadrare al meglio la camicia hawaiana sono necessari alcuni cenni storici: sebbene non vi sia una data precisa, l’origine è da ricercarsi sicuramente nell’arcipelago del Pacifico, un’oasi di multiculturalità dove, nei primi decenni del Novecento, convivono già immigrati portoghesi, cinesi, giapponesi e del Sud-Est asiatico, con ciascuna etnia che contribuisce a codificarne le caratteristiche; il risultato finale, infatti, è un incrocio tra la foggia della palaka indossata dai lavoratori delle piantagioni, la stoffa crêpe dei kimono e i colori appariscenti del tradizionale kapa degli isolani, da portare come il barong tagalog filippino, una camiciola trasparente tenuta fuori dai pantaloni.
Le fattezze del capo, da allora, sono rimaste pressoché invariate: il taglio è ampio e squadrato, le consistenze ridotte al minimo sindacale grazie all’impiego di tessuti quali seta, mussola, lino o viscosa, le maniche invariabilmente corte, le punte del colletto ripiegate e distese. In buona sostanza, un indumento ad alta riconoscibilità, specie per quei visitatori che, a partire dagli anni ‘20, giungono alle Hawaii e prendono ad acquistarlo come souvenir di viaggio. In breve la richiesta si impenna, di conseguenza aumentano a dismisura le imprese locali dedite a confezionarlo, compresa quella di un tal Ellery Chun che nel 1936 registra il marchio ‘aloha shirt’ (l’altro nome con cui è conosciuto).


Nel ventennio successivo alla fine del secondo conflitto mondiale, con centinaia di migliaia di turisti che affluiscono nelle spiagge dello stato americano, la camicia hawaiana conosce il suo periodo di massima popolarità, guadagnandosi addirittura la copertina della rivista Life, che nel dicembre ‘51 mette in prima pagina il presidente Harry Truman con addosso una candida versione floreale. Per favorirne la diffusione anche al di fuori dei contesti vacanzieri, la Hawaiian Fashion Guilde nel ‘66 si inventa perfino l’Aloha Friday, antesignano della prassi ormai consolidata del look informale per il venerdì in ufficio.
Sono tuttavia film e serie tv a scolpirne il profilo nell’immaginario collettivo del tempo: il catalogo di celebrità apparse sul grande e piccolo schermo in camicia hawaiana è sterminato, si va dai divi dell’età dell’oro di Hollywood, come Frank Sinatra in ‘Da qui all’eternità’ (1953) o Elvis Presley in ‘Blue Hawaii’ (1961) al Johnny Depp sotto acidi di ‘Paura e delirio a Las Vegas’ (1998), dall’eroe romantico per eccellenza (Romeo/Leonardo DiCaprio nell’adattamento firmato Baz Luhrmann della tragedia shakespeariana) a Tom Selleck, aka il detective godereccio del telefilm ‘Magnum P.I.’, non a caso di stanza a Honolulu.

In tutto questo la moda non tarda a fornire le sue varianti sul tema Hawaii shirt, cogliendone le potenzialità di alternativa civettuola alla schematicità insita in buona parte dell’abbigliamento maschile, e indulge volentieri in cromatismi pop, stampe fantasmagoriche e texture impalpabili.



Tornando alla P/E 2021, designer e brand sembrano orientati a recuperare l’originaria vocazione leisure della camicia, con superfici adorne di grafiche tropicaleggianti e forme fluide come non mai. È d’obbligo partire dal citato modello di Beckham targato Saint Laurent, parte della collezione estiva della maison. Il direttore creativo di Casablanca Charaf Tajer, invece, fa tesoro del lockdown passato a Maui, traslando sulle blusa i paesaggi celestiali dell’isola, tra palmizi, onde e dune di sabbia in tonalità lisergiche.
Pierpaolo Piccioli, chez Valentino, ricorre ai fiori per trasmettere l’idea di una mascolinità radicalmente romantica, dispiegando sulla seta color lavanda il motivo Flying Flowers; peraltro sono diversi gli stilisti che subiscono il fascino dei print fiorati: Paul Smith, per esempio, piazza sul twill celeste del camiciotto, provvisto di tasche frontali, rose di un giallo intenso; Jun Takahashi di Undercover opta per veri e propri bouquet nei toni del rosso e arancio, Pierre Mahéo (Officine Générale) per ramages stilizzati su fondo bianco, mentre il modello disegnato da Saif Bakir ed Emma Hedlund (CMMN SWDN) brulica di foglie e infiorescenze in nuance bruciate; e ancora, Davide Marello di Davi Paris diluisce a mo’ di acquerello i contorni dei fiori riprodotti al centro della camicia.

Altrove, le fantasie sono se possibile ancora più sfolgoranti: è il caso di Versace, che riedita sulle camicie hawaiane flora e fauna marina della stampa d’archivio Trésor de la Mer, in un’esplosione di cromie brillanti, oppure di Dries Van Noten, che traduce su tessuto la psichedelia pittorica dell’artista Len Lye, o ancora dei pattern-cartolina della shirt di Amiri.



Con una tale abbondanza di esempi, per adeguarsi al trend è sufficiente scandagliare i negozi, fisici o virtuali che siano, alla ricerca dei pezzi sopramenzionati, scegliendo tra un ventaglio di proposte che include modelli griffati Valentino, Casablanca, Dries Van Noten, Saint Laurent, Paul Smith, Officine Générale e CMMN SWDN. Alla lista si potrebbero poi aggiungere la camicia hawaiana in misto cotone e seta di YMC, densa di coloratissimi disegni floreali, quella di NN07, vivacizzata da pennellate bianche e blu, e infine quella di Prada dai toni poudré, un florilegio di petali, steli e boccioli.
Tutto sommato, se a causa della pandemia perdurante non sarà possibile nemmeno quest’estate raggiungere località turistiche più o meno ambite, basterà indossare la camicia “giusta” per sentirsi in vacanza. 

La Portugal Fashion Week presenta (online) le collezioni Fall/Winter 2021-22 dei designer lusitani

La 48esima edizione della Portugal Fashion Week, dedicata alle collezioni Fall/Winter 2021-2022 e conclusasi pochi giorni fa, presentava quest’anno un titolo emblematico, The Sofa Edition. Come praticamente tutte le settimane della moda internazionali, infatti, anche quella organizzata nella città di Porto ha dovuto trasferire online runway, webinar, interviste e quant’altro, suddividendo il tutto in due step: i primi nove show sono andati in scena dal 18 al 20 marzo, mentre nella tre giorni di aprile, dal 22 al 24, altre 25 griffe hanno svelato le proprie proposte per la stagione fredda che verrà.

Di seguito, un compendio dei défilé che hanno scandito la kermesse modaiola portoghese.

Take 1

Nel primo take di marzo, si sono dati il cambio giovani creativi e nomi affermati del fashion system locale, a cominciare da Maria Carlos Baptista, vincitrice nel 2020 del contest BLOOM e chiamata proprio dalla piattaforma che supporta i nuovi talenti lusitani a inaugurare (virtualmente) le passerelle della Portugal Fashion, con le sue mise strutturate, dai profili allungati.

Il giorno seguente, è stato il turno di Miguel Vieira, che si è distinto per il tailoring sofisticato, dagli accenti glam rock, della sfilata uomo ‘DNA’, una sfilza di suit affilati e outerwear in materiali deluxe, tra completi velvet, voluminose broche appuntate ai revers e pantaloni smilzi, infilati immancabilmente negli stivali alti.
Da segnalare, in questa prima tornata di eventi, anche le collezioni di Ernest W. Baker, David Catalán e Alexandra Moura: se il primo ha optato per look d’ispirazione rétro, definiti da giacche boxy, pants scampanati, tartan e trapuntature, il secondo ha «rivisitato l’essenza del brand» a suon di capi mutuati dal mondo workwear, texture scolorite ad hoc e vestibilità morbide; Moura, infine, si è sbizzarrita con la decostruzione delle silhouette, attingendo liberamente da sottoculture musicali e influenze anni ‘90, in un pastiche di finissaggi lucidi, pezzi over e tinte acide. 



Davii

Il guardaroba per il prossimo Autunno/Inverno 2021 immaginato da Fabiano Fernandes dos Santos, fondatore e direttore artistico della label Davii, esprime un’eleganza tanto effortless e rilassata, quanto raffinata nella costruzione sartoriale degli outfit, risultato di tagli precisi al millimetro e linee fluide. Gli abiti in seta e organza, delicatamente drappeggiati, scivolano sinuosi sul corpo, accompagnandosi il più delle volte a capispalla avvolgenti quali overcoat, mantelle e spolverini senza maniche. I materiali ricercati, in apparenza ruvidi, rivelano invece una mano eccezionalmente soft e invitano al contatto, così da apprezzarne al meglio la pregevolezza.

La raffinatezza timeless che contraddistingue le uscite viene accentuata dalla palette cromatica, ristretta a poche, ben calibrate sfumature di cammello e avorio, oltre agli immancabili bianco e nero.



Hugo Costa

Spirito di sacrificio, resilienza e realizzazione personale sono le parole chiave della collezione co-ed di Hugo Costa, uno dei più talentuosi stilisti portoghesi nel panorama del menswear. Intitolata ‘Nimsday’, è ispirata alle gesta di Nirmal Purja, l’alpinista dei record capace, nel 2019, di scalare in meno di sette mesi tutti i 14 “ottomila”, le montagne più alte del pianeta. I valori sottesi alle imprese di Purja vengono tradotti, sulla passerella, in una profusione di dettagli grintosi, forme decise e tessuti resistenti.
Prevalgono capi e filati d’impronta tecnica (piumini imponenti, anorak, giacche-camicia di matrice utilitarian, pantaloni con elastici sul fondo…), spesso cosparsi di coulisse che ne modellano i volumi, come fanno del resto gli orli irregolari o incrociati sul fronte che caratterizzano soprattutto le giacche. Un’ulteriore nota strong viene poi conferita dai colori vitaminici, su tutti arancione e giallo evidenziatore.



Marques’Almeida

La sfilataA/I 2021 di Marques’Almeida segna un ulteriore passo nella direzione della sostenibilità, tema cruciale per il marchio che, d’altra parte, gli ha riservato un apposito manifesto di responsabilità ambientale e sociale.
Marta Marques e Paulo Almeida, il duo creativo al timone del brand che porta i rispettivi cognomi, puntano perciò sulla produzione locale, imperniata su tinture eco, cotone upcycled e fibre biodegradabili, declinando il tutto in look in equilibrio tra la frivolezza di ruches, volant, plissé & co e l’esuberanza sprigionata dalla mole di stampe tie-dye, jeans stinti, orli a vivo, profili sfrangiati e così via.
Le silhouette risultano semplificate, definite da proporzioni generose, mentre le cromie rispecchiano la suddetta dicotomia tra leziosità e sfrontatezza, alternando tonalità zuccherose – rosa confetto, lilla, verde menta ecc. – e flash di colore pop.



Nuno Miguel Ramos

Il défilé di Nuno Miguel Ramos, ‘Ride’, sintetizza in modo efficace, fin dal titolo, la volontà del designer di dare libero sfogo al suo estro immaginifico, guardando oltre le difficoltà del periodo con creazioni esuberanti, da grand soirée: le modelle incedono sulla pedana con sandali platform e décolletées ornate di pelliccia, avvolte in nuvole di tulle o long dress sinuosi che enfatizzano la figura, arricchiti da grafismi floreali all-over, motivi animalier o vezzosi pois.
Una creatività sopra le righe che si estende anche alle proposte daywear, con i tailleur scintillanti di paillettes e gli outfit più basic che optano per l’intensità cromatica del rosso lacca.



Rita Sá

L’uomo protagonista della collezione A/I 2021 di Rita Sá è in bilico, stilisticamente parlando, tra la volontà di rimanere in una sorta di comfort zone vestimentaria e la spinta al cambiamento drastico, una condizione di sospensione esplicitata già nel nome scelto per lo show, ‘Nem ata nem desata’ (in inglese, ‘Not one way or another’). Si spiegano così le mise ibride che giustappongono piglio dégagé e accenni formali, mescolando senza soluzione di continuità bomber, shorts, felpe, joggers e altri must dell’abbigliamento urban con peacoat, camicie dall’aplomb sartoriale e pantaloni con la piega centrale (seppur realizzati in denim). 



La recitazione secondo Gianni Rosato: impegno, passione ed emozione

Hair Stylist:  Gian Battista Virdis di A.M. Parrucchieri Porto Torres

Gianni Rosato è un attore prolifico che nel corso della sua carriera ha accumulato un gran numero di esperienze tra teatro, tv e cinema. Originario di Catanzaro, si è trasferito a Roma per rendere la recitazione una professione, frequentando il Centro Sperimentale di Cinematografia e l’Actor’s Planet.
Nel 2005 è stato notato dal regista Giulio Base, che gli ha regalato il suo primo ruolo cinematografico in L’inchiesta. Da allora ha recitato in diverse serie e pellicole, passando dai titoli noti al grande pubblico (tra gli altri Un medico in famiglia e Che Dio ci aiuti) a film come Figli di Maam e Edhel, per finire con La fuggitiva, in onda su Rai 1. 


Ph: Serafino Giacone

Come è nata la tua passione per la recitazione?

«Questa domanda me l’hanno fatta spesso, non riesco a dare una risposta precisa. Ricordo benissimo che in terza elementare scrissi su un compito in classe di voler fare l’attore.
La passione per la recitazione è venuta col tempo, comunque mi è sempre piaciuta l’idea di vivere una vita diversa, magari di evadere da quelle situazioni in cui subivo il bullismo e desideravo  solo chiudere gli occhi e fuggire; poi mi sono reso conto che si trattava solamente di voglia di esplorare, di mettersi alla prova e raccontare delle storie interpretando qualcun altro.
Mi affascinava il cinema dei grandi registi italiani e non solo, negli anni della scuola restavo incantato davanti a film come E.T. L’extra-terrestre o Il tempo delle mele. Ecco, penso che la passione sia esplosa proprio lì.
La recitazione è l’arte del poter vivere tante realtà, è pensare, interagire, immedesimarsi nei personaggi più disparati. Non basta imparare a memoria la parte, bisogna compiere un lavoro interiore tremendo e meraviglioso al tempo stesso, con cui si impara a conoscere davvero se stessi e incanalare le emozioni. Amo recitare, non importa il contesto, la cosa importante è farlo al meglio, emozionandosi».

Quali sono i tuoi maestri, ideali e non?

«Idealmente avrei tanto voluto confrontarmi con chi ha fatto la storia del cinema, ad esempio Fellini, Bertolucci, Leone, Antonioni e Pasolini.
Per quanto riguarda la mia formazione, potrei stilare un elenco infinito partendo da Giancarlo Giannini, Alberto Negri, Enzo Garinei… Mi reputo fortunato ad aver avuto la possibilità di studiare con grandi autori, e di continuare a farlo. Non nascondo che mi piacerebbe moltissimo lavorare con Özpetek, Genovese, Bruno e un regista con cui ho già collaborato e che stimo senza riserve, Carlo Carlei».

Qual è la prima esperienza professionale ad averti segnato?

«Per mantenermi facevo il cameriere in un locale e una sera incontrai Giulio Base. Per farla breve, mi chiese cosa facessi nella vita, gli parlai di me, di quanto credessi nella passione per il cinema. Due giorni dopo mi chiamò la IIF, Giulio aveva visto in me qualcosa e mi diede un ruolo inL’inchiesta, così mi ritrovai a confrontarmi con nomi del calibro di Ornella Muti, Mónica Cruz e Max von Sydow; un’esperienza straordinaria, che auguro a tutti!».


Ph: Serafino Giacone

Hai lavorato anche in una celebre fiction, Un medico in famiglia: parliamo di come cambia il tuo lavoro a seconda delle diverse esperienze.

«Ho conosciuto Lino Banfi anni fa, ricordo che ci raccontò della sua infanzia difficile e, vedendolo emozionarsi, espressi fra me e me il desiderio di lavorare insieme, da una personalità del genere c’è solo da imparare.
Nella serie ho interpretato un personaggio dal carattere forte che si scontra subito con Nonno Libero, l’ho vissuto intensamente anche perché, come ho detto varie volte, amo dar vita ai personaggi sfruttando i miei trascorsi, tuttavia quando non hanno niente a che vedere con il mio passato e non mi somigliano affatto, il gioco si fa ancora più divertente».

Sono in uscita nuove produzioni a cui hai preso parte, a partire da La fuggitiva, puoi parlarcene?
«Devo dire innanzitutto che lavorare con un regista come Carlei è stata una grandissima soddisfazione, professionalmente parlando mi sono innamorato di lui da ragazzino, guardando i film su Padre Pio ed Enzo Ferrari.
Ne La fuggitiva sono Goran, faccio parte di un clan di slavi che decide di rapinare una famiglia facoltosa, alla fine però, come spesso accade, le cose non vanno come previsto… Ma non voglio anticipare nulla, si tratta di una storia davvero avvincente, che terrà gli spettatori col fiato sospeso per tutto il tempo. Andrà in onda su Rai 1 nel prime time».


Ph: Serafino Giacone

Al di là del lavoro, quali sono le tue passioni?

«Ho sempre sognato di lanciarmi da un aereo, sicuramente lo farò. Amo andare a cavallo, leggere un bel libro e confrontarlo con il film senza aspettarmi nulla in particolare. Solitamente cerco di realizzare tutto ciò che sogno ad occhi aperti e se non ci riesco va bene così, almeno non avrò rimpianti.
Mi chiedo spesso cosa farei se non fossi un attore e penso che mi piacerebbe essere un oncologo, salvare vite, dare il mio contributo alla scienza».

Quando viaggi cosa non può mancare nella valigia?

«Immagino verrebbe spontaneo rispondere con cose tipo documenti, carte di credito, cambio e così via, nel mio caso però non deve mai mancare il costume da bagno, perché ogni volta che parto la direzione è il mare, è vitale per ricaricarmi».


Ph: Gian Piero Rinaldi

Quali sogni vorresti realizzare nei prossimi anni?

«In realtà non ho sogni ben chiari, o magari sono troppi… Ho imparato comunque che sono il carburante della vita, si possono avere infiniti sogni e progetti, non ci sono limiti in questo senso, dunque ho deciso di fare una lista di ciò che amo, dei luoghi da visitare e, perché no, di tutte le cose folli che finora non mi sono permesso di provare per paura del giudizio altrui. Voglio adoperarmi affinché non passi un solo giorno senza fare qualcosa per me stesso. Bisogna sempre concedersi la possibilità di stupirsi, di meravigliarsi di fronte alle novità, si potrebbero scoprire cose che non hanno prezzo». 

Ad Hoc Atelier, la start-up che raccoglie online il meglio della moda artigianale Made in Italy

Il Belpaese, si sa, custodisce un patrimonio incredibile di atelier, botteghe e maestranze in grado di coniugare creatività e savoir-faire artigianale, realizzando prodotti one of a kind che declinano in maniera esemplare il concetto buy less, but better, più che mai attuale in un’epoca come la nostra, che sembra avere finalmente compreso l’insostenibilità di un modello basato su sovrapproduzione e corsa esasperata alle novità.
A rendere disponibile online il lavoro delle realtà succitate è ora Ad Hoc Atelier, start-up totalmente italiana attiva con una piattaforma di vendita di abiti, accessori e gioielli maschili e femminili, 100% Made in Italy e stilosi al massimo grado; risultano dunque a portata di clic creazioni di nicchia, valorizzate dalla qualità impareggiabile che solo il know-how italiano riesce ad ottenere, immediatamente riconoscibili sia a livello di design sia di storytelling che portano con sé. 

I fondatori – Lorenzo Colucci, Carolina Du Chene, Giovanni Friggi, Vittorio Tatangelo – sono quattro ragazzi bocconiani under trenta, che la scorsa primavera hanno deciso di lanciare un marketplace che fosse la vetrina ideale per i marchi più eclettici sparsi nella Penisola, compiendo così idealmente un viaggio alla scoperta di brand magari poco conosciuti che, però, esprimono il meglio che l’Italia possa offrire, vale a dire bellezza e tradizione artigianale. Il sito fornisce agli utenti un prezioso carnet d’adresses, digitale e contemporaneo, composto di indirizzi selezionati attentamente, ricorrendo il più delle volte al passaparola, e traccia una panoramica delle eccellenze nostrane da nord a sud del Paese, e viceversa. 



L’obiettivo è offrire un sostegno concreto al Made in Italy sfruttando l’e-commerce (canale che negli ultimi tempi ha registrato un’accelerazione incredibile, concentrando in soli nove mesi una crescita equivalente a quella di sette anni) e mettendo al centro di tutto qualità e sostenibilità, nel segno del “comprare meno, ma meglio”.
Ad Hoc Atelier è già stato selezionato da Astra Incubator (un incubatore di start-up pensato per connettere i potenziali innovator, formando team caratterizzati da quante più competenze possibili) e ricerca continuamente lo straordinario, consentendo ad appassionati e fashion addicted di entrare in contatto con le migliori botteghe e imprese artigiane d’Italia.

Ad oggi sono circa cinquanta le label che hanno sposato la filosofia del progetto, presenti sull’e-store: si va in questo senso dai pezzi firmati Giglio Tigrato (Milano), che grazie alla pittura trasforma indumenti vintage in capi personalizzati unici nel proprio genere, alle proposte energiche, coloratissime di Emmecici (Torino), dai monili in oro, argento e bronzo – lavorati rigorosamente a mano – dell’orafa milanese Giulia Tamburini, agli abiti chic ed essenziali di Y’AM Capri, marchio che celebra l’appeal immortale dell’isola.



www.adhocatelier.it

L’attore Niccolò Ferrero si racconta tra passioni, esperienze e traguardi

PH: Davide Musto

Niccolò Ferrero è un attore torinese 24enne, trapiantato a Roma per lavoro. Ha studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia per poi prendere parte a serie, cortometraggi e un film di prossima uscita, E buonanotte, che segnerà il suo debutto da protagonista sul grande schermo.



Puoi raccontarci il tuo percorso? Chi è e cosa fa Niccolò…
«L’amore per i film nasce da due genitori appassionati che mi hanno sempre portato al cinema, così che una volta a casa mi trovavo a rivivere quanto avevo visto, diventando un cowboy, uno 007 ecc. Essendo figlio unico giocavo perlopiù da solo, mettendo su dei veri e propri set con ciò che capitava, penne, bottiglie e così via, idem a scuola quando mi annoiavo, una cosa che in realtà faccio tuttora».



Qual è stato il tuo percorso verso la recitazione?

«Mi ci sono avvicinato a 17 anni, nei tre mesi trascorsi alla Ucla, e tornato in Italia ho realizzato di voler fare questo nella vita, ripromettendomi di entrare al Centro Sperimentale, che consideravo il tempio della recitazione, un obiettivo effettivamente centrato. Avevo però un grande handicap per un attore, la erre moscia, così per tutto il primo anno mi sono dedicato agli esercizi per correggerla, riuscendoci; quello ha rappresentato un cambio importante a livello di consapevolezza».



Hai recitato in tv, corti, film, c’è un genere che preferisci?
«Il mio regista preferito è Salvatores, che in questo senso spazia moltissimo, mi piacerebbe fare altrettanto e mettermi alla prova con tutto. A livello di singolo progetto, invece, sceglierei certamente E buonanotte, che uscirà a breve: è quello cui sono più affezionato, il mio primo film da protagonista».



Ho notato parecchio teatro nel tuo curriculum…

«Ho fatto molto teatro a Torino, fino ai 18 anni, un modo di esprimermi significativo, ho cominciato però soprattutto per seguire i miei compagni di scuola, ritrovandomi sul palco. Tutti gli spettacoli sono stati realizzati da un gruppo torinese guidato da Enzo Pesante, in cui i ragazzi scrivono i testi da mettere in scena. Non ho avuto quindi una formazione teatrale classica, come quella che in seguito mi avrebbe fornito il Centro (dove si passava dagli autori russi dell’800 alle pièce moderne), era un’attività sperimentale, un gioco se vogliamo, ma stimolante».

Sogni di lavorare con qualche regista in particolare? Ci sono generi o ruoli specifici cui vorresti dedicarti?

«Per quanto riguarda i registi Salvatores, sicuramente. In camera ho tre poster: Goodfellas (dunque se vogliamo sognare in grande, un bel gangster movie con Al Pacino), L’odio e, di nuovo, Salvatores con Mediterraneo. Scherzi a parte, sono esempi di generi con cui sarebbe bello confrontarsi, inoltre mi piacerebbe interpretare un road movie».



Vuoi parlarci del tuo primo film?

«E buonanotte è la storia del mio personaggio Luca, un 20enne che ha perso la mamma da piccolo, una perdita che gli ha causato una grande mancanza; lui la associa e traduce in una cronica mancanza di tempo, sostiene di non averne mai abbastanza, di non poter fare nulla, e sogna di eliminare il sonno per non sprecarlo… E ci riesce, arriva addirittura a non essere mai stanco, nonostante tutto continua però a fare esattamente le stesse cose di prima (uscire, giocare alla PlayStation…), finché l’incontro con una ragazza lo porterà a usare il tempo in modo diverso, a donarlo agli altri; vivrà quindi una trasformazione che mi è piaciuto molto rendere, anche in termini di abiti, modo di parlare e via dicendo».



Come valuti il binomio costume e personaggio? Che rapporto hai personalmente con la moda?
«Credo sia fondamentale il rapporto tra abito e personaggio, l’ho capito al Centro quando ho recitato testi di autori ottocenteschi ed erano diversi i capi come il modo di portarli; lo stesso vale per i progetti ambientati negli anni ‘60, vestendo una giacca di quel periodo ho sentito una pesantezza inedita, e questo cambiava anche il modo di camminare, di relazionarsi all’abito. Io poi cerco sempre di assumere la condizione fisica del personaggio, per riuscirci devo passare da ciò che indossa e perciò provo a sperimentare, a confrontarmi in merito con truccatori e costumisti. Sul set di E buonanotte, ad esempio, neppure provavo senza determinati accessori che mi facessero calare nel ruolo (orologio, scarpe bianche ecc). In sostanza, quando studio e poi divento un personaggio mi ci dedico a 360 gradi, abiti compresi.

Il mio stile personale è a metà tra casual e streetwear, di solito indosso jeans skinny e d’estate oso capi più particolari, camicie di lino con collo alla coreana oppure blazer leggeri. Mi piace inoltre scovare delle chicche nei negozi vintage, senza badare troppo al marchio».



Progetti e desideri per il futuro?

«Spero innanzitutto che esca quanto prima E buonanotte, in autunno invece sarò su Rai1 con il serial Blanca. Tra qualche settimana, poi, arriverà su Canale 5 Buongiorno, mamma! in cui interpreto Piggi, personaggio della linea comica; il regista è Giulio Manfredonia, è stato davvero interessante lavorare a un ruolo comico con lui che ha vinto il David con la commedia Si può fare. Per il futuro, spero di continuare così».

Chi è Teddy Santis, il nuovo direttore creativo di New Balance che vuole cambiare lo streetwear

Lo scorso 5 aprile New Balance ha annunciato la nomina di Teddy Santis al timone creativo della linea Made in USA.La notizia equivale a un sigillo sull’annata 2020, rivelatasi eccezionalmente positiva per la società che si è piazzata quarta nell’annuale Current Culture Index di StockX, report che fotografa al meglio lo stato dell’arte del mondo street. Il merito di questo exploit è da ascrivere anche al neodirettore artistico, che ha collaborato varie volte con NB, infondendo un appeal per certi versi scanzonato, ma convincente, nelle calzature più emblematiche della label.



Santis non è certo un neofita del fashion system, in cui è entrato ufficialmente nel 2014 con il brand Aimé Leon Dore e da allora, pur mantenendo l’alone di outsider allergico al presenzialismo e alquanto complicato da inquadrare nelle categorie abituali (streetwear, lusso, high-end et similia), continua a mietere consensi di critica e (soprattutto) commerciali.

Newyorchese doc, nato e cresciuto nel Queens, è in effetti un designer atipico, dal curriculum privo della consueta trafila di fashion school e griffe blasonate, e si avvicina quasi casualmente alla moda, attratto dalla prospettiva di farne il connettore delle sue tante passioni ed esperienze, dai brani rap e hip hop che hanno cadenzato gli anni ‘90 (Tupac, Nas, Moob Deep ecc.) ai campetti da basket del borough, dall’eleganza old school della buona borghesia cittadina, codificata nelle collezioni di marchi come Ralph Lauren, Brooks Brothers e Gant, al culto per lo sportswear coevo e relative icone, Michael Jordan über alles.

Alla fine dei Duemila, Santis lavora nella tavola calda dei genitori nell’Upper East Side, a rischio chiusura per la costruzione di una linea metro; valuta quindi il proverbiale piano B, concretizzandolo nell’impiego in un negozio di occhiali dove gestisce la parte marketing, e alcuni clienti, apprezzandone le doti creative, lo incoraggiano a provare con l’abbigliamento. Nel 2010 comincia così a familiarizzare con l’idea di un suo brand, in cui trasferire i suddetti interessi e declinarli in capi dalle vibe metropolitane, che puntino sulla pulizia di linee e volumi, una sorta di casualwear racé. Procede per tentativi ed aggiustamenti graduali, evitando da subito la tentazione (comune alla quasi totalità delle etichette street che, contemporaneamente, assurgono alla notorietà globale) di sfornare ad libitum magliette, hoodie, tute & co, concentrandosi piuttosto sulla definizione di un’estetica riconoscibile, precisa nella costruzione eppure variegata come la città da cui trae linfa vitale, New York.



Quattro anni dopo il marchio viene registrato come Aimé Leon Dore, unendo l’equivalente francese di “amato”, il soprannome del padre di Santis e le quattro lettere finali del suo nome di battesimo, Theodore. Viene aperto anche un pop-up a NoLiTa, vivace quartiere incastonato tra East e West Village, che finisce con l’essere uno store a tutti gli effetti.

ALD – come viene generalmente indicato – inizia a farsi la reputazione di risposta newyorchese ad A.P.C. (label che dimostra come, nella moda, si possa rimanere rilevanti pur rifuggendone i ritmi forsennati e la ricerca esasperata della novità): il suo è uno streetwear in salsa preppy (o viceversa), che tiene insieme i key pieces dello stile college (camicie Oxford, chinos, polo a righe, cardigan e compagnia bella) e quei capi sportivi – dalla felpa alla tracksuit, dallo smanicato al bomber – ormai dogmatici nel menswear.
Santis mette infatti sullo stesso piano realtà (all’apparenza) antitetiche, citando Ralph Lauren come Nom de Guerre, un collettivo che i bene informati sostengono abbia, di fatto, inventato lo streetwear.



Le collezioni dei primi due anni puntellano quella crasi tra athleisure e tailoring che diventerà la specificità della griffe, tra overcoat piazzati sui pantaloni in felpa e fleece jacket nobilitate dal cappotto spigato, intervallando il tutto con capsule in coppia con l’amico Ronnie Fieg di Kith (altro nome in rapidissima ascesa nell’industria fashion) e una prima co-lab di spessore nella S/S 2015 con Puma, in cui le sneakers States vengono aggiornate e colorante di nuance ricorrenti nella palette di ALD, ossia crema, ghiaccio e burgundy.

A partire dalla F/W 2016, alle proposte più sensibili a gusti e umori del pubblico viene affiancata la linea Uniform Program, che raccoglie evergreen quali t-shirt, maglie girocollo, jeans e sweatpants, tendenzialmente monocromatici e dalle tonalità sobrie (blu navy, verde militare, bianco ecc.).

Le collaborazioni, nell’ottica di ALD, non sono uno stratagemma per ottenere profitti e visibilità nel minor tempo possibile, bensì un’opportunità da perseguire solo nel caso in cui si intraveda un reale valore aggiunto. Sotto questo aspetto, con quelle del biennio 2017-18 si registra uno scarto nell’evoluzione stilistica del brand, che dapprima realizza modelli in lana e pelo di cammello degli inconfondibili cappellini New Era con le iniziali intrecciate dei New York Yankees, poi fa squadra con un’istituzione dell’outerwear come Woolrich (sbizzarrendosi con parka abbreviati a mo’ di blouson, gilet in pile zeppi di tasche e puffer jacket a maniche corte), quindi rilegge i classici boots Timberland, trasformandoli in scarponcini bicolor con punta squadrata, stringhe laterali e lacci che abbracciano il collo della scarpa.
A queste partnership verrà dato impulso con ulteriori edizioni limitate, tra boat shoes in pelle pregiata (nel caso di Timberland) e duvet in velluto millerighe, giubbotti dalle cromie sgargianti, camicie e pantaloni attraversati da trapuntature ondulate, piumini color block (in quello di Woolrich). In seguito verranno siglate nuove collaborazioni con Paraboot, Drake’s (una collezione che esalta il côté sartoriale del marchio) e Porsche, per cui Santis customizza la leggendaria coupé 911 Carrera 4, con annessa capsule di capi e accessori coordinati.



Nel 2019 ALD inaugura il nuovo flagship di Mulberry Street, tutto modanature, legno e parquet, ma soprattutto vengono presentate le runner New Balance 997, rinvigorite da sprazzi di colore pop, che danno il la al sodalizio creativo di cui sopra: l’azienda affida infatti al marchio l’upgrade di altre trainers d’archivio, dalle 990v2 e v5 (le dad shoes par excellence, qui giocate sulla giustapposizione di materiali e pannelli differenti) alle P550, sneakers dichiaratamente nostalgiche, che sembrano uscite da un match Nba degli eighties. Ogni uscita è accompagnata da campagne pubblicitarie d’antan, con fondale neutro e slogan sardonici, i cui protagonisti sono modelli “improvvisati” epperò cool: signori agée impeccabili nella tenuta d’ordinanza ALD, eccentrici locals, giocatori amatoriali di basket.

L’intesa tra la griffe e New Balance è in tutta evidenza proficua, e adesso viene coronata dalla direzione creativa dello stesso Santis; chissà che, anche grazie al nuovo incarico, il fondatore di Aimé Leon Dore non riesca a promuovere una diversa concezione dello streetwear, che anteponga la qualità alla quantità e si liberi dell’ossessione per l’hype. 

I costumi deluxe di Vilebrequin: un successo lungo 50 anni

L’ambizione di elevare lo swimwear a status symbol, al pari di orologi, scarpe e altri capi/accessori; i puntuali richiami a una località che è l’epicentro del bien vivre nella Costa Azzurra; lo stile connaturato appunto alla riviera francese, chic pur mantenendo quel je ne sais quoi sacro per i cugini d’Oltralpe; la qualità ineccepibile, conditio sine qua non di ogni luxury brand degno di tale nome; un senso del colore che sfocia puntualmente nel caleidoscopio di nuance, arzigogoli e pattern caratteristico delle collezioni. Sono questi, in breve, i punti salienti della storia di Vilebrequin, griffe di costumi da bagno di alta gamma che taglia proprio in questi giorni il traguardo del mezzo secolo, celebrato con una capsule collection composta di 50 pezzi, uno per ogni anno di attività, che passa in rassegna le peculiarità grafiche delle varie decadi, dalle fantasie stroboscopiche degli anni Settanta al bestiario a tinte fluo degli Zero, con le texture invase da polpi, fenicotteri, tartarughe e pesci.



Di proprietà dal 2012 della società statunitense G-III Apparel Group, la label conta oggi su un network di quasi 200 boutique sparse in 60 paesi, la maggior parte delle quali in ambite mete balneari, da Honolulu a Saint Barth alle nostrane Capri, Portofino e Forte dei Marmi, e nel tempo ha affiancato ai costumi linee di abbigliamento (da spiaggia, perlopiù), calzature, occhiali e accessori, anche femminili e da bambino. A livello di suggestioni, cromie e rimandi più o meno espliciti, tutto sembra però convergere ancora verso il luogo dove Vilebrequin è nato esattamente cinquant’anni or sono, Saint-Tropez.
Nel 1971, infatti, complice soprattutto il successo strepitoso del film ‘Et Dieu créa la femme’ con Brigitte Bardot (subito innalzata al rango di divinità protettrice e, più prosaicamente, rimasta un’assidua frequentatrice) la cittadina nel sud della Francia si è già trasformata nel centro propulsore della mondanità rivierasca, affollato di attori, star della musica, aristocratici e capitani d’industria, da Mick e Bianca Jagger (convolati a nozze proprio quell’anno nel municipio locale) a Jack Nicholson, da Romy Schneider a Gianni Agnelli.

È proprio osservando gli avventori delle spiagge di Saint-Trop (come l’hanno soprannominata gli “iniziati”) che a Fred Prysquel, giornalista dall’animo bohémien con un debole per automobili e gare di Formula 1, viene l’idea di realizzare un costume che si differenzi da quelli aderenti e sgambati in voga nei seventies: prende a modello i bermuda prediletti dai surfisti e li accorcia a metà coscia, cucendoli con il tessuto usato nelle vele degli yacht, ottenendo un boxer rapido ad asciugarsi, comodo e originale.
I briefs, inoltre, saltano subito all’occhio grazie alle fantasie variopinte, ispirate ai decori wax della tradizione africana. Pare ad ogni modo che Prysquel volesse farsi notare innanzitutto dalla futura moglie Yvette, obiettivo effettivamente centrato, e lei rimane colpita a tal punto da quei costumi eclettici da venderli nel suo negozio, anche per soddisfare la richiesta degli habitué dei lidi tropeziani, che comincia a farsi pressante. In men che non si dica, viene depositato il marchio Vilebrequin, cioè “albero motore”, in ossequio alla passione del fondatore per le auto da corsa.


I coniugi Prysquel resteranno al timone fino al 1990, quando Vilebrequin viene ceduto e acquisito, due anni dopo, dall’imprenditore Loïc Berthet, che prosegue nel solco tracciato dai fondatori, apportando alcune migliorie al pantaloncino primigenio, rinominato Moorea (come il famoso lido di Saint-Tropez), e lanciando la formula père-fils, ovvero costumi pressoché identici per padre e figlio, che si rivelerà oltremodo azzeccata.
Le altre novità interessano principalmente forme e materiali, aggiornati per adeguarsi ai cambiamenti nelle preferenze e nel lifestyle della clientela, avendo sempre cura di preservare la pregevolezza che si confà a un capo di lusso, con prezzi compresi tra i circa 200 euro dei classici pantaloncini e i 450 delle edizioni limitate: l’originario tessuto mutuato dalla nautica viene perciò sostituito dalla poliammide, smerigliata per ottenere una mano particolarmente soffice; la lavorazione richiede 32 passaggi, diversi dei quali manuali (la confezione e posizionamento della tasca posteriore, l’inserimento dei cordini elastici, l’applicazione dell’etichetta con la scritta arcuata, irrinunciabile per ogni creazione del brand, ecc.); lo strato interno è privo di cuciture – per una migliore sensazione sulla pelle – e, come puntualizza l’attuale Ceo Roland Herlory, «bello quanto l’esterno».



Nel 2012, come detto, Vilebrequin viene rilevato da G-III, che spinge sull’espansione internazionale, moltiplica gli store e introduce nuove categorie per uomo e donna, un ideale corollario dello swimweartra t-shirt, bermuda, camicie di lino impalpabili, polo in nuance vitaminiche e magliette in fibre anti-UV. Al centro di tutto rimane però il costume maschile, e non potrebbe essere altrimenti visti i successi pluriennali nel settore, ma per dare nuovo slancio alla griffe arrivano le collaborazioni, ben ponderate e dosate col contagocce.
Il canale privilegiato è quello artistico, con gli autori coinvolti liberi di sbizzarrirsi sui boxer del marchio, dal fotografo Massimo Vitali (chiamato a istoriarli con panoramiche di litorali paradisiaci, spiagge gremite e scorci della Provenza) ai grafismi dal tratto pop di Alex Israel, per finire con uno dei più autorevoli esponenti dell’arte black, Derrick Adams, che rielabora i topoi della serie ‘Floater’, con i personaggi stilizzati a mollo su gonfiabili dai colori arcobaleno.

All’appello non mancano neppure alcuni designer dalla vena artsy: il primo della lista, nel 2017, è Karl Lagerfeld, per una limited edition a tema beachwear ravvivata da pennellate digradanti di bianco e blu; nel 2019 è il turno di Jean-Charles de Castelbajac, che stende su costumi e camicie hawaiane campiture in technicolor e illustrazioni naïf, e di uno specialista delle partnership come Virgil Abloh di Off-White, che mette in risalto gli stilemi che ne hanno decretato la fama planetaria (virgolette, strisce diagonali, tonalità “segnaletiche” di giallo e arancione).
Nel 2016, il brand si concede persino una capsule collection con i Rolling Stones, dispiegando sui briefs collage di copertine e artwork iconici della band, che del resto in quel fatidico ‘71 contribuì a cementare il mito della Côte d’Azur, vuoi per i citati trascorsi sentimentali del frontman, vuoi per i mesi di esilio (dorato) nella magione di Villefranche-sur-Mer.



L’ultimo, decisivo impegno di Vilebrequin è invece sul fronte della sostenibilità: oltre a supportare da anni l’associazione Te Mana o Te Moana, attiva nella salvaguardia delle tartarughe della Polinesia, sta implementando le pratiche virtuose sotto questo aspetto e il 62% della produzione impiega poliestere riciclato, tencel e altri filati green, una percentuale che la griffe dichiara di voler aumentare sempre di più, decisa evidentemente a tutelare quel patrimonio paesaggistico, naturale che è parte integrante della sua creatività da cinque decenni.

Le ultime novità digital di ROMAISON, tra approfondimenti sulla sartoria maschile e talk con lo stilista Romeo Gigli

Dalla metà del secolo scorso e per i successivi vent’anni, Roma è stata un crocevia di star del cinema, celebrità, artisti e intellettuali, sospesa tra la Dolce Vita e la Hollywood sul Tevere dei kolossal americani girati a Cinecittà.
A scrivere pagine considerevoli di quel capitolo straordinario, con ogni probabilità irripetibile nella storia della capitale d’Italia ha contribuito anche l’attività delle sartorie e laboratori di Costume romani; un unicuum pregno di collaborazioni, amicizie e sodalizi, possibile in effetti solo in un città come l’Urbe, dove le traiettorie del cinema, dell’arte e dello stile tendono a incrociarsi e saldarsi, in una commistione per certi versi caotica, eppure feconda. Il progetto ROMAISON intende mappare e valorizzare proprio l’operato di queste straordinarie realtà del Made in Italy, e il suo digital program si arricchisce ora di nuove iniziative.



Voluto e supportato al meglio dall’attuale amministrazione capitolina, ROMAISON si concentra sulla narrazione contemporanea di contenuti inediti volti a esplorare il patrimonio, materiale e immateriale, degli atelier, le cui storie hanno dell’incredibile e dove le tecniche artigianali procedono di pari passo con gli imprescindibili aggiornamenti tecnologici dettati dalla contemporaneità, senza dimenticare gli archivi – unici nel proprio genere – dei capi originali e le produzioni attuali. È così possibile tracciare nuove cordinate della storia del costume nell’ambito cinematografico e dello spettacolo, approfondendone inoltre la relazione con il settore della moda



Nelle prime due settimane di aprile, sui profili social @romaisonproject (Instagram e Facebook) i riflettori saranno puntati sulla costruzione, a livello vestimentario, del personaggio maschile, grazie ai podcast incentrati su due illustri insegne dell’alta sartoria romana, Litrico e Piattelli: la prima può vantare collaborazioni con registi della caratura di Fellini, Visconti, Monicelli, De Sica, Huston, Zeffirelli, Bertolucci, Scola e Petri, così come con diversi costumisti (Tosi, De Matteis, Coltellacci), e soprattutto ha instaurato veri e propri sodalizi artistici con attori d’eccezione, a cominciare da Marcello Mastroianni, per cui ha realizzato i costumi di scena per le pellicole ‘Casanova 70’ e ‘La decima vittima’, entrambe del 1965, arrivando a ideare decine di capi per ‘Le due vite di Mattia Pascal’ (1985) di Monicelli. La seconda, invece, ha firmato gli abiti di Bruno Cortona/Vittorio Gassman, l’istrionico protagonista del capolavoro di Dino Risi ‘Il sorpasso’ (1962).
 
A ripercorrere i fasti dell’omonima sartoria sarà nel podcast dedicato (disponibile dalle 12.30 di sabato 3 aprile) Luca Litrico, nipote del fondatore Angelo e attuale guida creativa della maison, un excursus affidato a immagini d’epoca, bozzetti originali e altri materiali d’archivio, per documentare le vicende dell’atelier fondato all’inizio degli anni ‘50 e diventato noto come “sartoria della Dolce Vita”, la prima ad aver realizzato una sfilata di moda maschile. Una storia avvincente, che si interseca con quelle del costume e della settima arte, scandita dal rapporto privilegiato con alcuni dei principali artisti, attori e personalità del periodo, dal già citato Mastroianni a Richard Burton, passando per John F. Kennedy, John Huston, Rossano Brazzi, Giacomo Manzù, Renato Guttuso e tanti altri.



La parabola della sartoria Piattelli, dagli esordi al successo internazionale ritmato da traguardi come la collaborazione con Burberry o l’apertura di corner in celebri department store quali Barneys e Liberty, sarà invece raccontata dallo stesso fondatore Bruno Piattelli, nel podcast programmato per mercoledì 14 alle 12.30.
Protagonista del menswear, nella sua lunga carriera ha collaborato con autori del calibro di Visconti, Zeffirelli e De Sica, vestendo sullo schermo numerosi attori, da Orson Wells a Gian Maria Volonté, da Nino Manfredi a Pierre Clémenti. A testimoniare la rilevanza del suo lavoro, è la presenza di creazioni Piattelli nelle collezioni del Metropolitan Museum di New York e del Victoria & Albert londinese.

Il palinsesto digitale di ROMAISON prevede poi, per giovedì 8 alle 18.30, un talk in diretta Instagram sul binomio moda e costume, sul rapporto di reciproco scambio e ispirazione tra i due ambiti, che vedrà protagonista il designer Romeo Gigli, una figura apicale della moda nostrana tra gli anni ‘80 e ‘90, quando rivoluzionò il look delle “sue” donne cosmopolite, eteree e fuori dal tempo, unendo ai raffinati riferimenti all’arte o a mondi lontani l’abilità nella sperimentazione di forme e materiali.
Tra i suoi ultimi progetti, la realizzazione nel 2017 dei costumi per il ‘Don Giovanni’ di Mozart, con progetto e scenografie a cura di Barnaba Fornasetti, presentato in Triennale a Milano e a Firenze nel contesto di Pitti Uomo, per i quali ha collaborato con alcune sartorie capitoline.

La formula vincente per lo streetwear ideata da Ronnie Fieg di Kith

Se lo streetwear si presenta oggi come un fenomeno di portata mondiale (il volume d’affari nel solo settore delle sneakers, secondo Cowen Equity Research, era pari nel 2019 a 100 miliardi di dollari) è anche grazie a personaggi che, in tempi non sospetti, hanno intravisto la possibilità di renderlo il vettore di un cambiamento epocale che ridefinisse i parametri della moda tutta, dalla concezione di esclusività al rapporto con le nuove generazioni, passando per il buzz mediatico, le modalità di vendita, i social ecc.
Personaggi tra i quali va annoverato di sicuro Aaron “Ronnie” Fieg, fondatore e guida creativa di Kith, insegna retail prediletta dai consumatori branché e label di abbigliamento urban tra le più quotate, soprattutto negli Stati Uniti.
38enne, newyorchese in purezza – è cresciuto nel Queens coltivando un’autentica ossessione per quelle che all’epoca venivano bollate ancora, forse semplicisticamente, come scarpe da ginnastica – Fieg è riuscito, nell’arco di un decennio (il primo negozio è stato aperto nel 2011), a lanciare la sua creatura nell’Olimpo della fashion industry, inanellando decine di collaborazioni con svariati brand, dai titani dello sport (vedi alla voce Nike o Adidas) alle griffe del lusso, dalla bevanda pop per eccellenza (Coca-Cola) ai nomi storici del casualwear, per finire con una novità che risale a qualche giorno fa. Il designer ha infatti avviato, in tandem con Clarks Originals, l’etichetta 8th Street, che intende posizionarsi a metà tra la souplesse delle celeberrime polacchine scamosciate e il footwear performante dei giorni nostri, e ha anticipato su Instagram il primo frutto della co-lab, Lockhill, una ginnica mid-top in pelle e suède con suola spessa di prammatica, che debutterà nel corso del mese insieme a un altro modello, denominato Sandford.



Come vuole l’epos squisitamente americano del self-made man, l’odierno asso della moda street è partito dal basso, ad essere precisi dal lavoro presso David Z., il negozio di calzature di suo cugino, dove entra appena 13enne come magazziniere per passare in men che non si dica al reparto vendite e diventare, infine, head buyer. Il retailer, tra l’altro, è frequentato da quelli che allora sono esordienti di belle speranze, artisti come Jay-Z, Tupac e i Wu-Tang Clan, e lui si ritrova, a 25 anni, a gestirne gli acquisti, interfacciandosi con fornitori quali Converse o Asics.
Proprio quest’ultimo, nel 2007, gli offre una chance che si rivelerà il punto di svolta della sua carriera: Fieg ha la possibilità di mettere mano alle GEL-Lyte III, scarpe da running tra le più famose e apprezzate del marchio giapponese, e gli regala un boost cromatico, tingendo la tomaia di nuance vibranti, dal giallo fluo al viola, e mescolandole in tre differenti combinazioni, con distribuzione limitata a 252 paia per ciascuna (da cui l’appellativo “252 Pack”); il numero risibile non è certo casuale, il creativo è convinto infatti che la scarsità del prodotto rappresenti la via maestra per titillare le fantasie dei fanatici della categoria, o sneakerhead che dir si voglia. Le calzature, tra l’altro, finiscono sulla copertina del Wall Street Journal, e a quel punto il sold out è scontato, e rapidissimo.



Quattro anni dopo, decide che è arrivato il momento di uno step ulteriore e stringe un accordo con il multimarca di New York Atrium, inaugurando sul retro uno store chiamato Kith. Il nome deriva da un’abbreviazione dello scozzese “kith and kin”, un’espressione arcaica traducibile grossomodo con “amici e famiglia”, ed effettivamente rende la volontà del proprietario di offrire ai clienti uno spazio dove sentirsi accolti e serviti al meglio, stipato di scarpe – ça va sans dire – firmate tra gli altri Nike, Puma, Timberland e Red Wing.
Fieg prosegue inoltre ad apporre la propria firma su ristrettissime capsule collection, ammaliando caterve di modaioli, disposti a sorbire file chilometriche pur di accaparrarsi la limited edition di turno, come avviene per le New Balance 574 Made in Usa, una manciata di modelli nei toni del rosso o verde bosco, disponibili esclusivamente all’evento di apertura del negozio di SoHo.
Quando l’anno seguente diversi clienti chiedono lumi sui pantaloni che indossa, personalizzati con zip ed elastici sul fondo, il designer sente di poter alzare ancora l’asticella e vara una linea di apparel incardinata sugli essenziali dello streetwear (capi svelti come felpe, tee, cargo pants, bomber, denim jacket e via dicendo), in cui sintetizza i propri tic stilistici, dalla predilezione per le cromie pastellate alla semplificazione di tagli e volumi.

Sopra ogni cosa, elabora una strategia perfetta per fidelizzare la clientela: se per catturarne l’attenzione le novità sono cadenzate dai drop (“rilasci” di articoli in quantità esigue), Fieg capisce infatti – parecchio in anticipo rispetto al dilagare del concetto di shopping esperenziale divenuto il mantra contemporaneo del retail – che gli avventori vanno appunto intrattenuti a 360 gradi, stimolati con location che siano accattivanti e uniche nel proprio genere.
Il rinnovamento dei punti vendita di Kith, a partire dal flagship di Brooklyn, viene perciò affidato allo studio Snarkitecture di Alex Mustonen e Daniel Arsham (l’artista che tramuta gli oggetti comuni in “reliquie del futuro” cristallizzate, pupillo del fashion system con all’attivo partnership con Dior, Uniqlo e Adidas), il cui interior design prevede ambienti ariosi, largo ricorso alle cromature e distese di sneakers Air Jordan, impilate a centinaia su colonne e pareti oppure appese al soffitto. In ogni store, inoltre, uno spazio è riservato al Kith Treats, un bar che vende cereali e snack, buona parte dei quali, tanto per cambiare, in edizione limitata.



Poi ci sono le collaborazioni, ovvio, una quantità industriale di progetti susseguitisi senza soluzione di continuità: c’è l’imbarazzo della scelta, si spazia dalle Nike Air Force 1 (lanciate nel 2020 e venerate dai collezionisti alla stregua del Sacro Graal), alle capsule con Coca-Cola, dove il font ondulato della multinazionale di Atlanta o il profilo della bottiglietta vengono sparpagliati su abiti e accessori, dalla “Off-Palette” a quattro mani con l’onnipresente Virgil Abloh di Off-White (una serie di hoodie, magliette e boots in tonalità poudré) alla Kith for BMW, per cui Fieg brandizza addirittura una berlina M4, in aggiunta a tute, maglieria e giubbini intarsiati di simboli e colorazioni caratteristiche della casa automobilistica.
Per non parlare del terzetto d’eccezione svelato nella sfilata Autunno/Inverno 2018-19, tre distinte co-lab con Tommy Hilfiger, Greg Lauren e Versace, che si alternano sulla passerella in un tripudio di outfit dall’allure anni ‘90 (Hilfiger), abiti patchwork consunti quanto basta (Lauren) e barocchismi sotto forma di stampe opulente riprodotte su cappelli, shorts, camicie sblusate, down jacket e sfavillanti tracksuit in velluto (Versace).

A febbraio ha invece aperto i battenti l’ultimo avamposto della griffe, il primo in Europa, situato nel centralissimo VIII arrondissement di Parigi. Una boutique di oltre 1500 metri quadrati zeppa, al solito, di trainers e limited edition assortite, il cui debutto è stato salutato dall’ennesima sneaker co-firmata da Nike, una Air Force fornita di swoosh tricolore nelle sfumature del rosso, bianco e blu in omaggio alla Francia. Dopo essersi imposto come attore di peso del panorama street d’oltreoceano, il vulcanico fondatore di Kith è dunque determinato a replicare la formula a base di collaborazioni a gogò anche nel Vecchio Continente.

Romano Reggiani: artista poliedrico tra recitazione, musica, regia e scrittura

Ph: Davide Musto

Stylist: Stefania Sciortino

Ass. Ph. Emiliano Bossoletti

Grooming: Vincenzo Parisi

Location: Mediterraneo al Maxxi

Location manager: Sonia Rondini

Total look: Dolce&Gabbana

Romano Reggiani è un artista dalle tante sfaccettature: bolognese 27enne, si è formato al Centro Sperimentale di Cinematografia romano per recitare poi in titoli di grande successo –1993, Mental, Una grande famiglia e tanti altri.
Appassionato di musica, nel 2019 ha pubblicato il primo album Time is a Time; nel suo futuro, oltre a nuovi titoli per cinema e tv, potrebbe esserci anche un romanzo.



Raccontaci il tuo percorso finora.

Mi definirei un artista il cui lavoro principale è quello dell’attore: ho iniziato a 18 anni per entrare poi, nel 2013, al Centro Sperimentale, da lì ho partecipato a produzioni che mi hanno fatto crescere molto, in tutti i sensi.
Sono appassionato di musica e suono da anni con la mia band, portando avanti diversi altri progetti personali.

Nel tuo curriculum figurano autori come Pupi Avati o Bobby Moresco, com’è stato lavorare con registi di tale spessore? Ci sono esperienze, ricordi dai set che vorresti condividere?

Quelli con Pupi Avati sono stati ruoli piccoli ma preziosi per crescere, tra quelli più rilevanti cito il personaggio di Una grande famiglia perché mi ha fatto conoscere, a seguire la serie 1993 dove ho interpretato il giovane Stefano Accorsi/Leonardo Notte; un’esperienza bellissima, da cui è nata anche un’amicizia con il regista Giuseppe Gagliardi.
Poi sono arrivati Vite in fuga, altri serial Rai, tutte esperienze significative in quanto occasioni di crescita.



Hai diretto tre cortometraggi, un’esperienza che vorresti ripetere?

Dei miei corti il più maturo credo sia L’addormentato nella valle, sul tema della memoria, uscito nel centenario della Grande Guerra e girato nei territori veneti delle battaglie. Riguardo la possibilità di realizzarne altri certamente, sto lavorando alla mia opera prima di cui sarò regista e attore, è una storia d’amore, del resto le adoro e titoli come la Before Trilogy di Richard Linklater rappresentano, per me, il cinema con la C maiuscola.

In Mental interpreti un ragazzo borderline tossicodipendente. Penso sia molto attuale una serie che affronta il tema del disturbo psichiatrico giovanile, vuoi parlarcene?

È stato un lavoro intenso quanto a dispendio di energie per tutto il cast, dovevamo interpretare ruoli problematici, è facile scadere nei cliché con certi argomenti, quindi abbiamo lavorato sulle singole sensibilità, riversando il nostro vissuto in dinamiche che non ci erano familiari.
Mental pone l’accento sulla verità dei sentimenti, la conoscenza della malattia è avvenuta a priori, poi ce ne siamo dimenticati per concentrarci sulle vicende dei personaggi, un percorso introspettivo davvero interessante. Ha rappresentato una sfida inedita, è un serial forte, moderno nel vero senso del termine, nonostante tutto sta andando bene sul web e arriverà una seconda stagione.



Nel 2019 è uscito il tuo primo album Time is a Time, che rapporto hai con la musica in generale?

La musica è una priorità assoluta, un fuoco che mi dà energia. Time is a Time è un progetto folk rock prodotto da Undergound Music Studio, risultato di un lungo tour con la band.

Tutto ciò che ho fatto finora è stato come un percorso di preparazione al primo disco in italiano Zattere, dove ho trasferito tutta l’energia, il mio modo di scrivere e dire le cose, al momento comunque non sono sicuro di se e quando uscirà. Volevo realizzare un disco cantautorale dallo stile libero, ispirato al sound americano anni 60-70 e a De Gregori, che almeno in Italia per me è il migliore, scrive come nessun altro e credo che la musica sia appunto testo, un’arte in funzione delle parole, delle immagini, della poesia.

Che rapporto hai con la moda, come ti approcci agli outfit dei personaggi?

In Mental ad esempio indossavo canottiere e pantaloncini orribili, abiti che penso fossero azzeccati per Michele; è stimolante riflettere su come l’abito faccia il personaggio, Giannini nelle lezioni al Centro spiegava, scherzando, come l’attore in fondo debba fare poco, “solo” sentire le cose, al resto pensano fotografia, regia e costumi. Certamente mi piacerebbe partecipare a un progetto in costume, il mio personaggio in 1993 viveva negli anni 70 e personalmente attingo molto da quello stile lì, Levi’s, jeans, pelle, scarpe All Star, Kickers, Dr. Martens…



Quali progetti hai per il futuro?

Le cose cui tengo di più, ad ora, sono la mia opera prima e un romanzo che spero di pubblicare presto.

Grace Wales Bonner, giovane talento della moda brit che alterna sfilate, mostre e co-lab d’eccezione

È disponibile dal 26 marzo la collezione Adidas Originals by Wales Bonner, una selezione di abiti e accessori – in cui spiccano due sneakers storiche del brand tedesco, Samba e Nizza – di ovvia matrice sportiva, infusi però di note tailoring e vibrazioni cromatiche che rimandano alla scena dance giamaicana degli anni ‘80, tra volumi distesi, fit accoglienti e toni energici di giallo, rosso, verde smeraldo o viola. Ad unire sportswear e spigliatezza da discoteca antillana ha provveduto la designer Grace Wales Bonner, alla seconda capsule collection con il marchio del trifoglio dopo quella per l’Autunno/Inverno 2020.


Central Saint Martins BA Fashion Show 2014 in the West Handyside Canopy at King’s Cross

Questa 29enne londinese di ascendenze caraibiche (suo padre è un immigrato della cosiddetta generazione “windrush”) in una manciata di anni – sette per la precisione – è riuscita a emergere come una delle newcomer più talentuose e ponderatedella moda brit, convincendo uno stuolo di critici, buyer e insider del settore grazie a un singolare métissage di raffinatezza sartoriale, suggestioni artistiche e ispirazioni colte; le collezioni dell’omonima label includono infatti una molteplicità di riferimenti alla black culture, dal lavoro di figure seminali dell’arte afroamericana quali Jean-Michel Basquiat, Jacob Lawrence e Kerry James Marshall alle gesta dell’ultimo imperatore etiope Hailé Selassié, dal fervore che negli anni ‘20 caratterizzò il Rinascimento di Harlem alle riflessioni di scrittori neri come James Baldwin, Ben Okri o Ishmael Reed.

Una personalità sfaccettata, praticamente impossibile da incasellare in una categoria specifica, e in effetti lei stessa, all’inizio della carriera, ha dichiarato a Vogue di vedersi come un direttore creativo che prova a tenere insieme interessi variegati, dalla moda alla letteratura, alla musica. Il terreno d’elezione è il menswear perché, come rivelato in un’altra intervista, è convinta «di poterlo utilizzare come un contenitore in cui esplorare il mio heritage», colmo di possibilità da esplorare, e motiva il pallino della sartoria spiegando che «si può essere dirompenti anche restando all’interno di una cornice contraddistinta da regole e limiti».


WALES BONNER Fall Winter 2018 London Menswear Fashion Week Copyright Catwalking.com ‘One Time Only’ Publication Editorial Use Only

Nel 2009 Wales Bonner si iscrive quasi per capriccio alla Central Saint Martins, riverita scuola britannica che annovera tra i suoi ex allievi nomi dello spessore di Alexander McQueen, John Galliano, Kim Jones e Riccardo Tisci. Ne uscirà nel 2014 con una graduation collection dal titolo paradigmatico di ‘Afrique’, dove fantastica sul clash tra l’eleganza rigorosa dei tailleur alla Chanel e l’ornamentalismo di numerose tradizioni africane, che le vale il premio L’Oréal Professionnel Young Talent Award.
Nella successiva stagione A/I 2015 viene selezionata dalla piattaforma Fashion East e può così presentare, durante la settimana della moda di Londra, la collezione ‘Ebonics’, in cui fonde look dai tratti retrò (vita altissima, linee svasate, velluto dai riflessi cangianti, denim impunturato eccetera) e orpelli generalmente appannaggio del womenswear, tra gioielli vistosi, texture incrostate di Swarovski e bordure in conchiglie e cristalli. Una visione trasognata dell’abbigliamento maschile, che le consente tra l’altro di esporre le sue creazioni nella rassegna ‘Fashion in Motion’ del Victoria & Albert Museum.
A coronare la traiettoria ascendente arriva, a novembre, il riconoscimento come miglior designer emergente per l’uomo ai British Fashion Awards 2015.

Cominciano a delinearsi quei leitmotiv che finiranno con l’identificare il ready-to-wear della griffe: la sartorialità old school, edulcorata da forme suadenti e linee allungate; una certa leziosità, esemplificata da mise ingioiellate di tutto punto, tra brillanti, perline, charms, spille e fronzoli di vario genere; un quid intellettuale conferito dalle citazioni letterarie e artistiche, e frammisto a un senso di etereo romanticismo.
Il sincretismo estetico ritma quindi l’intera produzione di Wales Bonner, in cui si passa dalla collezione ‘Des Homme et Des Deux’ A/I 2018, a tema marinai creoli (concretizzato in proporzioni che vanno dilatandosi dall’alto al basso della silhouette, con capispalla smilzi e pantaloni fluenti, tessuti traboccanti di colore grazie alle stampe pittoriche, fodere con quadretti gingham) agli stilemi dell’abbigliamento cubano di metà Novecento in ‘Mambo’ (P/E 2020), una successione di sahariane, bluse guayabera, ampi colletti a punta, canotte a rete e superfici soffuse di fiori acquerellati, pois e minuscole ruches; per finire con la trilogia costituita dagli ultimi tre défilé, il cui filo conduttore è l’analisi dei possibili collegamenti culturali e stilistici tra Regno Unito e Caraibi, che conduce a un pot-pourri di categorie e codici vestimentari, per cui l’aplomb di trench, giacche in tweed, pants con la piega e gilet in lana è ibridato con copricapo rasta all’uncinetto, maxi cappelli e tute in nuance sature (‘Lovers Rock’, A/I 2020), mentre la compostezza di blazer avvitati, sciarpe a righe, camicie inamidate e altri must del preppy style da college d’élite viene scombussolata dall’innesto di pattern esuberanti, voluminosi risvolti in shearling, tracksuit, disegnature paisley, orli esageratamente lunghi che occhieggiano qua e là (‘Black Sunlight’, A/I 2021).



La stilista, nel frattempo, continua a riscuotere consensi tra gli addetti ai lavori, inclusi mostri sacri come Karl Lagerfeld, Phoebe Philo e Marc Jacobs, membri della giuria che, nel 2016, le assegna il LVMH Prize for Young Fashion Designers, e nel giro di tre anni si aggiudica infine il BFC/Vogue Designer Fashion Fund, assicurandosi 200mila sterline e un supporto annuale personalizzato.
Tra i suoi estimatori vi sono poi colleghi come Stephen Jonesdominus della modisteria più eccentrica e preziosa – e Manolo Blahnik, santo protettore delle fashionistas devote allo stiletto sin dai fasti di Carrie Bradshaw in ‘Sex and the City’. Quest’ultimo sigla le calzature del marchio in diverse occasioni, alternando mules guarnite di piume, stivaletti in pellami dalle cromie e texture differenti, sandali cut-out e altre creazioni flamboyant a modelli più tradizionali come le brogue in pelle.
Anche Maria Grazia Chiuri, creative director della donna chez Dior, fa squadra con Wales Bonner per la sfilata Cruise 2020 e le affida il compito di rivisitare la Bar Jacket, icona sempiterna della maison cui viene donato un tocco folk attraverso le applicazioni in rafia multicolor ricamata.
È un capitolo a sé la liason con Adidas, avviata nel 2020 con la collezione ‘Lovers Rock’, in cui fanno capolino dolcevita, magliette da calcio, top e pantaloni con le caratteristiche three stripes sferruzzate e i profili a costine “maggiorati”, trovate d’antan analoghe a quelle delle trainers Samba e SL72, che esibiscono strisce crochet, linguette over e tonalità dalla vibe vintage (amaranto, rosa antico, crema, verdone e via discorrendo). La collaborazione prosegue quindi con la suddetta limited edition per la primavera 2021, appena arrivata negli store, e nel corso dell’anno si arricchirà di ulteriori novità, anticipate dallo show A/I 2021 della creativa anglogiamaicana.



Tra una collezione e l’altra, la designer trova anche il modo di partecipare a progetti nei quali trasferire la sua vena artsy, come la mostra ‘A Time for New Dreams’, allestita nel gennaio 2019 negli spazi della Serpentine Gallery londinese – un’indagine sulle declinazioni della spiritualità e del simbolismo di origine africana, oppure la serata-evento del ‘Devotional Sound’ ospitata nello stesso anno dalla St. Peter’s Church di New York, con la performance di nientemeno che Solange Knowles.

A nemmeno trent’anni, il curriculum di Wales Bonner è insomma già ricco di riconoscimenti e nomi di assoluto rilievo, e appare pertanto del tutto irrealistico il timore, confessato al Guardian qualche tempo fa, di risultare una «sciocca» in quanto «fashion designer che si dedica all’arte»: il binomio, nel suo caso, funziona eccome.

Faces: Cosimo Longo

Ph: Davide Musto

Ass. ph: Emiliano Bossoletti

Total look: Manuel Ritz

Cosimo Longo è un giovane attore pugliese. Ha debuttato sullo schermo nel 2020 con Mental, serie che affronta il tema dei disturbi psichici tra gli adolescenti, accolto con favore da critica e pubblico.
Cosimo intende ora continuare a studiare e migliorarsi in vista dei prossimi set, e spera di potersi mettere alla prova con ruoli musicali oppure “estremi”, come quelli legati al mondo delle droghe.



Raccontaci del tuo percorso, chi è e cosa fa Cosimo Longo?
«Vengo da San Vito dei Normanni, vicino Brindisi. Dopo il liceo ho iniziato un percorso di recitazione frequentando la Roma Film Academy, poi sono stato preso dalla mia agenzia, la LinkArt, e ho sostenuto il provino per Mental; sono stato fortunato, è andato bene».

Come ti sei avvicinato al cinema?
«Ho sempre desiderato fare l’attore, già da bambino mi affascinavano le persone che interpretavano personaggi disparati vivendo tante vite diverse. Una passione che, crescendo, si era affievolita, l’avevo messa da parte finché, in quinto superiore, mi sono trovato a decidere sul mio futuro e ho avuto una specie di illuminazione».



Sei nel cast del serial Mental, incentrato sulle malattie mentali dei giovanissimi. Un argomento che, sotto certi aspetti, può ricordare Euphoria, credo che faccia presa sul pubblico anche per il momento storico che viviamo. Ti va di parlarci di quest’esperienza?
«Hai nominato Euphoria e in effetti noto anch’io delle somiglianze, la differenza secondo me è nella chiave di lettura, quella scelta da Mental è un po’ più leggera, simpatica se vogliamo, per cercare di stemperare la pesantezza del tema.
È stato il mio primo progetto professionale, un debutto decisamente positivo sia per il lavoro sul set, sia per i riscontri che stiamo avendo; è tutto strapositivo, ancora non ci credo, mi arivano messaggi di ragazzi che si complimentano, che ci ringraziano per il modo in cui abbiamo reso determinati aspetti».

Parliamo del tuo personaggio, Daniel, ragazzo logorroico e bipolare, spesso preda della paranoia.

«Daniel è un personaggio davvero particolare, forte, energico, simpatico, l’unico suo problema è l’estrema suscettibilità: lo vediamo passare da fasi di grande eccitazione e felicità a momenti in cui non riesce a muoversi né parlare. Credo che la parte che più apprezzo di lui – e il motivo per cui gli sono affezionato – risieda nel fatto che ciò che vediamo di Daniel (parlare velocemente, rompere le scatole ecc) è come una maschera per ciò che prova effettivamente; è assai intelligente, quindi sa che certe cose, come l’essere spiato, il tentativo di incastrarlo e così via, non sono vere, ma pensarla così gli fa comunque meno male dell’affrontare la realtà».



Ci sono registi con cui ti piacerebbe lavorare? Hai preferenze a livello di ruoli o generi?
«Un regista che apprezzo molto è Genovese, mi piacciono i personaggi dei suoi film, sarebbe interessante lavorare su uno di loro.
Per quanto riguarda ruoli e generi sinceramente non faccio distinzioni, mi piacerebbe in particolare fare qualcosa nell’ambito della musica, oppure interpretare personaggi legati al mondo delle droghe, le vedo come parti intense, sfidanti; ogni ruolo lo è a modo suo, e presenta mille sfaccettature, ma penso che in questi ci sia qualcosa in più».

Che rapporto hai con i social?
«Li uso, anche troppo per la mia opinione. Ho solo Instagram, vorrei utilizzarlo di più per il lavoro, rendendolo una pagina che mi racconti a livello professionale».



Che rapporto hai con la moda? Come ti approcci agli outfit sul set e cosa pensi della relazione tra ruolo e costumi di scena?
«Penso quest’ultimo elemento sia davvero rilevante, i vestiti giusti mi aiutano a creare l’atmosfera giusta (mi riferisco ad ambientazione, compagnia, abbigliamento ecc), a credere in ciò che dovrò fare. Trovo che gli abiti di scena fossero adatti all’unico personaggio interpretato finora, mi sono trovato bene da quel punto di vista, anche perché Daniel indossava capi oversize, simili a quelli che uso anch’io.

Per quel che riguarda il rapporto con la moda, la seguo nel senso che mi informo, osservo, però sto ancora cercando di definire un mio stile, prendendo spunto da tanti input in ambiti diversi, dal cinema alla musica. Secondo me l’abbigliamento è il miglior biglietto da visita di una persona, attraverso il modo in cui vesti rappresenti ciò che sei, perciò devi sempre esserne fiero. Non sono granché d’accordo sul cambiare spesso look per adeguarsi al contesto, lo stile è personale e deve rispecchiarti ovunque».



Quali capi non potrebbero mancare nel tuo guardaroba?
«Senz’altro le scarpe giuste: ne ho tante, soprattutto sneakers di Jordan, il mio brand preferito».

Desideri e progetti per il futuro?
«Ho in ballo un progetto che inizierà a breve, poi ho intenzione di continuare a studiare, sono consapevole di dover lavorare ancora molto in questo senso. Per il resto, aspetto che mi offrano una parte musicale o che abbia a che vedere con le droghe, alla Breaking Bad insomma (ride, ndr)».

Le interpretazioni d’autore della field jacket, capospalla army dal fascino intramontabile

La denominazione ufficiale, M-1965, ne rivela il côté militare (del resto, diverse colonne portanti dell’outerwear maschile, dal trench in giù, provengono dall’abbigliamento delle forze armate), ma la miriade di interpretazioni d’autore nelle collezioni Primavera/Estate 2021 suggellano la duttilità dell’indumento. Parliamo della field jacket, che nel corso degli anni è riuscita ad affrancarsi dall’immaginario guerresco degli inizi per intrufolarsi nell’armadio di un pubblico composito e urbano, irretito dalla praticità e solidità del capospalla, esplicitate appieno negli imprescindibili tasconi; peculiarità apprezzatissime ancora oggi, tanto più che continua ad aumentare la richiesta di abiti iper performanti, seppure sfoggiati nel contesto cittadino, tutt’altro che impervio insomma.
Prodotto originariamente da Alpha Industries (marchio nato nel 1959 come fornitore ufficiale del Dipartimento della Difesa americano, e conosciuto soprattutto per aver realizzato la MA-1 Jacket, ovvero il primo bomber in assoluto), il modello venne lanciato dallo Us Army alla metà degli anni ‘60 (da qui il numero nella sigla sopracitata) e dato in dotazione alle truppe di stanza in Vietnam.


Yves Saint Laurent, French designer with two fashion models, Betty Catroux (left) and Loulou de la Falaise, outside his ‘Rive Gauche’ shop. (Photo by John Minihan/Getty Images)

Le fattezze della giacca erano dettate da ovvie esigenze pratiche oltreché dal clima tropicale della regione, in cui si alternavano caldo torrido e piogge torrenziali: si spiegano così la silhouette semplice, lunga poco oltre i fianchi; le quattro tasche applicate sulla parte frontale, indispensabili per riporre le munizioni; il tessuto, un blend compatto di cotone e nylon, poco ingombrante ma resistente ad acqua e vento; la chiusura attraverso zip e bottoni a pressione; il cappuccio, arrotolabile nel colletto; infine la particolare sfumatura di verdone, ribattezzata “olive green 107”.
Tutte peculiarità che, una volta terminato il conflitto nel Sudest asiatico, risultarono appetibili anche per i civili, in particolare – ironia della sorte – per quelli che più osteggiavano le “imprese” belliche degli Stati Uniti.
Le field jacket finirono perciò con l’essere indossate prevalentemente da pacifisti dei movimenti di protesta, beatnik e giovani esponenti della controcultura, incluse alcune eminenti figure della scena culturale e artistica del periodo, da William Burroughs a Jack Nicholson, da Andy Warhol a monsieur Yves Saint Laurent (che, a dir la verità, prediligeva una versione più sciancrata e rifinita dalla cintura stretta in vita, antesignana di quella sahariana che avrebbe contribuito alla fama imperitura del couturier).

A cementarne il fascino arrivò poi il cinema, al solito decisivo per le fortune di determinati capi: non si può non partire da Travis Bickle, l’allucinato protagonista di ‘Taxi Driver’ (un Robert De Niro in stato di grazia), per il quale l’inseparabile giaccone verde, un cimelio dell’esperienza nelle trincee vietnamite, era un simbolo di appartenenza, utile a prendere le distanze da una società percepita come ipocrita e degradata.

Ugualmente magnetici gli indossatori d’eccezione apparsi in altri film di culto, dal Frank Serpico/Al Pacino di ‘Serpico’ al Larry Sportello/Joaquin Phoenix di ‘Vizio di forma’, dal Rambo di Sylvester Stallone, veterano cinematografico per antonomasia, al cyborg interpretato da Arnold Schwarzenegger nel primo ‘Terminator’.



Il piglio rude e allo stesso tempo charmant di questo capospalla riscuote tuttora parecchio consenso, e molte griffe lo ripropongono modificandone, più o meno radicalmente, i connotati. Basti considerare, da questo punto di vista, il modello extra lusso con cui Kim Jones chiude la carrellata di mise della P/E 2021 di Dior Men, accomunate dal tentativo di trasferire sulle texture la matericità delle pennellate dense di Amoako Boafo, pittore ghanese “guest star” della collezione: un giubbotto bombé scuro, con una metà in cachemire e l’altra in lucente coccodrillo.

Da A-Cold-Wall*, viceversa, Samuel Ross non si discosta dal workwear tagliente, metropolitano con cui si è fatto conoscere, presentando field jacket dalle linee grafiche in nuance piene di giallo o rosso.
Si distingue per l’aspetto décontracté la versione di Tod’s, dalla tonalità aranciata e con coulisse in cuoio intrecciato (un omaggio alla maestria artigianale che è parte integrante dell’identità del marchio).



Etro, condensando nel capo il mood etno-chic della passerella, firma delle giacche color khaki istoriate con eterei ramages (intervallati da raffigurazioni di animali) e altre effetto dégradé, puntinate da grafismi geometrici.

Sembrano usciti invece da uno degli innumerevoli, vibranti scatti con cui Slim Aarons immortalò le vacanze del jet set negli anni ‘50 e ‘60 i flessuosi capispalla di Casablanca, in filati soft, dalle superfici immacolate oppure movimentate da righe marinière, con tanto di perle a sostituire i bottoni canonici.
Le giacche del lookbook di Maison Mihara Yasuhiro, per contro, hanno un’aria volutamente used, enfatizzata da scoloriture ad hoc, impunture a vista, tessuti stropicciati ed etichette con le specifiche del capo spostate all’esterno.

Di segno minimalista infine le riletture operate da Brioni (tra sfumature neutre, materiali deluxe e volumi ammorbiditi), Kenzo (un giubbotto azzurro polvere munito di pouch staccabile sul fianco) e Officine Générale.

Un corpus di esemplari griffati dal quale non si può prescindere nel caso si voglia puntare sulla field jacket come nuovo acquisto della stagione, assicurandosi un giubbotto adatto alle temperature primaverili e che rivela notevole versatilità, prestandosi a ensemble di stampo casual come ai completi spezzati o agli outfit (moderatamente) formali.
Le giacche succitate sono disponibili tra l’altro anche sugli e-shop dei rispettivi brand, oltre che su piattaforme digitali à la Lyst: risultano quindi a portata di clic il modello in lino e seta dai motivi chiné di Etro, quello candido di Casablanca e il giaccone con cordini in pelle di Tod’s; e ancora, la proposta di Officine Générale in 100% cotone, completamente sfoderata, e quella di Brioni.
Altri nomi da prendere in considerazione sono poi Burberry (che punta sull’essenzialità del gabardine total black, su cui risaltano le tasche a contrasto blu) e Palm Angels, che stempera la severità marziale del capo con pannelli check e una scritta sulla schiena, circondata da print floreali.



Si potrebbero aggiungere all’elenco, infine, i modelli di label quali Stone Island, C.P. Company e Woolrich: il primo è un concentrato di ricerca ed esuberanza cromatica (come da prassi per l’azienda di Carlo Rivetti), in raso di nylon dall’aspetto traslucido, quasi liquido, declinato in diverse tonalità, dal verde de rigueur al turchese; il secondo si attiene ai precetti dell’utilitywear, ricorrendo a un trattamento che irrobustisce e impermeabilizza il tessuto, donandogli inoltre una colorazione che ne esalta i particolari; il terzo ricalca fedelmente la foggia dell’originale M-65.

Tra specialisti dei capispalla e designer votati allo sperimentalismo, costruzioni innovative e materiali tradizionali, la giacca army sembra destinata dunque a restare stabilmente nei desiderata maschili.

Lo streetwear eclettico e ricercato di Exclusive Paris

La storia di Exclusive Paris inizia nel 2018 a Roma e si intreccia con quella del fondatore Patrizio Fabbri, designer e imprenditore classe 1988 che, forte dell’esperienza maturata in anni di lavoro nel mondo retail, decide di tradurre in realtà il sogno di una linea di abbigliamento streetwear capace di dettare nuovi standard nel settore.
Facendo leva sul mix ben calibrato di social media e indossatori d’eccezione, il brand conquista subito l’attenzione di una clientela giovane e metropolitana.
Il progetto Exclusive Paris viene seguito scrupolosamente da Patrizio, che si occupa in prima persona di ogni aspetto (come precisa lui stesso, «Sviluppo e supervisiono tutto io, dalla scelta dei tessuti alle grafiche, dalla vestibilità dei capi ai testimonial»).

Appassionato da sempre di moda, al punto da essersi distinto già alle elementari come trendsetter della classe, il creativo è un perfetto esempio di self made man italiano, titolare di un marchio lanciato dopo un lungo percorso nel fashion system.



RITRATTO DI PATRIZIO FABBRI, FOUNDER DI PARIS EXCLUSIVE


Inizialmente la griffe si fa largo grazie alle tute in ciniglia, disponibili in un’ampia gamma di nuance, ottenendo riscontri immediati dal pubblico con gli articoli che finiscono puntualmente sold-out, tanto che intorno alla boutique romana di via Angelo Brunetti (vicino piazza del Popolo), cominciano presto a gravitare innumerevoli clienti, giovanissimi e meno, disposti anche ad attendere in fila il proprio turno pur di accaparrarsene una.

I due cardini di Exclusive Paris sono, da un lato, la costante ricerca stilistica, dall’altro la cura certosina di ogni singolo dettaglio; Fabbri riversa la sua cifra street in capi dall’appeal sofisticato, realizzati in tessuti preziosi e contraddistinti da uno stile sui generis, cosmopolita, apprezzato – ed esibito – da diversi nomi di punta del panorama trap, hip-hop e musicale italiano, tutti diventati fan del brand in modo spontaneo, attratti dall’originalità delle proposte.
Il successo è certificato dai numeri sui social (lo stesso Fabbri conta, sul suo profilo Instagram, oltre 46mila follower, equivalenti ad altrettanti clienti fedeli di Exclusive Paris), e premia l’attività di un’azienda per la quale la sperimentazione in tema di abiti street fa rima con la qualità degli stessi, prodotti non a caso in Italia, impiegando materiali di prim’ordine.



Lo spirito di Exclusive Paris è riassunto al meglio nel claim ‘Be Exclusive’, che viene declinato in capi in continua evoluzione, originali e dall’allure internazionale pur senza apparire mai eccessivi, espressione di uno stile unico nel proprio genere, dinamico e trasversale quanto a gusti ed età.



Se la tracksuit, arricchita dalla banda logata e disponibile in numerose tonalità, rimane un elemento centrale nell’offerta del marchio, quest’ultima è stata ampliata nel tempo ad altre categorie menswear, womenswear e kids: si va dai body ai giubbini, dalle felpe e pantaloni coordinati alle t-shirt con scritte in colori a contrasto, dagli shorts alle tute ornate da fantasie animalier o inserti fluo. L’ultima collezione Spring/Summer 2021, in particolare, vede in primo piano la vivacità cromatica delle stampe tie dye, che si stagliano su maglie e pantaloncini abbinati.

Per quanto riguarda i progetti futuri, Fabbri intende portare ovunque Exclusive Paris, tenendo sempre fede al principio secondo cui «avere un proprio marchio equivale alla ricerca ossessiva di esclusività e novità». La sua parabola, basata sull’intraprendenza e il saper fare italiano e rafforzata dalla pervasività degli ambiti prediletti della griffe (musica e social network), sembra essere solo all’inizio.

Le proposte maschili nelle collezioni della Paris Fashion Week F/W 2021-2022

La pandemia di Covid-19 ha impresso una decisa accelerazione a dinamiche già in atto nella fashion industry, portando un numero crescente di brand a riconsiderare tempi e modalità di presentazione delle novità di stagione e adottare il format co-ed, che prevede l’accorpamento degli outfit uomo e donna nella medesima passerella, adeguandosi tra l’altro a una visione della moda che eludesempre di più schematismi e divisioni rigide, tenendo conto principalmente – se non esclusivamente – della creatività.
Si è mossa in questa direzione anche la Paris Fashion Week Fall/Winter 2021-2022 appena conclusasi, in cui diversi marchi hanno affiancato al womenswear i look maschili.

Un’edizione della kermesse che ha visto le griffe nuovamente alle prese con streaming, sfilate a porte chiuse e mini film, per una messe di collezioni il cui filo conduttore sembrava risiedere ancora una volta nella generale sensazione di comodità e rilassatezza degli abiti (retaggio dei lunghi periodi trascorsi tra le mura domestiche ormai da un anno), sebbene non siano mancati stilisti che hanno dato maggior risalto all’estro delle proposte, fiduciosi riguardo un futuro prossimo finalmente libero da lockdown, mascherine, distanziamenti et similia.

Marine Serre

Il titolo programmatico del défilé F/W 2021 di Marine Serre (wunderkind della moda francese che fa del concetto di ecofuturismo una bandiera stilistica e, soprattutto, etica) è “Core”, un termine che sottolinea la volontà di andare in profondità, all’essenza del brand, restituita qui dalle mise ibride e dalle lavorazioni che ne hanno decretato finora il successo.

Sfilano dunque creazioni patchwork ottenute dall’unione di lembi in tinte e fantasie eterogenee (loghi di storici gruppi rock, fiori, pattern geometrici ecc.), pile istoriato da motivi arabescati, completi in denim o pelle interamente ricoperti da mezzelune all’ingiù (il simbolo della griffe), giacconi assemblati con frammenti di pelle dalle cromie terrose, vecchie sciarpe sovrapposte a formare kilt o maglie.
Dai suit fanno capolino body stampati effetto tattoo, top in lino ricamato e lupetti attillati, mentre i pezzi d’impronta sportiva o workwear (parka, giubbini zippati, giacche multipocket e cargo pants) scelgono tessuti moiré color lilla, unica alternativa al classico nero.
Un guardaroba dall’animo green, frutto per il 50% dei casi dell’upcycling di articoli delle collezioni precedenti, per l’altro 50% di tessuti realizzati con fibre riciclate.



Enfants Riches Déprimés

Deciso a consolidare l’identità del griffe (una crasi tra l’estetica delabré del punk e il lusso garantito da materiali e finiture di prim’ordine), il fondatore e designer di Enfants Riches Déprimés Henri Alexander Levy affida a un fashion film (intitolato ‘Xeropittura’ e introdotto, non a caso, dalle parole della paladina del grunge anni ‘90 Courtney Love) il racconto per immagini dell’ultima collezione, nella quale insiste su mise “ruvide” nell’aspetto ma dalla fattura ineccepibile.
I protagonisti del video si muovono veloci in una landa innevata, lui sfodera maglioni oversize, trench di pelle beige dalla linea ad A, abbondanti fur coat, caban in shearling e bomber disseminati di scritte e grafismi arzigogolati, tutti indossati su pantaloni rastremati sul fondo accompagnati, per quanto riguarda le calzature, da anfibi massicci o stivaletti texani.
Lo spirito anarcoide dello show trova conferma nella disinvoltura degli abbinamenti, dalle collanine con grossi ciondoli tintinnanti portate sul doppiopetto al peluche in tessuto en pendant da fissare alla giacca check, fino al camicione in flanella quadrettata con print che citano indifferentemente l’architetto modernista Adolf Loos e i testi dei Nine Inch Nails.



Isabel Marant

In linea con l’attitudine nonchalant e al contempo raffinata che contraddistingue da sempre il marchio, Isabel Marant per la prossima stagione Autunno/Inverno immagina un incontro – data la vivacità del risultato, sarebbe più appropriato parlare di scontro – tra lo spirito folk e libertario di icone del rock come Jimi Hendrix o Janis Joplin e la sregolatezza vestimentaria della sottocultura gabber.
Nel menswear, tutto ciò si traduce in outfit che, pur sprigionando un appeal dégagé, appaiono articolati: il peacoat perde i revers e viene accostato a pants sartoriali dal piglio rilassato, una combinazione replicata anche per i montoni abbreviati, i blouson in suède impalpabile, i giubbotti in lana a coste ton sur ton con il pullover sottostante e le giacche tuxedo dal collo a scialle.

Se sulla maglieria risaltano gli inserti nelle nuance pop del verde smeraldo, rosa e cremisi, un ulteriore tocco flashy è assicurato dalle camicie e dai pantaloni in vinile, leggero e croccante, declinato in blu China o rosso. Ai piedi, infine, boots sfinati in pelle spazzolata.



Givenchy

Alla sua seconda prova come direttore creativo di Givenchy, Matthew M. Williams proietta definitivamente gli stilemi abrasivi e industrial che gli hanno permesso di scalare le vette del fashion system nel mondo patinato della maison parigina.

Nel filmato girato per la F/W 2021 modelli e modelle irrompono nell’arena ricoperta d’acqua adibita a passerella; la soundtrack è martellante, il ritmo sincopato, le mise si adeguano esibendo linee scattanti, scolpite da pantaloni affusolati e giacche fitted dalle spalle marcate, cui si contrappongono capispalla volitivi per mole e carattere dei dettagli (zip vistose, chiusure in metallo, colli montanti, guarnizioni in faux faur e così via); il clash visivo viene alimentato inoltre dall’accostamento degli opposti: silhouette sottili e muffole XXL in pelo, joggers seconda pelle e passamontagna in maglia spessa, denim scorticato e lana grain de poudre, scarpe gargantuesche e piumini scorciati alla vita.

A ribadire il tono fosco della collezione provvedono la severa palette cromatica, con il dominio di nero e marrone scuro spezzato solo nel finale dalle incursioni di avorio, cammello e lavanda, e accessori quali catene a maglie larghe, borse a tracolla spigolose e zaini decorati da minuterie luccicanti.



Ann Demeulemeester

Da Ann Demeulemeester l’era del neoproprietario Claudio Antonioli (titolare delle omonime boutique dislocate tra Italia, Svizzera e Spagna e co-founder del conglomerato di marchi street New Guards Group, poi acquisito da Farfetch, ndr) viene inaugurata da una collezione celebrativa del lavoro della fondatrice, membro di spicco dei leggendari Antwerp Six.
Il focus è quindi sul tailoring elegantemente decadente, venato di suggestioni punk e romantiche, che prevede le due sole possibilità del bianco o nero, stesso binomio dello short movie diretto dal fotografo Willy Vanderperre (ad eccezione di sporadici frame a colori) e del relativo lookbook, d’altra parte. Gli scatti ritraggono un gruppo di giovani bohémien vestiti con gilet, completi, t-shirt e camicie diafane dalle forme fluide, distese, spesso attraversate sul torso da fasce orizzontali, con esili nastri di tessuto che pendono da cinture e baveri, oppure cingono delicatamente le maniche.
I materiali – jersey, popeline, seta, mescole di cotone e lino – assecondano il sentore di poetica fragilità dei look, gli accessori sono limitati al minimo indispensabile, ovvero stringate dalla punta arrotondata e cappelli in feltro a tesa larga.



Il menswear secondo Martine Rose, tra subculture, normcore e collaborazioni azzeccate

Se negli ultimi anni il cosiddetto normcore, con le annesse derivazioni (dadcore, gorpcore, geek chic eccetera) si è imposto come fenomeno di portata globale, glorificando forme (volutamente) sgraziate, tagli grossier, slogan improbabili e altre caratteristiche in genere considerate antinomiche all’universo modaiolo, trovando in Demna Gvasalia – ex direttore creativo di Vetements, ora alla guida di Balenciaga – il novello arbiter elegantiarum della categoria, il merito va attribuito anche a figure che, muovendosi magari dietro le quinte o non raggiungendo la visibilità del designer georgiano, sono risultate comunque decisive per le sorti di questo trionfo del “brutto” come apogeo della coolness.
Tra di loro vi è senz’altro Martine Rose, un nome decisamente in ascesa della moda made in Uk, già consulente proprio di Gvasalia per l’aurea maison parigina, che vanta nel proprio curriculum collaborazioni di alto profilo con brand quali Nike, Mykita e Napapijri; una conferma della sua rilevanza, considerato come le co-lab siano ormai la cartina tornasole dello status di una griffe.

Anglo-giamaicana, classe 1980, la stilista è cresciuta in una cittadina a sud di Londra in una famiglia allargata, tra il cugino devoto allo streetwear e una sorella fashionista amante di Jean Paul Gaultier, Katharine Hamnett e Pam Hogg, entrando in contatto con i più disparati generi musicali (reggae, dance, hip-hop ecc.) e avvicinandosi presto alla cultura rave.



Lauretasi in fashion design alla Middlesex University, nel 2003 ha fondato con l’amica Tamara Rothstein la label unisex LMNOP (chiusa tre anni dopo nonostante i buoni riscontri commerciali), seguita nel 2007 dal marchio eponimo di menswear, una scelta inconsueta solo all’apparenza perché, come ha precisato lei stessa, reputa l’abbigliamento maschile un fertile terreno di sperimentazione, con più regole ma altrettanti «modi per infrangerle».

Nonostante Rose si limitasse inizialmente alla camiceria, dieci modelli dalle cromie accese, presentati al Blacks Club di Soho, sono stati sufficienti per attirare l’attenzione della boutique multimarca Oki-Ni e di Lulu Kennedy di Fashion East, incubatore di talenti decisivo per le sorti degli (allora) astri nascenti della creatività brit, da Jonathan Anderson a Craig Green.
Ha potuto così mostrare nell’ambito della London Fashion Week le proposte per le stagioni S/S 2011, F/W 2011 e S/S 2012, in cui erano già presenti in nuce quelli che sarebbero poi diventati i pilastri del suo lavoro, dai codici estetici della working class inglese ai look dei clubber, al bondage.
La visibilità assicurata dalla settimana della moda londinese ha permesso inoltre alla designer di assicurarsi, nel 2014, il premio Newgen Men del British Fashion Council.

Risalgono a quel periodo i primi tandem con aziende di culto del workwear, e se per CAT ha aggiornato i noti scarponcini, tra color block nelle sfumature del rosso, materiali inusuali e cinghie in nylon a sottolinearne il carattere utilitarian, con Timberland ha fatto altrettanto, arricchendo i giubbotti di trapuntature limitate, però, alle sezioni circolari sul fronte del capo.

Il punto di svolta, per ammissione della diretta interessata, è coinciso tuttavia con la presentazione della F/W 2014, perché è li che ha realizzato di volersi concentrare su «volume, proporzioni, tensione dei tessuti e colori»: elementi effettivamente in primo piano nell’infilata di jeans stinti che più over non si può, maglioni sforbiciati, giubbini e pantaloni in vinile lucente, tutti punteggiati da toppe serigrafate con i flyer di vecchi rave party. Un fur coat della collezione, tra l’altro, è stato indossato nientemeno che da Rihanna.

Di lì a poco il suddetto Gvasalia, appena insediatosi da Balenciaga, avrebbe chiesto a Rose un incontro, preludio all’ingresso nel team che segue il menswear della griffe.


Martine Rose Men’s Spring 2018

Dopo essersi concessa un anno di pausa perché incinta, la designer è tornata in pista nel 2017, rivelatosi un annus mirabilis per il brand: a febbraio, tanto per cominciare, si è svolto il primo défilé in assoluto, organizzato nel mercato coperto del quartiere di Tottenham, una rassegna di archetipi vestimentari che si districava tra pantaloni e gilet ipertrofici, cravatte sgargianti, cromatismi accostati alla rinfusa, giubbotti intagliati per scoprire parzialmente le maniche, jeans dalla vita triplicata e altre trovate a effetto, strambe eppure accattivanti.
Nella stesso periodo è stata lanciata la capsule collection NAPA by Martine Rose, per cui ha messo mano all’archivio del marchio di outerwear Napapijri, anche in questo caso espandendo i contorni di giacche in pile, anorak e impermeabili, cospargendoli inoltre di nuance accese, zip a contrasto e dettagli rimovibili (visto il successo, la collaborazione è proseguita nelle stagioni successive). Sono arrivate quindi le nomination per le edizioni 2017 sia del premio Andam, sia dell’LVMH Prize for Young Fashion Designers.

Da lì in avanti la carriera della creativa originaria di Croydon è stata un crescendo di riconoscimenti, critiche entusiastiche e progetti di spessore, ritmato da collezioni in cui ha affinato sempre di più la sua visione idiosincratica e sperimentale, continuando a esplorare molteplici subculture giovanili (raver, new wave, skinhead, acid house, post-punk e via dicendo) e insistendo su tratti divenuti una firma inconfondibile, dai volumi esplosi degli abiti alle cromie acide, passando per il denim delavé, i capi stazzonati, i blazer dai profili sghembi e così via.
È da ricordare, in particolare, lo show S/S 2018, un pastiche che giocava con gli estremi, spesso giustapponendoli nella medesima uscita: shorts seconda pelle e parka ciclopici, tonalità soft e squarci di viola o arancione, pantaloni issati sull’addome e giacche scivolate, richiami al canale simbolo dell’underground 90s – Mtv – e indumenti fané da pensionato in gita domenicale.
La S/S 2019, invece, ha registrato il debutto di una calzatura esemplare della verve dissacrante di Rose, i mocassini dalla punta quadrata completi di catenella metallica, da subito adorati e detestati in egual misura.

Per l’ultima S/S 2021, infine, la stilista ha riflettuto a suo modo sulla reclusione domestica generalizzata imposta dalla pandemia, filmando gli inquilini di un (ipotetico) condominio riservato agli aficionados della griffe, capeggiati da Drake in persona, che nella supposta intimità dell’appartamento indulgevano in abbinamenti improbabili, mescolando maglie da calcio logate Martine Rose, merletti, jeans fiorati, joggers dalle fantasie geometriche e giacconi avvolgenti come vestaglie.



Sono di livello anche le collaborazioni intraprese nel corso del tempo, in aggiunta a quella già menzionata con Napapijri, che hanno visto Rose allearsi con Mykita (per una serie di occhiali da sole ispirati, tanto per cambiare, alla scena dance degli anni ‘90, con montature affilate contornate da grafiche animalier o colorazioni come lime, rosso e bluette) e, soprattutto, con Nike; per la casa dello swoosh ha puntato, oltre che su tute e magliette da basket rivisitate, su un’edizione speciale delle sneakers Air Monarch, attraversate lateralmente da imbottiture sporgenti simili a grumi.

In definitiva un percorso di tutto rispetto per chi, come lei, è allergico all’autocelebrazione e tende piuttosto a ridimensionare il proprio operato, convinto che la moda «dovrebbe essere scherzosa, ingenua, perché oltre a trasmettere messaggi e codici, l’abbigliamento è anche una questione di divertimento e spensieratezza». Un approccio, evidentemente, tanto pragmatico quanto efficace nei confronti di appassionati e addetti ai lavori.

Tra innovazione e tradizione, la Stockholm Fashion Week AW 2021 mette al centro la sostenibilità

L’ultima manifestazione, in ordine di tempo, ad aver acceso i riflettori sulla moda prossima è stata la Stockholm Fashion Week Autumn/Winter 2021, svoltasi (in forma digitale, s’intende) dal 9 all’11 febbraio, che ha alternato alle collezioni dei designer invitati – perlopiù nazionali – seminari e conversazioni incentrate su argomenti di stringente attualità, dalla diversità nel fashion system alla sostenibilità, all’orizzonte post Covid del settore.

Di seguito una carrellata dei principali show presentati durante la settimana modaiola svedese.

Cmmn Swdn

Ad aprire le danze, nella prima giornata dell’evento, è Cmmn Swdn, uno dei marchi svedesi più conosciuti e apprezzati per l’abilità nell’armonizzare elementi (apparentemente) discordi, espressione di dicotomie quali maschile e femminile o materico e fluido. Un’attitudine confermata nella collezione Fall/Winter 2021, in cui trovate stilistiche d’antan vengono integrate in capi e accessori urban, per cui anorak e blouson sono profilati di frange ondeggianti, i pantaloni bootcut si aprono sulle sneakers da trekking e i pattern floreali d’ispirazione 70s sono sparsi su piumini, cappe imbottite e grandi sciarpe coordinate ai maglioni.
La tavolozza propende per cromie da sottobosco, quali marrone bruciato, khaki, ocra e verde, intervallate da flash di turchese e dall’irrinunciabile binomio black & white.



Schnayderman’s

Il brand Schnayderman’s ha iniziato nel 2012 dalla camiceria ed ha rapidamente esteso la propria offerta al total look del guardaroba maschile.
La collezione per la prossima stagione fredda, intitolata ‘The Outsiders’, ruota attorno al viaggio di quattro adolescenti in un luogo ultraterreno; partendo da questo incipit, il racconto per immagini svela outfit dall’allure casual, una sequela di overshirt su pantaloni dal taglio dritto, suit spigliati, completi in denim bleached, caban destrutturati, fleece jacket a collo alto, camicie e pull spennellati con chiazze dégradé, in una palette dai toni autunnali, con incursioni occasionali di ottanio, rosso e blu profondo.



Hope

Per l’autunno/inverno 2021 Frida Bard, direttrice artistica di Hope (griffe high-end di Stoccolma che elude le connotazioni di genere, prevedendo per i propri capi taglie sia maschili sia femminili) riflette su come lo spazio condizioni la percezione di sé, arrivando alla conclusione che, di questi tempi, le persone siano fragili, bisognose di coprirsi adeguatamente.
Il focus è quindi sui filati che meglio restituiscono una sensazione di purezza e intimità (lana, velluto di seta, organza, raso…). Overcoat, puffer jacket, blazer e golf dalla lunghezza extra scorrono leggeri sulla silhouette, accarezzandone i contorni e lasciando un certo spazio – appunto – tra pelle e tessuto, seppure non manchino indumenti più accostati al corpo, tra camicie avvitate e gilet slim. La cartella colori si mantiene sulle nuance neutre tipiche della stagione, con parentesi di rosa bubblegum e arancione.



Chimi Eyewear definisce l’occhialeria presentata nell’ultima giornata della fashion week «un ibrido tra convenzionale e progressista». Nello specifico, si parla di dieci montature diverse contrassegnate da altrettanti numeri, disponibili in sfumature terrose (dall’havana al marrone scuro, all’écru), adatte a qualsiasi occasione, mentre gli occhiali della Core Collection vengono sviluppati tenendo presenti innanzitutto simmetria ed equilibrio dell’insieme.



Sostenibilità

Diversi brand partecipanti hanno messo l’accento sulla questione della sostenibilità, emersa come una sorta di filo conduttore degli show succedutisi nel calendario: House of Dagmar, per esempio, adotta da sempre un approccio basato su tre pilastri – design, etica e longevità, una conditio sine qua non per centrare, entro il 2025, l’ambizioso obiettivo della neutralità carbonica. Self Cinema, invece, in linea con il proprio modus operandi, fondato su «azioni e condotte responsabili e sostenibili», firma abiti easy to wear in materiali che vantano le principali certificazioni in materia (GOTS,  Ecocert, Global Recycle Standard ecc.).
Si possono poi menzionare le scarpe e le borse di ATP Atelier (label fautrice di una singolare crasi tra design scandinavo e artigianato italiano), realizzate nella maggior parte dei casi in vacchetta e altri pellami conciati al naturale, o ancora i capi in denim della capsule collection ‘Plant Based’ di Weekday, frutto di un workshop che ha visto i clienti del marchio colorare il jeans usando tinture ottenute dagli scarti alimentari.
La centralità dei temi green è stata confermata, inoltre, da una serie di panel digitali dai titoli emblematici quali ‘Climate Auction – The Countdown Continues’ o ‘Fashion Recycling – An Exciting Experience’.



5 collezioni da conoscere dalla prima Arab Fashion Week Men’s

Dal 28 al 30 gennaio Dubai ha ospitato la prima edizione della Arab Fashion Week Men’s, kermesse riservata alle collezioni uomo per il prossimo Autunno/Inverno di quindici designer provenienti, oltre che dal Medio Oriente, da Regno Unito e Francia.
La sinergia tra l’Arab Fashion Council e la Fédération de la Haute Couture et de la Mode, infatti, ha assicurato la presenza nella line-up di cinque nomi emergenti della scena parigina, ponendo le basi per una manifestazione che, nelle intenzioni degli organizzatori, voleva esplorare le possibilità dell’abbigliamento maschile, andando oltre le categorie abituali di formale o street, spingendo gli uomini e in generale gli appassionati della regione ad abbracciare uno stile più eterogeneo e sperimentale.

Ecco dunque un riepilogo dei défilé – a nostro avviso – più interessanti dell’evento.

Anomalous

Nel calendario della prima giornata si distingue Anomalous del giovane talento arabo Rabih Rowell, un marchio che, fedele alla visione dualistica insita nel nome stesso (un richiamo alla teoria filosofica del monismo anomalo), inscena un clash di categorie, materiali e reference in cui si avvicendano senza soluzione di continuità silhouette maschili e femminili, t-shirt aderenti e shorts dalla vita sdoppiata, pajamas lucenti e tute in denim fiammato, overcoat dalle proporzioni architettoniche e spolverini basici, linee sinuose e volumi più strutturati.

Ugualmente eclettica la palette, che spazia tra colori soft e sfumature luminose di grigio perla, vermiglio e blu oltremare, mentre a livello di materiali prevalgono texture dalla mano morbida come seta, popeline, velluto e jersey.


Boyfriend the Brand

Boyfriend the Brand è stato fondato nel 2017 da Amine Jreissati, stylist e art director libanese che, dopo un’esperienza di cinque anni nella redazione di Marie Claire Arabia, ha avviato una label genderless dall’attitudine minimalista, focalizzata sui fondamentali del guardaroba, da interpretare e indossare liberamente.

Il video di presentazione alterna riferimenti alla tragica esplosione nel porto di Beirut dell’agosto 2020 alle immagini ravvicinate dei capi della Season 7, una serie di overshirt, bluse, giubbini con coulisse e pantaloni dalle linee pulite e confortevoli, che al ventaglio di tonalità neutre (khaki, marrone, grigio, rosa…) affiancano punte di blu notte, viola e arancione.
Le radici e il vissuto del designer emergono in capi come l’abaya, tradizionale veste araba qui percorsa, sulla schiena, da ricami intrecciati di perline e frange che compongono un verso del compositore Mansour Rahbani; parole arabe, d’altra parte, fanno la loro comparsa anche su alcune tee e accessori.



Emergency Room

Lanciato due anni fa dallo stilista Eric Mathieu Ritter per offrire un’alternativa realmente etica e sostenibile ai tradizionali processi di produzione della moda, Emergency Room dà nuova vita a filati di scarto e tessuti deadstock, mescolandoli in creazioni one of a kind.

Una celebrazione delle infinite possibilità del patchwork, in sostanza, che ritroviamo nella collezione ‘Absinthe Blues 2.0’, una sequenza di giacche oversize, camicie e soprabiti confezionati unendo pannelli disparati; le superfici, perlopiù frammentate, lasciano in evidenza imbastiture, orli a vivo e cuciture, così da rimarcare l’unicità di ciascun indumento.

Completano il quadro stampe folk riprodotte sul jeans, copricapo spigolosi, top a collo alto aderenti e maglie dai profili asimmetrici.



Lazoschmidl

Parte della cinquina di griffe in trasferta dalla fashion week parigina, Lazoschmidl nelle ultime stagioni si è fatto notare per la capacità di sovvertire i preconcetti su genere, mascolinità e queerness, puntando sull’audacia dei tagli e le provocazioni ben calibrate.
Nella collezione F/W 2021 il punto di partenza è l’abbigliamento dal retrogusto fanciullesco, rivisitato attraverso robuste iniezioni di humour e sensualità: così capi e decori considerati generalmente infantili (salopette, gilet, maglioni all’uncinetto, cappellini, disegni di animali, dinosauri, dolciumi eccetera) si intersecano con boutade maliziose, slip inguinali, tessuti traforati per svelare porzioni di pelle, magliette e pantaloni in vinile che più stretch non si può, andando a comporre un guardaroba esuberante, adatto a chi non teme di osare pur senza prendersi troppo sul serio.



Valette Studio

Dopo il debutto, il mese scorso, nella settimana della moda maschile francese, Valette Studio fa tappa nell’emirato con la collezione per il prossimo autunno-inverno. Il fondatore Pierre-François Valette, riferendosi al suo brand, parla di «eleganza indisciplinata», un’espressione effettivamente indovinata per rendere l’aria di (studiata) nonchalance emanata dagli outfit, tra suit dai colori vitaminici, motivi grafici e orpelli di derivazione sportiva o utilitarian; sono capi adatti a dandy urbani, che prediligono tagli netti e precisi ma non disdegnano un tocco di eccentricità, affidato ad esempio alle tonalità fluo di bordi, nastri o trapuntature, ai pin metallici sparsi qua e là, alle patch in tessuto stampato che penzolano dalla vita, agganciate a spille da balia.



La moda maschile che verrà nelle collezioni della Paris Digital Fashion Week A/I 2021

Cover: © credits Pascal Le Segretain

Con gli effetti nefasti del Covid-19 che continuano a farsi sentire un po’ dappertutto, anche la Paris Fashion Week dedicata al menswear dell’Autunno/Inverno 2021-22 è dovuta ricorrere a un format completamente digitale, spalmando su sei giorni, a partire dal 19 gennaio, la messe di sfilate e presentazioni.
Com’era già accaduto nell’edizione della P/E 2021, le griffe in calendario si sono divise tra chi ha semplicemente trasferito online le uscite della passerella o lookbook di turno e chi, invece, ha optato per soluzioni quali fashion film, videoclip, teaser e quant’altro.



Per quanto riguarda le proposte in sé, emerge uno scenario piuttosto composito: se diversi designer hanno abbracciato il cosiddetto comfortwear a base di capi décontracté, forme ampie, materiali cozy eccetera (indotto dal confinamento generalizzato ma destinato a rimanere ben saldo nello scenario presente e futuro), altri hanno dato libero sfogo al proprio estro, immaginando un guardaroba assai meno condizionato dall’intimità domestica, all’insegna quindi di look elaborati, colori brillanti e dettagli inediti.



Ecco allora una rassegna delle collezioni che, a nostro avviso, hanno colto nel segno, proiettando la creatività dei vari brand nella stagione fredda che verrà.

Homme Plissé Issey Miyake

Cambiare tutto restando al contempo fedeli al proprio heritage è l’obiettivo, tutt’altro che agevole, perseguito da Yusuke Kobayashi, direttore creativo della linea maschile di Issey Miyake. L’intento, riecheggiato anche nel titolo dello show ‘Never Change, Ever Change’, viene raggiunto sperimentando nuove declinazioni del plissésignature imprescindibile del marchio, che comprendono tinture in filo, motivi ispirati agli intrecci dei cesti africani e filati riciclati.
Pieghettature minuziose animano dunque blazer, spolverini, jumpsuit e gilet, ariosi ed essenziali, così come i pantaloni più strutturati, che si restringono sul fondo lasciando in evidenze le ginniche scure, frutto della collaborazione con Wakouwa, giunta al terzo capitolo.

Tra l’altro saranno disponibili nel giro di qualche giorno le sneakers high-top della serie precedente, che giocano con i cromatismi opposti di bianco e nero.



Louis Vuitton

Parafrasando Pirandello, li si potrebbe definire archetipi in cerca d’autore: sono i tipi umani del défilé di Louis Vuitton, nello specifico architetti, artisti, vagabondi e venditori. Virgil Abloh ne esamina le (presunte) rispettive tenute d’ordinanza, estendendo il discorso anche ai cliché sugli afroamericani e filtrando il tutto attraverso due possibili lenti, che lui attribuisce alle categorie contrapposte di turisti e puristi.
In definitiva, un’indagine sul potere semiotico della moda, con il creative director che si diverte a stravolgere dinamiche e nozioni vestimentarie spesso considerate automatiche, insistendo sull’effetto straniante di trompe-l’oeil e proporzioni fuori scala: i capispalla assumono così lunghezze spropositate, i bottoni vengono sostituiti da miniature di aerei, moto o martelli, il kilt si accompagna al completo, cappelli e cinturoni da cowboy alle mise più formali; per non dire dei panorami à porter, che consentono di mettersi letteralmente addosso lo skyline di New York, o del celeberrimo monogram della casa, che invade le superfici di abiti, coat e maglieria, come fanno i pattern rubati all’architettura, su tutti quello che riproduce le striature marmoree.
Abloh riserva inoltre grande attenzione agli accessori, destinati ad accendere i desideri dei fashionisti inveterati: basti vedere il borsone-aeroplano o i bicchieri da caffè, entrambi logati LV, of course. 



Yohji Yamamoto

Coerente con la visione decostruttivista che lo contraddistingue da sempre, Yohji Yamamoto traspone nella collezione A/I 2021 lo Zeitgeist di questi tempi opprimenti e tribolati, mescolando cappotti dalle dimensioni esagerate, mascherine ricamate, giacche spioventi, pantaloni dal taglio loose, frasi-manifesto minacciose quali ‘You have to take me to hell’o ‘Born to be terrorist’, grafismi sfumati a contrasto, superfici attraversate da sfilze di cinghie e lacci, un richiamo, quest’ultimo, alle costrizioni delle pratiche bondage.
Si alternano texture eteree e corpose, lisce e stropicciate ad arte, in una sequenza di uscite dominata dal total black di prammatica per il maestro giapponese, interrotta sporadicamente da sprazzi di colore rosso, rosa o arancione.




Dries Van Noten

Nel comunicato della griffe, Dries Van Noten spiega di essersi concentrato sui cardini del guardaroba, ma si parla pur sempre di un designer dalla cifra immaginifica, capace come nessun altro di amalgamare influenze e trovate stilistiche agli antipodi, con una disinvoltura difficile da rendere a parole, eppure inconfondibile. I must dell’abbigliamento maschile scelti per l’occasione (trench, camicie, suit, maglioni, ecc.) rifuggono quindi qualsiasi semplicismo: ammorbiditi nelle proporzioni per trasmettere un’impressione di scioltezza e comodità, si arricchiscono di increspature ad hoc e pattern geometrici mutuati dalla cravatteria, distorti quanto basta per assumere un aspetto vagamente psichedelico.
Le coulisse si insinuano su top e blouson, scombinandone le superfici, mentre i maxi anelli, ricorrenti, trattengono lembi di tessuto, sostituiscono la fibbia delle cinture o, ancora, diventano un decoro metallico da apporre su borse e collane.
Sotto i pantaloni, dalla vita alta eppure languidi, spuntano mocassini e boots dai profili arrotondati, a ribadire la sensazione di generale rilassatezza.



Dior Men

Il tailoring sublimato da tecniche e materiali tipici dell’haute couture, vero filo conduttore del lavoro di Kim Jones per l’uomo della maison, viene stavolta applicato alle uniformi d’epoca.
Stemperando il rigore appunto marziale che li caratterizza, il direttore creativo infonde a overcoat, soprabiti, caban, marsine e giacche da ufficiale un’attitudine dégagé e raffinata al tempo stesso, tra file di bottoni gioiello, passamanerie intricate, ricami geometrici, broche luminose appuntate sul taschino e pennellate astratte eseguite da Peter Doig, (ennesimo) nome di rilievo dell’arte contemporanea chiamato a collaborare con la griffe dopo – tra gli altri – KawsRaymond Pettibon e Kenny Scharf.
Tagli e volumi, studiati al millimetro, tratteggiano una silhouette asciutta ma priva di qualsiasi rigidità, mentre la tavolozza di stagione si mantiene in equilibrio tra toni neutri come blu navy e grigio (particolarmente cari a Monsieur Dior in persona) e flash cromatici di giallo, arancio e rosso.



GmbH

Serhat Isik e Benjamin Huseby – il tandem alla guida della label GmbH – propendono per un abbigliamento energico e sfrontato, imperniato su capi fortemente materici, lontano insomma dall’idea di comfort che, in tempi di pandemia e clausure più o meno forzate, va per la maggiore.
Il riferimento, dichiarato, è alla realtà simulata al computer del film ‘Welt am Draht’, ma sembra suggerire soprattutto il desiderio di ritrovarsi in un mondo altro, popolato da uomini assertivi, disinibiti, che sfoggiano abiti scultorei quasi esclusivamente neri, con qualche accenno di rosso, lime o marrone.
I tagli, precisi come rasoiate, sottolineano le forme di una fisicità volitiva e sensuale, come del resto fanno le giacche fittate, le maglie fascianti e i pantaloni smilzi, spesso infilati negli stivali al ginocchio; per non parlare degli spacchi che scoprono strategicamente spalle, torace o braccia, delle zip diagonali disseminate sulla maggior parte dei capi o delle linee che, spesso e volentieri, finiscono con l’incrociarsi sul petto.

A conferire ulteriore plasticità alle uscite provvedono poi i materiali, in primis la pelle, declinata in suit, giacconi, trench e pantaloni.


Wales Bonner

L’ultima collezione di Grace Wales Bonner rappresenta un ideale trait d’union tra Giamaica e Regno Unito, i paesi cui è maggiormente legata la stilista, londinese di origini caraibiche. Nello specifico, sostiene di aver immaginato il guardaroba di «outsider intellettuali» degli anni ‘80, vale a dire studenti neri di Oxford o Cambridge che, frequentando i prestigiosi atenei, si trovano ad assorbirne i codici identitari, stile incluso.
Ecco allora che la sartorialità severa dell’abbigliamento preppy, qui compendiata in blazer sciancrati, golf a rombi, pantaloni con le pinces e capispalla clean, viene smussata dalla presenza di pattern a righe sovrapposti, inserti floreali, patch in nappa, orli che sbucano dal maglione allungandosi ben oltre la vita e altri particolari inusuali. 

Dulcis in fundo, si rinnova il sodalizio con Adidas, per sneakers dall’appeal vintage e tracksuit percorse dalle tre strisce del marchio.



Casablanca

L’esuberanza nel look di un manipolo di jet-setter degli anni Sessanta, intenti a festeggiare in un sontuoso palazzo sulla Côte d’Azur: parte da questa suggestione Charaf Tajer, designer di Casablanca, per costruire il guardaroba A/I 2021 del brand.
Il racconto degli outfit, compresi quelli della neonata divisione womenswear, è affidato a un video rilasciato sui canali social della griffe, che si snoda tra stampe lussureggianti, pullover lavorati a intarsio oppure incrostati di broderie, colli voluminosi, tessuti soffici che sfiorano il corpo.

A livello di forme, è evidente il contrasto tra giubbotti e giacche, boxy e corte sulla vita, e i pantaloni svasati e fluttuanti che caratterizzano la parte inferiore delle mise.
Per quanto riguarda le calzature, spicca l’ultima iterazione della partnership con New Balance, ossia una scarpa da running candida, illuminata da tocchi di arancione e verde. 

La palette si adegua al mood squisitamente retrò che pervade l’intero show, alternando cromie delicate – dal lilla al crema – e nuance vibranti di giallo, rosso e blu.



Guida al montgomery, il capospalla cult per la stagione fredda

Il Covid-19, oltre agli effetti nefasti che abbiamo imparato a conoscere, ha rafforzato con ogni probabilità un bisogno generalizzato emerso già prima della pandemia, inerente quella sensazione di conforto che offrono gli abiti particolarmente ampi e robusti, dalle linee coocon, arricchiti magari di una patina used che non guasta mai; quelli, insomma, in cui avvolgersi per sentirsi al sicuro nella temperie attuale, che la pandemia ha reso ancora più incerta.
Le qualità appena elencate sono presenti in toto in uno dei capispalla di punta della stagione autunno/inverno, ossia il montgomery o duffel coat, il giaccone con gli alamari che ha spopolato nelle sfilate delle fashion week a/i 2020 come nei cataloghi delle griffe più disparate. In realtà questo pilastro del guardaroba maschile, al pari di altri illustri “colleghi”, torna ciclicamente nelle proposte outerwear dei designer, magari ritoccato in modo più o meno consistente per adattarsi ai tempi che corrono.

Le origini, comunque, datano alla fine dell’800, quando i marinai della Royal Navy inglese, per ripararsi dalla furia degli elementi che sferzavano i mari del Nord, cominciano a infagottarsi in pastrani di stoffa pesante, confezionata a Duffel, cittadina delle Fiandre che finisce così con l’identificare l’indumento tout court. L’apice della notorietà viene però raggiunto durante la Seconda guerra mondiale grazie al generale britannico Bernard Law Montgomery, figura cruciale per le sorti del conflitto, che è solito indossare un paltò color sabbia, talmente spesso che le truppe prendono a soprannominarlo “Monty Coat”; da lì alla denominazione attuale, il passo è breve.


picture taken in 1958 showing French fashion designer Coco Chanel (L) strolling down the Veneto street in Rome, in company of French author Jean Cocteau (C) and young friend Miss Weiseveiller (R). (Photo credit should read STF/AFP/Getty Images)

L’apprezzamento dei militari è riconducibile ai tratti essenziali dell’indumento, improntati a rigore e praticità, rimasti pressoché invariati fino ai nostri giorni: l’ampiezza delle forme, strutturate pur senza il minimo accenno di rigidità; il tessuto in panno di lana; il cappuccio; il carré sulle spalle; le due tasche frontali a toppa, in cui riporre il nécessaire; e, ovviamente, la chiusura mediante alamari, i caratteristici cordoncini chiusi da bottoni allungati in corno, pelle o legno, pensati per garantire una presa rapida e agevole anche con le mani bagnate.
Terminata la guerra, le eccedenze finiscono sul mercato, e ad accaparrarsene le maggiori quantità sono i coniugi Morris, che danno vita negli anni ’50 a Gloverall, marchio divenuto sinonimo del capo stesso.

Mentre a perpetuare l’appeal marinaresco del duffel coat provvedono film cult dell’epoca come ‘Mare crudele’ o ‘I cannoni di Navarone’,  gli estimatori si moltiplicano curiosamente proprio tra le fila dei ragazzi (e ragazze) coinvolti nei movimenti di protesta e controcultura che scandiscono i decenni seguenti, dai beatnik americani ai mods, ai sessantottini di ogni latitudine; tutti conquistati dal calore e dalla solidità connaturate al capospalla, insieme ai volumi comfy. Alla lista si aggiungono rapidamente intellettuali, registi e artisti in generale, da Jean Cocteau (che prediligeva una vezzosa versione total white) a Stanley Kubrick, passando per Mick Jagger e Jean Genet, e non tardano ad arrivare le interpretazioni degli stilisti.

Negli anni il montgomery ha mantenuto la propria rilevanza nei circuiti della moda, pur seguendo l’andamento carsico cui è soggetto nell’ambiente qualsivoglia capo o accessorio, fino all’ennesimo revival nelle collezioni per la stagione fredda in corso; in questo senso c’è l’imbarazzo della scelta: indicativo il caso di Burberry, dove Riccardo Tisci dà libero corso alla fantasia tra modelli in nuance tenui – rosa sorbetto o bianco con profili scuri a contrasto – e altri vivacizzati dal celebre check della maison, riprodotto all-over. La varietà delle proposte è assicurata anche da Neil Barrett, che si diverte a ibridare il montgomery con dettagli presi in prestito da altre tipologie di capospalla, qui rivestendolo di soffice shearling a mo’ di teddy coat, lì trasferendogli l’imbottitura del piumino, o ancora inserendo la pelle intorno a spalle e chiusure frontali. Stesso discorso per Dsquared2, le cui versioni (come gli altri abiti dello show, d’altra parte) non conoscono mezze misure, passando dall’overcoat scivolato al giubbotto corto in vita.



MSGM punta invece sulla tonalità eye-catching del paltò rosso; in maniera analoga K-Way, brand simbolo degli impermeabili colorati, in scena a gennaio con il primo défilé in assoluto, sceglie per il duffel coat cromie luminose quali verde smeraldo e arancione, aggiungendovi inoltre le tipiche zip multicolor delle sue giacche waterproof.
I marchi Belstaff e Margaret Howell, all’opposto, omaggiano l’heritage militare dell’indumento, il primo declinandolo in una sfumatura salvia, interrotta sulla parte inferiore e lungo le maniche da bande di colore nero; il secondo portando in passerella un modello che più basico non si può.
Di tutt’altro tenore le variazioni sul tema di Yohji Yamamoto, extra long e fluttuanti, strette sul davanti da lunghi nastri che si rincorrono terminando in grandi bottoni rettangolari.

Una selezione di dieci proposte sulle quali orientarsi per arricchire il proprio armadio non può prescindere da diversi dei nomi appena menzionati, che hanno il vantaggio, tra l’altro, di essere disponibili sui vari e-store: sono infatti a portata di clic il cappotto checked nelle sfumature del beige e cammello, in 100% lana, di Burberry, il coat bicolore dalla texture “orsetto” di Neil Barrett, il montgomery over in pelle, foderato in shearling, di Dsquared2; e ancora, il duffel coat dalla nuance vermiglio di MSGM, quello minimal targato Margaret Howell e il modello di K-Way; l’assortimento dei colori di quest’ultimo, oltre a quelli sgargianti di cui sopra, comprende le tonalità canoniche del blu scuro e grigio tortora.
Chi preferisce l’outerwear classico ma con un twist potrebbe prendere in considerazione il cappotto taupe in misto lana PS Paul Smith, arricchito da strisce dall’effetto dégradé, oppure quello della capsule collection JW Anderson X Uniqlo, in cui all’interno del cappuccio fa capolino un rivestimento tartan.



Per gli amanti del low profile, un’opzione da valutare è il montgomery nero Dolce&Gabbana, dal taglio morbido, che evita qualsivoglia orpello per concentrarsi sulla fattura in sé, ineccepibile come d’abitudine della griffe italiana.
Impossibile non chiudere la lista con il duffel coat per antonomasia, quello cioè del sopracitato Gloverall, le cui prerogative risultano pressoché immutate da decenni: quattro alamari in corno; sottogola per poter eventualmente stringere il bavero; fit asciutto quanto basta; lunghezza al ginocchio; produzione orgogliosamente made in England. Un modello adatto ai viaggi sulle navi del secolo scorso come alla vita nelle metropoli odierne, a conferma della sua intrinseca trasversalità d’uso.

Profumi, borse, gioielli, co-lab: la scalata al fashion system di Byredo

Qualche giorno fa la superstar del rap Travis Scott ha presentato il suo ultimo progetto Travx Space Rage, eau de parfum e candela abbinata che ambiscono a restituire le sensazioni, olfattive e non solo, di un viaggio nello spazio; si tratta dell’ennesima partnership di rango per Byredo, label di profumeria artistica cui si è rivolto, da ultimo, il cantante americano per realizzare la sua essenza “galattica”.



Il marchio è stato fondato nel 2006 da Ben Gorham, creativo dal percorso decisamente atipico per un contesto formale quale l’haute parfumerie: svedese nato da genitori indiani e canadesi, cresciuto tra il suo paese, Toronto e New York, ex playmaker di basket professionista, una laurea in Belle Arti al Royal Institute of Art di Stoccolma, decide di lanciarsi nel settore dopo un incontro col connazionale e profumiere Pierre Wulff. Per il nome si lascia ispirare dall’espressione, piuttosto evocativa, contenuta in un sonetto di Shakespeare (“by redolent”), per il resto ha le idee chiare: selezionare le migliori materie prime disponibili, affidarsi a nasi d’eccezione (la scelta ricade su Jérôme Epinette e Olivia Giacobetti, due autorità in materia, arruolati per occuparsi rispettivamente di profumi e candele), puntare su una gamma ben assortita di fragranze, rigorosamente unisex, anziché su un singolo prodotto sperando che sia premiato dalle vendite il prima possibile.

Soprattutto, Gorham pensa che il sillage sia una traduzione in note olfattive della propria personalità, un’espressione dunque di singolarità, della voglia di distinguersi da chiunque altro. Non va dimenticato che, alla metà degli anni Zero, la scena mainstream era dominata da best seller quali cK One di Calvin Klein o Fahrenheit di Dior, e si guardava ai profumi in generale come fossero oggetti branché, un succedaneo del lifestyle associato a una determinata griffe. Lui, al contrario, vuole rivolgersi a una cerchia ristretta di intenditori, offrendogli «un mezzo per celebrare la nostra individualità in modo viscerale».



I riscontri sono immediati, le creazioni – Encens Chembur, Bal d’Afrique, Gypsy Water, Mojave Ghost – rimandano a viaggi colmi di ricordi ed emozioni, i flaconi con il tappo tondeggiante nero diventano un cult grazie al design minimalista, e arrivano le prime collaborazioni di livello, a partire da M/Mink, una EdP pensata per restituire l’odore dell’inchiostro sulla pelle mediante una miscela di aldeidi, incenso, ambra, patchouli, cedro e trifoglio, commissionata nel 2009 dal celebre studio creativo M/M Paris; a seguire, il tandem con la coppia di fotografi Inez & Vinoodh per 1996, un blend di note orientali e legnose – dall’iris al cuoio, dal ginepro alla vaniglia – per trasmettere l’emotività di uno degli scatti più suggestivi del duo, ‘Kirsten 1996’ appunto.
Vanno citati poi il progetto a quattro mani con l’artista Carsten Höller (l’autore, per intendersi, degli enormi funghi penzoloni dal soffitto della Fondazione Prada) dal titolo paradigmatico di Insensatus, un dentifricio in edizione limitatissima, le cui molecole dovrebbero stimolare processi fisiologici tali da indirizzare i propri sogni; e l’edizione speciale della fragranza Mister Marvelous, un omaggio al celebre hairstylist olandese Christiaan Houtenbos, accolta in un pack color arancio.

La consacrazione definitiva a nome di rilievo della niche perfumery avviene, con ogni probabilità, grazie a Elevator Music, una limited edition con il Re Mida della moda odierna Virgil Abloh: oltre al jus eponimo, racchiuso in una boccetta attraversata dalle strisce segnaletiche tipiche di Off-White, la selezione comprende t-shirt, jeans, borse a secchiello e handbag dai profili geometrici, queste ultime corredate delle immancabili zip-tie rosse (le fascette emblema dell’estetica industrial di Abloh, ndr).

Non parliamo però di un unicum: Gorham è intenzionato infatti a rendere Byredo un vero e proprio brand, che proponga abiti, accessori, pelletteria e via discorrendo. Nel 2015 lancia pertanto una serie di borse a trapezio dal gusto clean, realizzate artigianalmente in Italia, seguita dagli occhiali da sole co-firmati da Oliver Peoples, le cui lenti colorate sono influenzate dalle eau de parfum, e viceversa. L’anno scorso debutta poi Byproduct, capsule collection di completi sartoriali dai volumi rilassati, cappellini, bag e sneakers hi-top.



Il côté sportivo del fondatore, amante dell’outdoor, trova invece espressione nella linea Possessions of my Soul, realizzata per la stagione spring/summer 2020 con il marchio skiwear Peak Performance, composta di giacche trapuntate, windbreaker, parka, maglie e pantaloni termici in una mischia di tessuti tecnici e pura lana merino, pensati per affrontare vestiti di tutto punto il meteo estremo delle montagne svedesi a nord del Circolo Polare Artico (l’idea è venuta, in effetti, da un’escursione sulle cime di Riksgränsen, in Lapponia). Tutti gli indumenti sono ultraleggeri e completamente ripiegabili, tanto per ribadire lo spirito utilitaristico sotteso alla collezione.

Non mancano nemmeno i gioielli, per i quali la designer Charlotte Chesnais si concentra sulla struttura della catena, ottenendone bracciali, anelli e collane dalle forme allungate, sinuose.
Lo scorso settembre è il turno dell’esordio nel make up con un assortimento di rossetti, mascara, eyeliner e lip balm, curato dalla truccatrice del momento Isamaya FFrench, già consulente per il maquillage di Tom Ford e Christian Louboutin (sua la firma dei LoubiLooks, i lipstick dal tappo lungo e affilato come gli stiletto dello stilista) e ora responsabile del beauty di Burberry. Passano infine pochi giorni e viene annunciato Osyling, un ventaglio di tredici candele profumate per la casa contenute in vasetti di ceramica colorata, disponibili in esclusiva da Ikea; suddivise in tre categorie basilari – floreale, legnosa, fresca – hanno prezzi contenuti, fino a un massimo di 20 euro.
Proprio la collaborazione con il gigante dell’arredamento svedese prova come Gorham sappia passare senza fare una grinza dal mondo delle fragranze di nicchia e del lusso in generale al mass market; una versatilità che gli tornerà senz’altro utile per rafforzare sempre di più lo stile di Byredo, a 360 gradi.

Dal successo di Ambush alle collaborazioni a raffica, Yoon Ahn è la designer più richiesta del momento

L’ultima partnership, con il marchio di prodotti audio Beats by Dr. Dre, è stata svelata solo pochi giorni fa: una versione fluo degli auricolari wireless Powerbeats. Si tratta dell’ennesima collaborazione d’autore che va ad infoltire un elenco già corposo, riconducibile alla griffe Ambush o meglio, alla sua direttrice artistica Yoon Ahn.

Classe 1976, nata in Corea del Sud ma cresciuta negli Usa seguendo gli spostamenti del padre nell’esercito americano e stabilendosi infine a Seattle, Ahn si laurea in graphic design all’università di Boston, città dove conosce il futuro compagno Verbal, figura apicale dell’hip hop giapponese, membro del collettivo Teriyaki Boyz. Trasferitasi a Tokyo nel 2003, la designer si inserisce nel vivace contesto del clubbing locale, iniziando di lì a breve a realizzare gioielli sgargianti, fuori dal comune, che rispecchino l’energia della scena musicale e notturna della città, pensati per amici, collaboratori del marito, habitué del settore.
Dato l’apprezzamento dei primi, illustri clienti (tra i quali un certo Kanye West), decide di strutturare meglio l’attività, fondando nel 2008 la label Ambush, in cui far confluire indistintamente chincaglierie, simboli della cultura pop e oggetti di uso quotidiano, rivestendoli di metallo – dall’argento placcato oro allo sterling silver, all’ottone – e tramutandoli in accessori one of a kind, dalla forte personalità.



Un brand di gioielleria sui generis dunque, che riflette il percorso, altrettanto composito, di una ragazza che ha trascorso l’adolescenza nella patria del grunge, sulla West Coast, si è appassionata alla moda – come racconta lei stessa – sfogliando le pagine di magazine come i-D o The Face, ha studiato grafica e, infine, si è ritrovata a lavorare come art director nella capitale nipponica, curando all’occorrenza anche i dj set delle serate più richieste. Un background permeato di street culture degli anni Novanta e Duemila, influenze musicali, subculture giapponesi e parecchia sfrontatezza.



Non stupisce quindi nemmeno tanto che il repertorio di riferimenti da cui attingere per le collezioni sia vasto (dai peluche alle spille da balia dei punk, passando per graffette, badge, accendini, pillole, mollette da bucato e così via) e venga tradotto in pendenti, piercing, orecchini e ciondoli. Anche quando gli articoli sono quelli canonici del settore – su tutti anelli, bracciali e collane – a fare la differenza sono dettagli quali le dimensioni esagerate, le linee arzigogolate, le colorazioni neon o metallizzate come lime, fucsia o blu China. Una visione caleidoscopica insomma, coerente con il gusto di Ahn che afferma di «trovare la bellezza nell’ordinario» e paragona il proprio approccio alla campionatura, e successivo mix, di contenuti eterogenei da parte dei dj, definendosi a tal proposito «un’outsider che esplora idee senza alcuna regola».

Nel 2015 viene introdotta la linea di ready to wear, pensata inizialmente per fare da corollario ai gioielli, vero focus del marchio. Nel corso delle stagioni la proposta si irrobustisce e si amplia, adottando stilemi analoghi a quelli dei monili: si spiegano così le felpe con grafiche trompe-l’œil, i maglioni patchwork, i capispalla dai finissaggi lucidi, il knitwear in nuance vitaminiche e altri pezzi di tenore simile; senza dimenticare gli accessori, sulla falsariga di gioielli e abiti, tra i quali spicca la clutch in metallo a mo’ di lattina accartocciata, divenuta un must-have di Ambush.

Ahn fa inoltre della collaborazione un tratto distintivo del proprio lavoro, viatico a una feconda contaminazione di realtà lontane tra di loro che, unendosi, ottengono risultati tanto inaspettati quanto attraenti per i consumatori. Fin dall’inizio, riesce pertanto a inanellare partnership con alcune tra le più rilevanti griffe di menswear o womenswear sulla scena. Ad inaugurare questa sfilza di co-lab è nel 2009 la capsule collection Ambush X Bape, proseguita nelle stagioni successive a colpi di giacche “sdoppiate”, ciondoli smaltati e scarpe creepers.
Per il défilé maschile spring/summer 2017 di Sacai la creativa realizza invece massicci girocollo a maglie metalliche, chiusi da lucchetti, il complemento ideale per outfit ispirati a quelli dei personaggi di ‘Arancia meccanica’. In occasione della collezione donna Undercover s/s 2018, invece, l’attenzione di Ahn si concentra sulle perle, ingigantite oppure ammaccate ad arte, o ancora disposte a grappoli sui bracciali a contornare i cammei.


Backstage at Dior Men Men’s Fall 2020

Credits Photo 6: Kuba Dabrowski/WWD


A beneficiare della prolificità della designer non sono solamente i brand street o di prêt-à-porter, anzi: Ahn tra le altre cose ha personalizzato le iconiche valigie in alluminio Rimowa, tingendone le maniglie di arancione segnaletico, e unito le forze con il marchio di eyewear Gentle Monster per una limited edition di occhiali da sole a mascherina, profilati da elementi in metallo.
Lo scorso settembre, invece, è stato svelato l’ultimo capitolo del progetto di Bvlgari “Serpenti Through the Eyes of…”, con cui la maison romana invita lo stilista di turno a reinterpretare la Serpenti Forever Bag: oltre a trapuntare la nappa dei tre modelli scelti (handbag, marsupio, minaudière), Ambush ne ha accentuato le linee, aggiungendo la possibilità di scegliere cromie brillanti come verde chartreuse, bluette e rosa.

Lo sportswear rappresenta un capitolo a parte, ampiamente esplorato da Ahn, che già nel 2012 riversava una colata di argento sulle sneakers Pump Fury HLS di Reebok. Nel 2019 è la volta delle mitiche Converse Chuck 70 e Pro Leather, ripensate in chiave rainproof attraverso l’utilizzo della gomma e la suola allargata a dismisura; la collaborazione tra l’altro prosegue, e da qualche giorno sono disponibili due nuove silhouette, ossia Dunk Boot – un ibrido tra anfibio e trainer alta – e Chuck 70 con strati di soffice shearling sulla parte esterna.
Ancora più fruttuoso il tandem con Nike, che ha interessato nel tempo diverse tipologie di prodotto, dai body e pantaloni tecnici per l’allenamento alle pellicce sintetiche, dai giubbetti reversibili alle immancabili sneakers in edizione limitata, destinate ovviamente a infiammare i desiderata dei collezionisti; le ultime arrivate, in questo senso, sono le Dunk High caratterizzate dallo Swoosh che deborda dalla tomaia, il cui lancio è previsto a dicembre.

Il talento della direttrice creativa di Ambush viene notato in tempi non sospetti anche dall’intellighenzia modaiola, che nel 2017 la inserisce nell’elenco degli otto finalisti del premio LVMH. L’anno seguente arriva un riconoscimento per certi versi ancora più pregevole, la nomina a jewelry designer di Dior Men, sotto la supervisione dell’amico di lungo corso Kim Jones.
Ahn può così sbizzarrirsi con i gioielli maschili della griffe, iniziando da quelli della stagione s/s 2019 (all’insegna di catene lucenti e lettering Dior trasformato in decoro ad hoc) e finendo con la profusione di boules, spille, charms, medagliette e ninnoli assortiti che punteggiava le uscite dello show a/i 2020, una celebrazione del look Do It Yourself dell’artista punk Judy Blame. Con un curriculum del genere, è facile in fin dei conti prevedere per Ahn un futuro da protagonista assoluta del fashion system.

Casablanca, il brand che unisce effortless chic parigino e influenze marocchine

Nell’immaginario comune il nome Casablanca, oltre alla città nel nord del Marocco, evoca le scene di uno dei film più celebri di tutti i tempi, espressione dello star system hollywoodiano incarnato dai protagonisti Humphrey Bogart e Ingrid Bergman. Da due anni a questa parte, tuttavia, identifica anche una tra le più interessanti griffe di ready-to-wear maschile, nota innanzitutto a connoisseur e frequentatori dell’ambiente creativo di Parigi (città dove ha esordito in passerella nel 2019) ma in grado di farsi conoscere, ed apprezzare, ben oltre i confini nazionali.

Dietro l’ascesa fulminea di Casablanca c’è lo stilista franco-marocchino Charaf Tajer, distintosi in precedenza come co-fondatore di Pigalle (marchio street molto quotato oltralpe), collaboratore di Virgil Abloh e animatore della nightlife parigina con il locale Le Pompon, deciso a riportare in auge una visione assai sofisticata e nostalgica dell’abbigliamento vacanziero – quello che un volta caratterizzava il relax nelle località turistiche più elitarie – unendo idealmente le due città della sua vita, la Ville Lumière e Casablanca, appunto. Il nome omaggia il luogo in cui i genitori si sono conosciuti e hanno lavorato (nello stesso atelier) prima di trasferirsi nella capitale francese, dove Tajer è cresciuto in un milieu improntato su moda, arte ed architettura, specializzandosi all’università proprio in quest’ultima disciplina.

L’identità della label, come detto, risulta da un amalgama dello stile parigino e nordafricano, in cui l’eleganza studiata ed effortless al tempo stesso del primo si fonde alle linee morbide e alle cromie, ora intense ora soffuse, del secondo. Lo stesso designer racchiude il concetto nella definizione di «brand francese con un souvenir del Marocco».
Gli abiti Casablanca sprigionano un flair tipicamente seventies: bandite le vestibilità fascianti divenute ormai prassi nel menswear, le forme sono quasi sempre abbondanti, i pants sciolti bilanciano il taglio sagomato delle giacche, generalmente doppiopetto e dai revers a lancia, mentre i jeans, più accostati, seguono la silhouette senza però costringerla. Parliamo di mise che, in passato, avrebbero potuto sfoggiare gli avventori di un resort tropicale a cinque stelle, o di un hotel di montagna altrettanto esclusivo, per godersi un cocktail dopo una sessione in palestra, un trattamento nella spa e via dicendo.



Nonostante la prima collezione risalga alla primavera/estate 2019 e sia stata mostrata in uno showroom improvvisato in casa, raccogliendo comunque il favore dei buyer arrivati a Parigi per i défilé stagionali (incuriositi, pare, da alcuni scatti pubblicati su Instagram), il debutto vero e proprio coincide con lo show per la successiva stagione autunno/inverno 2019-20. Sono qui già presenti quelli che diventeranno i must della griffe, vale a dire camicie in seta dalle stampe lussureggianti (nel caso specifico paesaggi marini, frutti, colonne in marmo), tracksuit dalla mano soffice, completi pajamas, grafiche acquerellate distribuite sull’intero outfit, il tutto declinato in una palette che alterna tonalità sorbetto e nuance piene quali arancione, blu cobalto e bordeaux.

Nella successiva sfilata p/e 2020 aumenta la varietà della proposte, includendo polo lavorate a maglia, giubbini in camoscio, shorts con coulisse, abiti décontracté, pantaloni fluidi alternati a modelli più lineari. Per l’a/i di quest’anno cambiano le reference – una vacanza invernale sul Lago di Garda – ma non la sostanza, perché le uscite in passerella rivelano un gusto decisamente vintage, tra maglioni intarsiati in cachemire, shearling jacket, suit simili ai tailleur femminili, giacconi trapuntati, vezzosi foulard stretti al collo, check e pattern geometrici dalle dimensioni extra. In occasione della Paris Fashion Week Men’s dello scorso luglio, invece, Tajer opta per una presentazione digitale, consolidando la propria vocazione al leisurewear tra completi da tennis ricamati, flared pants con piega al centro, sahariane, pullover marinière e tute percorse da bande laterali.


Credits Foto 1: Charles Michalet


Proprio l’annus horribilis che stiamo vivendo ha finora rappresentato uno snodo cruciale nel percorso di crescita del brand: a gennaio viene infatti svelata la collaborazione con New Balance, che vede le sneakers 327 dell’azienda Usa colorarsi di quelle sfumature di arancio e verde così ricorrenti nell’abbigliamento Casablanca (la partnership proseguirà poi con due nuove versioni della medesima silhouette, accese da tocchi di colore scuro sulla tomaia). Arriva, quindi, la selezione nella rosa degli otto candidati alla finale del LVMH Prize 2020, successivamente cancellata a causa della pandemia di Covid-19, seguita qualche mese dopo dalla prima prova nel womenswear, inaugurato con una selezione di quindici tra capi e accessori venduti in esclusiva su Net-a-porter. A settembre è infine la volta di un’altra capsule per 24S, la piattaforma dedicata all’e-commerce della holding del lusso LVMH.

Va sottolineato come Casablanca mantenga fin dall’inizio un rapporto privilegiato con i retailer di alto profilo: se le prime collezioni sono state selezionate da boutique del livello di Maxfield  e United Arrows, scorrendo l’elenco degli attuali rivenditori troviamo nomi quali Harvey Nichols, Selfridges, Lane Crawford, Tsum e Galeries Lafayette, per un totale di oltre cento store.
Risultati di tutto rispetto per chi, come Tajer, elude ogni categorizzazione – a cominciare da quella di ennesima rivisitazione dello streetwear – sostenendo semplicemente che il proprio marchio, al di là di «cosa sia o non sia il cool, è incentrato invece sulla bellezza».

I personaggi maschili di ‘Emily in Paris’

Uscita poche settimane fa ed entrata rapidamente nella top ten dei programmi più visti su Netflix, la serie Emily in Paris ha fatto parlare di sé da subito, attirandosi molte critiche per la rappresentazione della Ville Lumière e dei suoi abitanti, giudicata eccessivamente stereotipata (i cliché, effettivamente, non mancano, sebbene dalla produzione abbiano precisato come siano inevitabili data la trama, che racconta le vicende di una ragazza americana giunta a Parigi per la prima volta) e altrettante menzioni per gli outfit variopinti. Questi ultimi sono opera della regina del glamour in formato tv, la costumista Patricia Field, già ideatrice dei guardaroba di Ugly Betty e, soprattutto, Sex and the City.

Un aspetto meno indagato è invece quello riguardante i personaggi maschili, poiché a rubare la scena sono, ovviamente, la Emily Cooper del titolo aka Lily Collins, la sua capa/nemesi Sylvie (Philippine Leroy-Beaulieu) e le altre donne del cast.
Eppure alcuni uomini, rivestendo ruoli certo non secondari, meritano uno sguardo più approfondito, ad iniziare da Gabriel, chef tanto fascinoso quanto abile a preparare la tartare de veau, diviso, sentimentalmente parlando, tra la protagonista (e vicina di casa) Emily e la di lei amica, nonché sua fidanzata, Camille. Per interpretarlo è stato scelto il 32enne Lucas Bravo, aitante modello con all’attivo partecipazioni in soap come Sous le soleil e Plus belle la vie, molto seguite in Francia. Nel suo caso, la componente fashion è mantenuta al minimo sindacale (t-shirt aderenti, felpe pastello, cappotti scuri, giubbetti in denim, l’accoppiata evergreen perfecto di pelle e maglietta…), d’altra parte sa farsi notare senza difficoltà anche indossando il grembiule bianco d’ordinanza.



Impossibile non citare poi Julien, collega di Emily nell’agenzia di marketing parigina Savoir, perennemente blasé e incline a giudicare con sarcasmo quanto lo circonda. Si tratta del personaggio maschile più fashionable, vestito di tutto punto al lavoro come nelle altre occasioni. Il suo è uno stile a tinte forti, sofisticato: predilige i suit pennellati addosso, declinati in cromie classiche (ravvivati, però, da camicie optical, maglie stampate, sottogiacca in colori vitaminici) o al contrario piuttosto estrosi, percorsi da grafismi e pattern di grandi dimensioni, talvolta accessoriati con broche appuntate al bavero e collane gioiello; in alternativa, polo dalle nuance accese (come quella bluette firmata Paul Smith del secondo episodio), bomber, varsity jacket in raso.
Julien è impersonato da Samuel Arnold, ex ballerino professionista, parigino trasferitosi però da tempo a Londra, dove nel 2018 ha recitato al National Theatre nella pièce Antony and Cleopatra.

Altra figura maschile di spicco è quella di William Abadie, attore francese 47enne formatosi all’Actors Studio newyorchese, la cui filmografia conta serial come Gossip Girl, Gotham e Homeland. Oltre alla recitazione, si dedica regolarmente allo sport: è infatti un atleta provetto che spazia tra maratona, triathlon e snowboard. Il suo alter ego sullo schermo è Antoine Lambert, fondatore del marchio di haute parfumerie Maison Lavaux – uno dei maggiori clienti di Savoir – oltreché amante del boss di Emily, Sylvie Grateau. Il “naso” interpretato da Abadie è un uomo affabile e azzimato, stretto in completi tailored dal taglio impeccabile, completati da cravatta e pochette de rigueur.



Charles Martins è invece Mathieu Cadault, ovvero l’archetipo del businessman di successo, un latin lover paparazzato in compagnia di celebrity e star del cinema, manager del brand di alta moda Pierre Cadault, una maison di finzione presentata nella serie come quintessenza dello chic parigino (una delle scene migliori è, in effetti, quella in cui l’omonimo stilista trasecola notando degli charm a forma di cuore e Tour Eiffel, che l’improvvida protagonista tiene in bella vista sulla borsa). Data la professione, è ovviamente elegantissimo: nel corso degli episodi sfodera abiti tre pezzi in tweed, foulard dalle fantasie geometriche, soprabiti sartoriali, cache-col adagiati con studiata nonchalance lungo i revers e così via.

Nonostante l’esigua quantità di tempo dei rispettivi personaggi, si possono infine menzionare Roe Hartrampf alias Doug, fidanzato di Emily (che in realtà smette di essere tale all’inizio della serie), all’american boy tutto lavoro e tifo per i Chicago Cubs, e Eion Bailey, interprete di Randy Zimmer, il magnate dell’hôtellerie che appare nella quarta puntata.

These (chunky) boots are made for walking: come gli stivali “esagerati” sono passati dalle sfilate alle collezioni a/i 2020 dei brand di riferimento

Si parla da tempo di un declino incombente, se non già in atto, delle sneakers chunky, che negli ultimi anni hanno rappresentato una cartina di tornasole dei cambiamenti nel fashion system. Le scarpe massicce, tuttavia, oltre a infarcire i cataloghi dei brand hanno ormai contaminato, con le loro forme grosse e sgraziate, il design di altre calzature, da ultimo quello degli stivali comparsi in gran numero nelle collezioni della stagione odierna.

Il capofila di questo sdoganamento dei chunky boots è stato probabilmente Daniel Lee, artefice del rilancio in grande stile di Bottega Veneta: nel 2019 i BV Lug – stivali al polpaccio dall’imponente para sagomata – sono diventati un autentico tormentone tra addetti ai lavori e celebrities assortite. Del resto il designer inglese, vincitore nel 2019 di ben quattro riconoscimenti ai British Fashion Awards, dal suo debutto al timone della maison l’anno precedente ha inanellato una serie di borse e calzature instant cult. In effetti le sfilate dell’autunno/inverno 2020 se da un lato prevedevano, dopo l’abbuffata di felpe, tracksuit et similia, il ritorno a mise sofisticate, dal piglio formale, dall’altro certificavano di avere ormai assimilato i codici dello streetwear. I boots stagionali si distinguono così per i volumi esagerati, che trovano massima espressione nella suola, dai contorni sinuosi o, al contrario, risultato dell’innesto di più strati uno sull’altro.

È sufficiente comunque uno sguardo alle passerelle di riferimento per rendersi conto della pervasività di questa silhouette nell’odierno footwear, iniziando da Bottega Veneta, of course: nel suo défilé a/i 2020 le mise maschili, severe, allungate e ben accostate al corpo, vengono completate da ankle boots bombati dal fondo tondeggiante. Spostandosi da Fendi, invece, rubano la scena gli stivaloni dall’enorme para dentellata, con il motivo FF inciso sulle estremità; sono ciclopiche anche le piante dei modelli Versace, che ricordano le galoche antipioggia, contraddistinti dal finish lucente e dalla gomma nella parte inferiore.
Diversa l’interpretazione di Sarah Burton per Alexander MqQueen, secondo cui gli ankle boots vanno abbinati a cappotti, trench e completi dal taglio millimetrico; stringati o pull-on, hanno puntali tinti in colori metallici e una suola oversize scanalata, piuttosto sinuosa.


Backstage at Sacai Men’s Fall 2020

Credits Photo 4: Alessandro Garofalo for NOWFASHION, Credits Photo 5: Photo Vanni Bassetti/WWD


Da Sacai gli outfit sapientemente decostruiti di Chitose Abe prevedono Chelsea in vitello liscio o hiking boots scamosciati, entrambi con suola a triplo strato. Non manca di estro nemmeno la proposta di Dries Van Noten, che completa il suo caleidoscopio di pattern, stampe e decorazioni con stivali dalla base svettante, a mo’ di platform. Persino il guardaroba uber luxury di Hermès adotta le peculiarità dei chunky boots, pur temperandole: nella collezione della griffe i carrot pants sartoriali, stretti alla caviglia, evidenziano proprio gli stivaletti scuri in pelle lavorata, provvisti di spessa suola carrarmato.

Chi apprezzasse le qualità dei boots in questione potrà scegliere tra un’ampia varietà di opzioni, a partire ovviamente da quelle dei marchi menzionati: il modello Tire di Bottega Veneta, ad esempio, versione riveduta e corretta dei suddetti Lug, di cui mantengono gambale alto, doppio tirante, elastico laterale e para ipertrofica aggiungendo, però, un outsole in gomma disponibile in diverse colorazioni, dal vermiglio al verde acceso. Oppure l’anfibio nero Versace, chiuso da lacci bianchi e innestato su un fondo di dimensioni extra, solcato dal profilo di quella greca tanto cara alla maison; più lineari i Chelsea boots in suede firmati McQueen, bordati da una suola flat, nelle nuance del sabbia, blu e total black.

In generale i brand sembrano seguire due approcci opposti: uno massimalista, teso a esasperare le proporzioni già considerevoli degli stivali chunky, aggiungendo inoltre materiali inconsueti, cromie d’effetto, loghi e così via; l’altro meno incline alle esagerazioni, che limita la dose di eccentricità alla suola, appariscente di per sé, prediligendo tomaie sobrie ed essenziali.


Rientrano senz’altro nella prima categoria i Monolith Prada, dal nome esplicativo visto che si tratta di combat boot dall’enorme para frastagliata, muniti di minuscolo pouch logato da agganciare, in caso, al cinturino apposito; una particolarità che probabilmente ha contribuito a renderli all’istante un feticcio fashionista, al pari della “concorrenza” di Bottega Veneta. Di tenore simile i modelli griffati Burberry e 1017 Alyx 9SM, nell’ordine uno stivaletto in pelle spazzolata avvolto dalla maxi suola tricolore (nelle sfumature del senape, mattone e rosso brillante); e un boot dal côté futuribile, espresso attraverso il mix di materiali sintetici (neoprene, nylon, PVC ecc.), la texture opaca della tomaia e l’alternanza, sulla pianta, di pieni e vuoti, linee nette e ondulate.

Il filone minimal annovera invece stivali di Jil Sander, Both e Grenson. I primi racchiudono tutte le prerogative del Chelsea boot, ad eccezione del “solito” fondo dilatato al massimo, rifinito con una suola Vibram; le specificità dei classici stivaletti alla caviglia sono rispettate anche dai secondi, sui quali si alternano superfici lucide e mat grazie all’impiego di nappa e gomma. Gli ultimi, declinati in una calda gradazione di marrone, si distinguono per l’allacciatura con occhielli rubata alle scarpe da trekking; per il resto, sono scarponcini puliti, robusti, in linea con la tradizione di un marchio che, per quanto riguarda la calzoleria made in Uk, è un’istituzione.

Chiude la rassegna la variazione sul tema di Hunter: gli stivali waterproof per antonomasia sono in questo caso arricchiti dalla para sovradimensionata; uno strato aggiuntivo che, certamente, aiuta a mantenere riparato il piede, ammiccando però il giusto alle ultime novità in fatto di calzature maschili. Dopotutto pure un’azienda ultracentenaria come quella britannica, sostanzialmente estranea alla frenesia di tendenze, show, street style e altri riti della moda, subisce in una certa misura l’attrattiva dei chunky boots.

Dai jeans cuciti in un seminterrato alle migliori boutique multimarca: il successo di Amiri

L’ultima partnership eccellente nell’ambito retail è stata svelata qualche settimana fa da Mr Porter: una capsule collection composta di 31 articoli tra jeans destroyed, felpe con cappuccio e bowling shirt stampate. Del resto la scalata al fashion system di Mike Amiri, fondatore e designer della label eponima, è stata caratterizzata proprio dal sodalizio con i retailer, a partire dalla piccola selezione di denim venduta in esclusiva da Maxfield – mecca losangelina dello shopping di lusso – nel 2014, che di fatto sancì la nascita del marchio. Nel tempo, Amiri è approdato in oltre cento insegne multibrand, da quelle di ricerca come Layers, Antonioli o Patron of the New ai department store, agli e-tailer quali LuisaViaRoma, Matchesfashion e Mytheresa.

L’ingresso nelle migliori boutique ha perciò accompagnato l’evoluzione della griffe, per la quale si potrebbe scomodare l’epopea del sogno americano: un’impresa avviata con mezzi di fortuna e diventata rapidamente un modello di business; se l’anno scorso, in effetti, il giro d’affari dell’azienda ha raggiunto i 60 milioni di dollari, soltanto sette anni fa Mike Amiri cuciva di persona i jeans in uno scantinato nei pressi di Sunset Boulevard.
Prima di mettere la sua firma sul denim, questo 43enne di origini iraniane, crescendo a Beverly Hills, si è potuto immergere nell’atmosfera di grande fermento che, negli anni ’90, animava la metropoli, iniziando a gravitare intorno al Viper Room e ad altri locali simbolo di quella fase.

Dopo le consulenze per alcune aziende di abbigliamento e, soprattutto, dopo aver curato le mise dentro e fuori dal palco di Steven Tyler e Usher, decide di mettersi in proprio, lanciando una griffe in cui condensare le sue ossessioni passate e presenti, musicali in primis. Amiri attinge infatti a piene mani dall’iconografia del rock, codificata dai look di mostri sacri come Jim Morrison, Jimi Hendrix, Keith Richards o Axl Rose, mescolandola però con il repertorio stilistico di surfisti, skater, artisti underground; per dirla con le parole del diretto interessato, si tratta di «California e rock’n’roll, [filtrati] attraverso una lente di lusso». A tutto ciò, il creativo aggiunge la passione per il vintage, affinata fin dall’adolescenza setacciando mercatini dell’usato e negozi second hand, e le lavorazioni sartoriali, indispensabili per infondere ai prodotti una patina lussuosa e giustificare le cifre sui cartellini, che spesso superano abbondantemente i 1000 dollari.

Fatte queste premesse, si comprende meglio la profusione di abiti e accessori délabré, sgualciti ad arte. Per conferire all’abbigliamento un aspetto il più possibile vissuto, Amiri non disdegna soluzioni “estreme”, dichiarando ad esempio di sparare con un fucile alle maglie pur di ottenere gli squarci desiderati. Al di là degli eccessi del caso, si spiegano così i jeans a sigaretta logorati fino allo stremo, tra abrasioni, macchie e patch in tessuto a contrasto; le camicie check in flanella dagli orli grezzi; le giacche percorse da ricami, toppe e grafiche all-over, oppure sottoposte a tinture tie dye per un risultato technicolor; gli stivaletti ornati da fibbie, cinturini stampati o catenelle; le t-shirt used, istoriate con i loghi della band di turno (Guns ‘N Roses, Mötley Crüe, Grateful Dead ecc.) e via discorrendo.

In pratica, un assortimento di capisaldi dello streetwear e urban style, riletti però in chiave deluxe: i pantaloni appaiono sì sbrindellati, ma vantano tele giapponesi o italiane, mentre per la confezione dei vari bomber, overshirt, felpe, biker jacket e sneakers vengono selezionati materiali di prim’ordine (dalla seta alla nappa, passando per cashmere, velluto, suede e quant’altro). Capi realizzati per oltre l’80% nello stabilimento del brand a Los Angeles, da artigiani impegnati in laboriosi procedimenti manuali, seguendo dunque il modus operandi degli atelier delle maison più rinomate.   

Non va poi dimenticato come nel periodo in questione la figura di riferimento per il menswear fosse quella di Hedi Slimane, che trionfava da Saint Laurent tratteggiando il profilo di un giovane bohémien californiano, emaciato, androgino, strizzato in abiti tagliati col bisturi, aderenti come una guaina. Specialmente all’inizio, quando insiste sugli ensemble da rockettaro in libera uscita, è perciò evidente il debito di Amiri con l’estetica affilata di Slimane, tuttavia la qualità di materiali e finiture viene premiata dalla clientela, per non dire dell’aura di esclusività trasmessa da capi esposti negli store più prestigiosi in assoluto. I dati delle vendite superano le migliori aspettative, supportate anche dalla nutrita schiera di fan d’eccezione: tra le celebrities vestite Amiri troviamo infatti Justin Bieber, Michael B. Jordan, J Balvin, Jay-Z, e l’elenco potrebbe proseguire a lungo.

Jay-Z

La strada è ormai tracciata: nel 2016 viene introdotta la linea femminile, seguita a stretto giro da calzature e accessori. Anche le istituzioni del settore notano il successo di Amiri, che nel 2018 concorre al premio assegnato dai CFDA Fashion Awards al miglior talento emergente, aggiudicandosi la vittoria, nella stessa categoria, ai Footwear News Achievement Awards. L’anno dopo il Council of Fashion Designers of America lo inserirà nuovamente nella rosa dei candidati.

Da parte sua, la Fédération de la Haute Couture et de la Mode lo invita a partecipare alle sfilate maschili per l’autunno-inverno 2018-19: Amiri debutta nella Ville Lumière portando in passerella una rassegna dei suoi abiti più identificativi, tra vestibilità risicate, giacche in pelle, tuxedo, frange e glitter sparsi ovunque, oltre ovviamente alle “scorticature” ricorrenti negli outfit. Nei cinque show parigini successivi il designer esplora quindi ogni possibile declinazione dello stile à la West Coast, spaziando tra l’ispirazione grunge della collezione s/s 2019 (pullover sformati, tonalità acide, maglie legate in vita, stratificazioni…) e le uscite dal sapore militaresco della sfilata seguente, una sfilza di cappotti strutturati su jeans stretch infilati negli stivali; e arrivando, con la stagione s/s 2020, ad omaggiare gli hippie della Summer of Love attraverso silhouette fluide, pattern psichedelici, pantaloni scampanati e completi color pastello.

Guardando al futuro, Mike Amiri non esclude «un giorno, di disegnare mobili»; considerato il suo cursus honorum, nell’eventualità non potrebbe che celebrare, ancora una volta, il lifestyle della sua California.

Guida ai cardigan dell’autunno-inverno 2020, tra heritage e nuove interpretazioni

Sarà per le sue caratteristiche di indumento caldo, avvolgente e serioso, un bene rifugio del guardaroba che sembra rassicurarci in tempi piuttosto cupi e turbolenti, anche prima del Covid-19; sarà per la richiesta sempre più diffusa dei consumatori di abiti comodi e possibilmente versatili, alla quale la quantità di tempo passato in casa, durante (e dopo) il lockdown, ha dato ulteriore impulso; sta di fatto che, per la stagione fredda ormai imminente, il cardigan è tornato prepotentemente in auge, come certificato dalla gran varietà di modelli apparsi nella tornata di défilé dell’autunno-inverno 2020.

A ben guardare, le avvisaglie di un ritorno del capo nell’orizzonte del menswear risalgono all’ottobre 2019, quando era stato venduto all’asta, per oltre 330.000 dollari, il celeberrimo esemplare verdognolo indossato da Kurt Cobain nel 1993, durante il concerto MTV Unplugged in New York dei Nirvana. Neppure due mesi fa, poi, i dati del Lyst Index Q2 2020 hanno sancito la rinnovata centralità di questo ibrido di golf e giacca presso gli utenti della piattaforma, attribuendone il merito in particolare a Harry Styles, che lo scorso febbraio è apparso nel programma mattutino della NBC con un modello patchwork di JW Anderson, XXL e dall’effetto sferruzzato, furoreggiando sui social a colpi di hashtag (#HarryStylesCardigan), tanto da spingere centinaia di fan a filmarsi su TikTok mentre lavoravano ai ferri, per crearne una replica più o meno fedele.   

D’altro canto la storia del capo in questione testimonia di una sua certa trasversalità d’uso, in equilibrio tra formalwear e controcultura, elitarismo e pop, alto e basso: da un lato, tenendo fede al blasone delle origini (la “paternità” pare spetti infatti al generale inglese, nonché settimo conte di Cardigan, James T. Brudenell) dagli anni ’50 diviene sinonimo di preppy style, sfoggiato dunque dagli studenti delle università dell’Ivy League americana; dall’altro, si insinua nelle mise più casual di attori, sportivi e star della musica come Paul Newman, Steve McQueen, Mick Jagger o George Harrison, giusto per fare qualche esempio.

Nonostante i corsi e ricorsi, connaturati all’idea stessa di moda, e sulla scia di illustri estimatori – dal suddetto Harry Styles a Pharrell Williams, da David Beckham a Tyler, the Creator – il cardigan torna adesso a punteggiare le collezioni F/W 2020 di molte maison del lusso e marchi high-end; pur tenendo conto della disparità delle proposte, un trait d’union può essere individuato nell’estro delle decorazioni e nelle dimensioni abbondanti, spesso talmente generose da permetterne l’utilizzo al posto di cappotti, parka & co.

Uno specialista del genere come Missoni, ad esempio, esalta le possibilità espressive del colore mescolando su modelli dal piglio rilassato linee, sfumature, pattern geometrici e floreali in una palette ravvivata da toni caldi di rosso, ocra e azzurro. Anche i cardigan di Marco De Vincenzo sono un tripudio di fantasia, tra superfici sfrangiate e righe color block. Da Balmain si vivacizza il classico motivo argyle attraverso il dinamismo ottico del binomio bianco e nero, accentuando inoltre la bombatura delle spalle, mentre Ferragamo pone l’enfasi sulla linearità di volumi e materiali, allungando la silhouette dei maglioni declinati in nuance tipicamente autunnali; caratteristiche simili a quelle del modello in cachemire cammello di Hermès, la cui texture è però intarsiata di patch in pelle colorate. Da ultimo A.P.C. richiama i fasti del grunge con un cardigan a stampa animalier.

Volendo passare in rassegna alcune variazioni sul tema, disponibili anche nei migliori e-store, si potrebbe cominciare da Alanui, brand nostrano che fa dei cardigan in jacquard oversize la propria ragion d’essere: il modello Seattle Sound compendia tutti i must della casa, dalle grafiche folk alle frange lungo i profili. Gucci, da parte sua, insiste sull’icasticità dei propri simboli per una maglia su base blu interamente percorsa dal monogramma della doppia G. Thom Browne si ispira invece all’eleganza dei college Usa d’élite, trasferendola in un golf candido a trecce, rifinito dagli stilemi del designer, cioè fettucce tricolori lungo l’abbottonatura e quattro strisce a contrasto sulla manica.

Se Prada stempera l’austerità del golf accollato, realizzato in un blend di mohair e lana, utilizzando una gradazione accesa di rosso e la lavorazione a punto largo, Valentino viceversa ravviva il total black del suo cardigan grazie a bande di colore bianco e fluo. Sceglie al contrario l’essenziale Acne Studios, con una maglia monocroma scura interrotta solo dal piccolo ricamo “emoticon” sul petto. Prediligono la discrezione, infine, anche le interpretazioni stagionali di NN07, Stone Island, Roberto Collina e Polo Ralph Lauren, contraddistinte, nell’ordine, da un taglio regolare e lana color ruggine; dalla tonalità verde militare e chiusura a zip; dal filato dalla trama grossa e forme over; da cotone mélange blu navy con collo a scialle.

È evidente insomma come il cardigan riesca a soddisfare tanto i puristi del less is more quanto i fashion addict più inveterati, potendo contare, oggi come ieri, su uno dei suoi principali atout, ossia la versatilità.

La Paris Fashion Week P/E 2021 alla prova del digitale, tra lookbook, video e short movie

La prima edizione digitale della fashion week maschile di Parigi, svoltasi fino allo scorso lunedì e dedicata alla primavera/estate 2021, ha visto la gran parte dei nomi in calendario cimentarsi col format video, che si trattasse di un’appendice dinamica alla staticità dei lookbook, di rappresentazione altra dei mood e riferimenti di turno o, ancora, di mise en scène con tutti i crismi del cinema. 

Phlegethon, per cominciare, è il titolo dell’ultima collezione firmata Rick Owens, svelata attraverso un filmato in cui le immagini scorrono sulla schermata divisa a metà, come fossero riprese da una telecamera di sicurezza, alternando B/N e colore. Lo stilista vi condensa la sua estetica abrasiva, interpretata non casualmente dal modello-feticcio Tyrone Dylan Susman, chiamato a indossare capi scultorei dall’alto grado di teatralità, ulteriormente accentuata dalle spalle spigolose. Le proporzioni rivelano uno stridore – apparente – tra giacche fittate e pantaloni aderenti dal cavallo basso, o tra le forme smilze del sopra e quelle fluide del sotto. I contrasti permeano del resto gran parte delle mise, una rassegna di top dai lievi drappeggi, canotte sbrindellate, maglie stretch e blazer dilungati, abbinati a bermuda con elastico, cargo pants o modelli più affusolati. Owens, inoltre, insiste nel sovvertire i cliché del menswear proponendo, ad esempio, stivali dal platform imponente (anche nella variante “estrema” del cuissard), sneakers in rosa bubblegum e scollature profonde.

Isabel Marant si attiene a quello stile boho chic con cui è diventata uno dei brand di maggior successo del ready-to-wear femminile, traslato con i dovuti accorgimenti nel guardaroba pour homme: ecco allora spolverini, windbreaker, tute morbide su pantaloni risvoltati a gamba dritta. A movimentare le superfici di magliette, camicie e pull provvedono righe, quadretti e colorazioni dégradé, oppure vivaci motivi ikat. La palette alterna i toni polverosi del celeste, ecru e kaki alle nuance vibranti di magenta, bluette e verde menta, sprazzi di colore per aggiungere un twist alla generale rilassatezza degli outfit, evidenziata da accessori quali bucket hat, cinture in corda e sandali con listini.

Suggerisce un’ideale fuga dalle restrizioni di questo periodo la proposta di Davi Paris, cui fanno da sfondo scogliere ventose e prati in fiore, dove ritirarsi magari negli ultimi, malinconici giorni d’estate. I fiori, d’altro canto, hanno grande importanza anche per i look in sé, perché irrompono sulle texture sotto forma di ricami, disegni acquerellati o motivi tapestry a tutta grandezza, arricchendo blouson, golf e camicie generosamente sbottonate, come pure pantaloni svasati high-waisted e shorts con la piega. Anche gli accessori – cappelli da pescatore o in paglia, foulard vezzosi, calzature aperte, trainers – favoriscono l’impressione della gita in un paesaggio idilliaco, di cui godere in abiti che accarezzano il corpo, senza trascurare eleganza e armonia dell’insieme. 

Louis Vuitton inaugura invece un itinerario, sia fisico sia digitale, diviso in più tappe, la prima delle quali – Message in a bottle – è stata rivelata nei giorni scorsi: un ibrido di film e cartoon, in cui tra scorci di Parigi e coloratissimi personaggi immaginari, spuntano ovunque gli emblemi della maison, dal Monogram al Damier black&white. Per gli oufit veri e propri, bisognerà aspettare i prossimi due step, previsti a Shanghai e Tokyo nei mesi a venire.

Yosuke Aizawa, direttore creativo di White Mountaineering, racchiude in un video le suggestioni tech per le quali il brand è conosciuto (e apprezzato). Gli abiti prendono letteralmente vita dai cartamodelli, sollevandosi dalle sagome disegnate sul foglio e andando a comporre gli ensemble degli indossatori; si susseguono capi multi-tasche con zip più o meno decorative, trapuntature ed elastici, a rimarcare l’indole utilitarian della linea, sottolineato anche dal ricorso al layering per cui overshirt, gilet, felpe e giubbotti in diverse lunghezze e consistenze possono essere sovrapposti. Membrane Gore-Tex, pannelli a contrasto e sneakers traforate aggiungono un’ulteriore nota di funzionalità.

Il designer Bruno Sialelli rende in poco più di un minuto lo spirito escapista, quasi onirico, sotteso alle sue creazioni per Lanvin, aiutato anche dalla spettacolarità dell’ambientazione, il Palais Idéal du facteur Cheval, “castello” naïf nel sud della Francia. Dagli scatti dei look, passati in rassegna solo parzialmente nel video, si coglie un flair anni ’70, tra ponchos, inserti animalier, bluse variopinte, polo in maglia, soprabiti doppiopetto e pantaloni fluidi a vita alta, in una tavolozza tenue ravvivata da flash di cobalto, ocra, rosso e blu navy.

Thom Browne, da ultimo, si ispira alle Olimpiadi nel filmare l’esecuzione, da parte del cantautore Moses Sumney, di una rivisitazione dell’inno originale dei Giochi, ponendo l’accento sulla fisicità, monumentale appunto, del protagonista, un adone contemporaneo issato, non solo idealmente, sul podio. Per quanto riguarda capi o accessori, nei frame compaiono unicamente delle cuffie, frutto di una collaborazione con Beats by Dr. Dre, e una lunga gonna di sequin attraversata dalla caratteristica banda tricolore di Browne, a certificare la propensione al gender fluid iscritta nel dna della griffe; una scelta che testimonia di come, a differenza delle sfilate più o meno virtuali, l’espressione dei valori fondanti di un marchio non conosca ostacoli né pause, specialmente in tempi come questi. 

Non solo K-pop, beauty o drama: sei esempi di moda “made in Korea”

Qualche settimana fa, il flop del comizio di Donald Trump nell’Oklahoma legato – almeno in parte – al boicottaggio dei fan del K-pop, numerosi e particolarmente agguerriti sui social, ha di nuovo acceso i riflettori, seppur indirettamente, sulla popolarità delle band sudcoreane, ormai seguitissime ben oltre i confini nazionali. Una realtà di cui i principali media si occupano a dire la verità da tempo, almeno dalla hit del 2012 Gangnam Style, e che rientra in una sorta di korean way of life dalle dimensioni globali, estesasi dagli anni Duemila in avanti a cinema e tv (le serie del filone k-drama, oppure il film trionfatore degli ultimi Oscar, Parasite), estetica (la k-beauty e conseguente proliferazione di routine di bellezza, cosmetici dedicati, trattamenti, ecc.), videogiochi, cucina e altro ancora.

Un fenomeno talmente pervasivo da essersi meritato un termine apposito, Hallyu, ossia “onda coreana”, che ne rende bene la portata.
La moda, sensibile per definizione a usi e costumi della contemporaneità, non poteva non interessarsi alle novità provenienti da questa regione del Sud-Est asiatico: se la Seoul Fashion Week si è imposta come una delle kermesse emergenti più originali e dinamiche, frequentata da torme di addicted vestiti di tutto punto e immortalati dai fotografi di street style, i nomi di diversi creativi locali sono finiti sui radar di giornalisti, buyer e altri addetti ai lavori.
Nello specifico, sono sei le griffe “made in Korea” sulle quali abbiamo concentrato la nostra attenzione, che compongono un quadro eterogeneo: si va dalle maison di prêt-à-porter, inserite a pieno titolo nel sistema della moda francese, a quelle di accessori high-end, passando per i marchi attivi nel segmento, sempre più affollato, dello streetwear.

La carrellata inizia da Wooyoungmi, brand di menswear parigino per vocazione e trascorsi, in quanto calca le passerelle della Ville Lumière dall’anno successivo alla fondazione, datata 2002, e nel 2011 è entrato a far parte della Fédération de la Haute Couture et de la Mode. Sono però coreani i natali della sua creatrice  Woo Youngmi, figura cruciale per la moda dell’intero paese: nel 1988 aveva infatti lanciato una linea chiamata Solid Homme e, associandosi ad una manciata di colleghi di Seul, aveva gettato le basi per la nascita della futura fashion week. Oggi la figlia della stilista, Katie Chung, mantiene lo stesso obiettivo della madre: conferire un quid inedito ai fondamentali del guardaroba (outerwear, camiceria, abiti, maglieria), fondendo cura scrupolosa dei dettagli, ispirazioni architettoniche e lavorazioni degne della miglior sartoria. La collezione primavera/estate 2020, ad esempio, tratteggia un’idea di eleganza décontracté espressa da vestibilità scivolate, capispalla avvolgenti, tasconi applicati e stampe in technicolor da cartolina.

SEOUL, SOUTH KOREA – OCTOBER 18: Guests wearing black and brown leather outfit are seen during the Seoul Fashion Week 2020 S/S at Dongdaemun Design Plaza on October 18, 2019 in Seoul, South Korea. (Photo by Jean Chung/Getty Images)

Nella gallery: Foto 1 by Jean Chung/Getty Images

Anche Jung Wook Jun, meglio conosciuto come Juun.J, è di stanza dal 2007 a Parigi. Con Woo Youngmi condivide un percorso scandito da molte esperienze (tra incarichi presso prestigiose maison e la creazione della prima label personale, Lone Costume, nel 1999) e l’assoluta centralità, nel proprio operato, della sartorialità, filtrata però attraverso un immaginario decisamente metropolitano. Uno street tailoring, per usare le parole del designer, che si nutre di contrasti tra volumi oversize e fit più aderenti, fascinazione per l’eleganza canonica dei completi e uso massivo di tasche, coulisse e cinghie, stratificazioni elaborate e precisione chirurgica dei tagli, e così via; tutti elementi presenti anche nel défilé per l’attuale stagione calda, insieme a tanta pelle, denim ed echi del power dressing anni ‘80, dalle linee sinuose degli abiti alle maxi spalle imbottite.

Le tante sfaccettature del mondo urban rappresentano il perno delle collezioni firmate Ader Error e 99%IS. Il primo marchio, nonostante sia in attività soltanto da sei anni, gode di una visibilità internazionale, certificata dalle cifre di tutto rispetto delle vendite (trainate, a loro volta, dal largo seguito su Instagram e affini) ed è stato salutato da Vogue nientemeno che come «risposta coreana a Vetements»; il collettivo alla guida, effettivamente, si dimostra abile ad irretire i consumatori, specialmente i più giovani, infondendo un tratto unisex ai must dell’abbigliamento street (t-shirt, felpe, baggy pants, giubbini, materiali perlopiù tecnici), dosando pulizia dei tagli, colori accesi, slogan dissacranti e grafiche dal gusto vintage, associandosi inoltre a griffe come Puma e Maison Kitsuné per capsule collection andate rapidamente sold-out.

99%IS è invece plasmato a immagine e somiglianza del suo fondatore Bajowoo, che vi riversa in toto le sue ossessioni, mescolando sottoculture musicali, clubbing, goth e spirito DIY (do it yourself, ndr). Si spiegano così i lembi trattenuti dalle spille da balia, i tessuti patchwork, le superfici percorse da scoloriture o abrasioni, la profusione di stringhe e zip usate per strutturare maglie e pantaloni… Un’attitudine underground che ha conquistato celebrity (Pharrell e Billie Eilish, giusto per citarne un paio) e i principali retailer, da Dover Street Market a LuisaViaRoma, a MR Porter.

Diverso il profilo delle creative dietro il brand We11doneJessica Jung e Dami Kwon, che nel 2015 mettono a frutto l’esperienza nella gestione della boutique Rare Market sviluppando una linea di capi e accessori basilari, guardando soprattutto ai topoi delle passerelle di fine anni ‘90-primi anni Zero, sfumando allo stesso tempo le distinzioni in termini di genere, stagionalità, influenze e quant’altro.

Gentle Monster, infine, si distingue per l’approccio eclettico all’occhialeria, che coinvolge ogni aspetto: la varietà delle montature, la ricerca di nuovi materiali e tecnologie, le campagne pubblicitarie, l’allestimento dei negozi, facendo delle collaborazioni con altre realtà un leitmotiv; quelle di maggior successo hanno riguardato, negli anni, Alexander WangMoooiHenrik Vibskov10 Corso Como e Fendi.
A ulteriore dimostrazione di come, al di là dei consumatori, persino i grandi nomi della moda e del design siano ormai sensibili all’ondata di creatività proveniente da Seul e dintorni. 

Dai pigiami alle slippers, lo stile domestico secondo i principali marchi di loungewear

Una delle eredità con ogni probabilità più durature del lungo periodo trascorso in casa per l’emergenza coronavirus, limitatamente al vestiario, è quella del loungewear homewear, sinonimi per designare capi e accessori pensati per essere indossati all’interno delle abitazioni. In effetti, allargando lo sguardo oltre i look raffazzonati recuperando tute e felpe informi, oppure i tentativi per mostrarsi in tenuta simil-professionale nelle videochiamate, (r)esiste una nicchia del menswear compendiata in pigiami, robe de chambre, completi coordinati e slippers, che trova nell’intimità della sfera domestica il suo scenario naturale, e alla quale si rivolgeva, ancor prima del lockdown, un drappello di estimatori in cerca di confort e ricercatezza nei tagli e materiali; qualità tattili e visive dunque, personali nel senso letterale del termine, dal momento che può goderne solo il diretto interessato, indulgendovi specialmente nei periodi off, in ogni caso quando si è al riparo dai ritmi forsennati della nostra società. 

Parliamo di vezzi stilistici e, più in generale, di un modus vivendi che riecheggiano quelli dei dandy di fine’800, la mollezza del loro abbigliamento da camera accentuata da vestaglie e giacche in nuance sgargianti, vestibilità morbide, tessuti pregiati – sete, lini, cotoni – e biancheria su misura, come quella prediletta dal Vate D’Annunzio, esteta nostrano per eccellenza.

Models present creations for fashion house Dolce Gabbana during the Men Fall – Winter 2016 / 2017 collection shows at the Milan’s Fashion Week on January 16, 2016 in Milan. AFP PHOTO / GABRIEL BOUYS / AFP / GABRIEL BOUYS (Photo credit should read GABRIEL BOUYS/AFP via Getty Images)

Nella gallery foto 1: Gabriel Bouys/AFP via Getty Images, foto 4: Barbara Zanon/Getty Images

Il loungewear, di per sé, non rappresenta una novità assoluta nella moda maschile: nel 2016 si era infatti parlato di tendenza pyjamas, vale a dire quegli ensemble composti da blusa e pantalone fluidi, in materiali setosi e con pipinga contrasto, talmente sofisticati e preziosi da poter essere sfoggiati in ogni occasione, come avevano suggerito le sfilate di maison del livello di GucciVersaceDolce&GabbanaVuitton e Dries Van Noten.
Eccezion fatta per gli habitué delle varie fashion week, pigiami et similia non si erano però realmente diffusi al di là delle mura domestiche. Indossarli in pubblico, d’altra parte, veniva considerato sinonimo di stravaganza, concessa semmai a personalità d’eccezione: senza per forza scomodare il patron di Playboy Hugh Hefner, perennemente avvolto da una palandrana rossa, è sufficiente citare Federico García Lorca e Salvador Dalí, oppure, restando al presente, il pittore Julian Schnabel e l’attore e musicista Jared Leto

Il loungewear di cui sopra, invece, è da intendersi come un lusso intimo, sotteso a prodotti fuori dal comune, eppure utilizzati in momenti assolutamente ordinari come quelli di relax casalingo, magari sbizzarrendosi nella scelta di colori e decorazioni. Ad assecondare queste inclinazioni provvede un ventaglio di griffe, tra aziende dall’heritage pluridecennale e altre salite alla ribalta in tempi più recenti.
Rientra nella prima categoria Derek Rose, un marchio che, in oltre 90 anni di attività, ha conquistato rockstar, attori e aristocratici applicando i fondamenti della sartoria a sleepwear e abbigliamento per il tempo libero; le sue vestaglie, camicie da notte, maglie, pantaloni e babbucce vengono confezionate in materiali nobili, dal cachemire al batista, dal velluto allo jacquard, e si distinguono per i pattern esclusivi ideati dal team di design interno.

Altra label londinese che, concentrandosi su qualità dei filati e studio meticoloso delle forme, ha fatto dell’homewear un trademark è Hamilton and Hare: i modelli – pyjamas, accappatoi, t-shirt, shorts – sono essenziali, la palette cromatica ridotta al minimo, con sporadiche concessioni a burgundy e giallo pastello. Principi simili – aplomb sartoriale, tessuti premium, silhouette classiche – messi però al servizio dell’estro creativo, sono quelli seguiti da Desmond & Dempsey, i cui set coordinati presentano stampe all-over dall’ispirazione esotica o ampie righe multicolor, affiancati a proposte più tradizionali nelle sfumature del blu e grigio.

Il focus di Sleepy Jones è sul pigiama, trasformato in divisa quotidiana dall’attitudine nonchalant, da mescolare liberamente con evergreen del guardaroba quali jeans e magliette. Le texture alternano motivi geometrici, gessati e grafiche floreali, sebbene non manchino versioni monocrome e una selezione di vestaglie, pantaloncini e biancheria.
Da Inabo, brand di base a Stoccolma, tutta l’attenzione è rivolta alle slippers, sobrie e funzionali come da prassi del design scandinavo, ottenute da pellami di prim’ordine, in primis nappa e suede.

L’abbigliamento da casa è poi oggetto d’interesse anche di marchi storicamente attivi nell’underwear: nel caso di Hanro e Zimmerli, ad esempio, il comune denominatore risiede nelle linee timeless, nelle lavorazioni meticolose dei filati (lana, seta, mischie di cotone e jersey, ecc.), nelle tonalità preferibilmente neutre, nelle fantasie tipiche dell’armadio maschile, dai check alle righe; per quegli uomini che, pur apprezzando la raffinatezza del loungewear, non intendono derogare ai dettami dello stile minimal. 

I dieci anni della Bao Bao Bag, borsa cult anche in versione maschile

Lanciata nel 2010 e diventata un instant classic del brand, la Bao Bao Bag di Issey Miyake taglia il traguardo dei dieci anni come meglio non si potrebbe, continuando a esercitare un fascino trasversale sui consumatori, tanto da poter forse scomodare l’espressione, spesso abusata, di accessorio-icona.

La genesi del modello e, in generale, il profilo del suo autore risultano in realtà piuttosto distanti dalla cultura dell’hypeormai comune nel fashion system. Membro, insieme a Rei KawakuboYohji Yamamoto e Hanae Mori, di quel manipolo di creativi giapponesi affermatisi sulla scena della moda parigina a cavallo degli anni ’70 e ’80, grazie a un approccio cerebrale e incline al decostruttivismo (in antitesi al glamour sfavillante tipico degli eighties), Issey Miyake è infatti uno stilista sui generis, fautore di una visione sincretica nella quale coesistono progettazione, décor, tecnologia e sperimentazione materica.

Intenzionato a stravolgere silhouette, volumi, texture e, di conseguenza, il rapporto fino ad allora univoco tra le forme del corpo e quelle degli indumenti, il designer ha fatto della plissettatura un marchio di fabbrica, perfezionandola in modo da rendere ingualcibili i tessuti e realizzando abiti adatti ad ogni fisicità, maschile o femminile. Tra le sue numerose innovazioni si ricorda A-POC, acronimo di A piece of Cloth, un processo unico per ricavare capi d’abbigliamento finiti da un singolo filato.

Un simile connubio di ricerca, funzionalità e pragmatismo non poteva non riversarsi sugli accessori della griffe, a cominciare appunto dalla Bao Bao: nel 2000, lasciandosi ispirare dal Guggenheim Museum Bilbao dell’archistar Frank Gehry, un turbinio di linee curve e ritorte perfettamente scolpite, Miyake realizza una borsa in PVC dalla struttura modulare, nella quale tutto ruota intorno al triangolo, inscritto in un reticolo e moltiplicato sull’intero rivestimento esterno; questa ripetizione della figura geometrica conferisce un aspetto pressoché tridimensionale alle superfici, ulteriormente accentuato dai riflessi delle stesse quando esposte alla luce. Leggerezza e flessibilità del materiale, inoltre, permettono alle forme di modificarsi, adeguandosi alla posizione verticale o orizzontale dell’accessorio come al contenuto dell’interno; tutte caratteristiche racchiuse icasticamente nel concetto shapes made by chance”, coniato dallo stesso stilista.

Il successo è tale che, dieci anni dopo, Bao Bao diventa una collezione a sé, declinata di volta in volta in borse a spalla, shopper, cabas, clutch, perfino portafogli o trousse. Di lì a breve l’offerta viene estesa alla clientela maschile, che può tuttora scegliere tra versioni a mano o con tracolla, capienti e strutturate – è il caso di tote bag, cartelle e sacche – oppure dalle misure più contenute, tipiche di zaini, messenger, marsupi e buste. La palette cromatica è in linea con l’ampio assortimento di formati: si va dai basilari bianco e nero alle sfumature accese di giallo, turchese o paprika, passando per grigi, blu e verdi dall’effetto satinato.

Il rigore geometrico del modello, esaltato da giochi di luce ed effetti ottici, conquista rapidamente art director, stylist, grafici e altri insider dell’industria creativa. A confermare come la borsa sia ormai considerata un oggetto di design piuttosto che un “semplice” accessorio griffato è poi l’elenco dei rivenditori, dove, oltre a note boutique ed e-tailer come FarfetchSsense e Bloomingdale’s, spiccano gli store di due fra i più rilevanti musei in attività, LACMA e MoMa
Del valore non meramente estetico del proprio lavoro sembrava d’altra parte consapevole lo stesso Miyake, quando dichiarò di pensare alle sue creazioni come «strumenti al servizio della creatività di chi li indossa»; una definizione oltremodo appropriata anche per la Bao Bao Bag.

Le migliori boat shoes per la bella stagione, aspettando le regate dell’America’s Cup

Con l’aumento delle temperature e le vacanze imminenti – o almeno si spera – la scelta delle calzature con cui completare i look stagionali non può non adeguarsi. Le boat shoes, o desk shoes che dir si voglia, rappresentano un buon compromesso tra l’informalità di espadrillas, trainers, sandali & Co. e l’eleganza inappuntabile dei mocassini penny loafer.

Fatta eccezione per la parentesi di popolarità degli anni ’80, queste scarpe sono state a lungo una prerogativa degli irriducibili dello stile preppy caro all’upper class americana, scelte per completare outfit a base di camicie dal collo button-down, pullover collegiali e chinos; eppure di recente il menswear è tornato ad interessarsi alle boat shoes, e in questo senso va segnalato, innanzitutto, lo zampino di una protagonista assoluta del settore come Miuccia Prada, abituata a recuperare stilemi di epoche passate per trasformarli in feticci à la page del presente, opportunamente rivisti e corretti: la stilista, nel 2018, ha mandato in passerella una versione color blocking dai pannelli in colori brillanti quali rosa, rosso, verde e azzurro, con tanto di calzettoni in spugna.


Backstage at Prada Men’s Spring 2019

È quindi venuto il turno di Virgil Abloh, che nella pre-collezione Louis Vuitton uomo p/e 2020 ha rivisitato le scarpe da barca, tingendole di nero o, in alternativa, di tonalità sature (ciano, cremisi, giallo citrino), dilatandone la silhouette con l’innesto di una spessa suola carrarmato, aggiungendo inoltre occhielli logati e impunture a contrasto; nelle immagini del lookbook spuntavano sotto pantaloni con la piega affilati e altri dalla vestibilità morbida, abbinati a loro volta a blazer check o capospalla voluminosi, a conferma di come questa calzatura possa rivelarsi insospettabilmente versatile. 


Louis Vuitton Pre-collezione P/E 2020 lookbook

Non va dimenticato neppure che, lo scorso aprile, sarebbero dovute svolgersi le prime regate di qualificazione all’America’s Cup 2021, poi rimandate per la pandemia; resta tuttavia intatto l’appeal della competizione sportiva più antica al mondo, nonché del suo corollario estetico di giacche a vento, gilet, pantaloncini tecnici e, appunto, boat shoes.

In fondo, parliamo di accessori collegati al mondo nautico fin dalle origini, risalenti alla metà dei 30’s, quando Paul Sperry, marinaio e fondatore del marchio omonimo, prese spunto dalle zampe del suo cane – che poteva muoversi sul ghiaccio senza problemi – e incise delle scanalature sulla suola, così da aumentarne l’attrito sulle superfici scivolose. Di lì a breve si sarebbero precisate le altre peculiarità, dal fondo in gomma antiscivolo alle stringhe che bordano la tomaia per avvolgere al meglio il piede, al cuoio degli stessi lacci. Sarà in seguito John F. Kennedy, nume tutelare del suddetto preppy style d’oltreoceano, a fare della scarpa un must sfoggiandola spesso e volentieri, sullo yacht al largo del New England come nel buen retiro di Martha’s Vineyard.



Tornando ai nostri giorni, si contano diverse riletture del modello, ad opera tanto di aziende specializzate nel footwear quanto di blasonate maison di lusso, a cominciare da quelle sopracitate: la Summerland di Louis Vuitton è caratterizzata dall’alternanza di vitello liscio e pelle Épi zigrinata, con lacci a tono in tessuto; Prada sceglie invece la lucentezza del pellame nero spazzolato, rafforzata dalle impunture bianche e dal tocco scarlatto ad altezza linguetta.

Per I fashionisti più audaci i mocassini Christian Louboutin sono l’opzione ideale, grazie al mix di materiali scuri -nappa e scamosciato – profilati di borchie metalliche, oltre alla firma grafica del designer, l’imprescindibile suola rossa. Di segno opposto la proposta targata Loewe, boat shoes essenziali in pelle kaki, nobilitate da lavorazioni a regola d’arte, evidenti negli intrecci a mo’ di nappina sui lacci o nelle cuciture a rilievo.

Va menzionato senz’altro uno specialista della categoria come Sebago, che per la stagione attuale rinnova le sue scarpe da barca più rappresentative collaborando con due istituzioni del casual, Baracuta e Roy Roger’s: dal primo co-branding ha origine la Portland Baracuta in suede, disponibile in tre diverse combinazioni di nuance rosse, verdi e blu, omaggio al Fraser Tartan utilizzato dal brand inglese per le fodere delle giacche; dal secondo la Portland Roy Roger’s, con tomaia sulla quale si sovrappongono nabuk dall’aspetto vissuto e tessuto denim, paradigmatico dei jeans; comuni ad entrambe sono il sistema di allacciatura a 360 gradi e la suola striata, a prova di scivolo. 



Altro nome cult per le calzature navy è Quoddy, che offre un modello senza fronzoli interamente in pelle color tabacco. Anche le boat shoes Polo Ralph Lauren e Lacoste si distinguono per la pulizia di linee e particolari: se il primo marchio sottolinea il contrasto cromatico tra camoscio indaco della parte superiore e marrone della para, il secondo preferisce la tradizionale accoppiata bianco-blu, arricchita da inserti in gomma alle estremità e dal logo del coccodrillo, impresso sul fianco.

La scarpa da barca per antonomasia rimane però la Authentic Original 2-Eye Classic di Sperry: si tratta, nomen omen, di un’iterazione di quella originaria, con due occhielli, tomaia testa di moro e stringhe in una gradazione più chiara di marrone; semplice ma d’effetto, oggi come negli anni ’30.

Dieci variazioni della bowling shirt

(Ri)apparsa in gran numero nelle sfilate maschili del 2016, la bowling shirt è tuttora oggetto di un revival modaiolo che la vede protagonista dei look per la bella stagione più rilassati e dégagé. L’identikit del capo è presto fatto: collo a V con piccoli revers ben distesi, maniche corte, abbottonatura frontale e silhouette leggermente squadrata; altri segni distintivi sono la leggerezza dei materiali – ad esempio cotone, lino, popeline o, nelle versioni di maggior pregio, texture dalla mano soffice quali seta o rayon – e la creatività di color block, righe, figure geometriche e stampe varie.

Al di là di corsi e ricorsi della moda la camicia in questione, chiamata anche cuban o camp collar shirt, vanta una storia di tutto rispetto, risalente agli anni Cinquanta, quando negli Stati Uniti iniziò a moltiplicarsi nelle sale da ballo e negli altri locali frequentati dai fan del rockabilly. Per un lungo periodo, quindi, ogni variante di camicia da bowling, in primis quella hawaiana, ha evocato soprattutto le tenute sfoggiate dai turisti nelle località più esotiche, corredate magari di cocktail, sigaro, occhiali a specchio e altri cliché dell’iconografia vacanziera; tutt’al più, ha fatto capolino in pellicole care agli appassionati di cinema come Il grande LebowskiScarface Il talento di Mr. Ripley.

MILAN, ITALY - JUNE 15: Models walk the runway at the Dolce & Gabbana fashion show during the Milan Men's Fashion Week Spring/Summer 2020 on June 15, 2019 in Milan, Italy. (Photo by Ernesto S. Ruscio/Getty Images)
PARIS, FRANCE - JUNE 19: A model walks the runway during the Valentino Menswear Spring Summer 2020 show as part of Paris Fashion Week on June 19, 2019 in Paris, France. (Photo by Pascal Le Segretain/Getty Images)

In tempi più recenti, sulla scia di quello stile dadcore all’insegna di vestibilità over, pantaloni slavati e sneakers massicce glorificato dai nuovi alfieri del menswear contemporaneo – su tutti Demna Gvasalia e Gosha Rubchinskiy -, le bowling shirt sono tornate alla ribalta. Nelle collezioni maschili per la stagione in corso sono numerose, infatti, le nuove interpretazioni di questo capo dall’animo retrò: da Valentino, Pierpaolo Piccioli lo considera una tela sulla quale sbizzarrirsi con tinte al neon, ricami, motivi floreali e fantasmagorie ideate dall’artista Roger Dean; anche Dolce&Gabbana dà libero corso alla fantasia, dispiegando sui tessuti un armamentario di frutti, piante, animali, pin-up e altri simboli di un immaginario “tropico siciliano”; un estro creativo speculare a quello di griffe quali Dsquared2, Amiri, Iceberg, Casablanca, Dries Van Noten, non ultima Prada che, effettivamente, ha reso la camicia a maniche corte un caposaldo della propria linea uomo, al punto da dare ai clienti la possibilità di personalizzarla, combinando liberamente le stampe più rappresentative del brand.

Qualsiasi selezione in materia di bowling shirt non può dunque prescindere dall’offerta della maison milanese, che quanto ad assortimento non teme confronti: si va dalle versioni basilari total white o rigate a quelle viste sulla passerella p/e 2020, con riproduzioni di walkman, videocamere e altri gadget iconici degli anni ’80. Gucci, dal canto suo, alterna il logo della doppia G a stelle, quadrifogli e altri ghirigori, evidenziando inoltre i profili con il nastro Web.
 Il modello di Bottega Veneta, in 100% viscosa, utilizza il classico binomio bianco e nero per mettere in risalto una grafica d’ispirazione tropicale, mentre Fendi trasla le suggestioni bucoliche dell’ultimo défilé su un tessuto arioso, percorso da un motivo a spirale nei toni del verde e grigio.

Se Marni sposa l’estetica naïf, espressa in una blusa quadrettata con disegni di alberi e tocchi saturi di colore, dal giallo al viola, Acne Studios gioca con dimensioni e sfumature delle righe verticali, che si stagliano su una base dalla nuance pastello. NN07 punta sull’effetto vintage, stampando paesaggi da cartolina sull’intera superficie del capo.
Le proposte di Ami e Sandro Paris seguono invece il mantra less is more, optando nel primo caso per il bianco panna, “interrotto” solamente dalla firma del designer (un cuore stilizzato sul taschino), nel secondo per l’intensità cromatica del blu navy; nemmeno COS, infine, tradisce la vocazione al minimalismo: la sua camicia immacolata in cotone organico, dal fit rilassato, è un inno all’essenzialità. 

L’eccellenza British di Smythson, dalle agende tascabili agli accessori amati da reali e celebrità

Nonostante la pervasività del digitale abbia inglobato, da anni, la scrittura a tutti i livelli, alcuni connoisseur restano devoti alla calligrafia, con la sua liturgia di agende, lettere, taccuini e altri articoli di cancelleria. Smythson è uno dei (rari) templi di questo singolare culto, un marchio e, prima ancora, uno store londinese dove la cartoleria di alta gamma trova la sua massima espressione, diventato nel corso dei suoi 133 anni di storia una realtà d’eccellenza anche nella produzione di accessori in pelle.

Un percorso iniziato nel 1887 con l’artigiano Frank Smythson, che inaugura un negozio di “cancelleria elegante e di classe” al 133 di Bond Street, la via dello shopping più elitario nel cuore di Londra. La possibilità di personalizzare la carta da lettere, incidendovi con apposite matrici parole, nomi o stemmi araldici, attira ben presto l’attenzione dell’alta società, a cominciare dalla Corona britannica.

I traguardi più significativi vengono tuttavia raggiunti all’inizio del Novecento, quando il fondatore lancia una versione particolarmente capiente e strutturata della doctor bag, un modello di borsa a mano squadrato all’epoca molto diffuso, e soprattutto l’accessorio simbolo dell’azienda, l’agenda in pelle, che rivoluziona da par suo: Smythson, infatti, ne riduce le dimensioni e lavora il pellame in modo da renderlo leggero e flessibile, preservandone al tempo stesso la robustezza; nel 1908 nasce così un modello tanto discreto da poter essere tenuto nella tasca interna della giacca o, nel caso delle signore, nel bauletto.

Il successo è immediato, nell’arco di pochi anni le agende tascabili della boutique diventano un must del jet set, conquistando famiglie reali europee, maharaja, dive della golden age hollywoodiana e altre celebrità: tra gli aficionados di Symthson si contano le attrici Vivien Leigh, Grace Kelly, Claudette Colbert e Katherine Hepburn (la star quattro volte premio Oscar possedeva due quaderni speciali, caratterizzati dalla dicitura “London California New York” e dalle iniziali puntate sulla copertina), avventurieri di fama mondiale quali Sir Ranulph Fiennes e Charles R. Burton, il padre della psicoanalisi Sigmund Freud… Per non parlare di Winston Churchill o Lady Diana.
Nel 1964 per l’insegna di Bond Street arriva il primo Royal Warrant, l’onorificenza concessa dalla monarchia alle aziende sue fornitrici da almeno un lustro, cui seguiranno altri tre sigilli reali fra gli anni ’80 e il 2002.

Nel tempo Smythson amplia ulteriormente il proprio ventaglio di proposte, che continua a ruotare intorno all’universo della scrittura e del viaggio: le borse di ogni formato, da quello mini di pochette e portadocumenti al medio e maxi di zaini, tote bag e borsoni, affiancano buste, cartelle, diari, biglietti bon voyage, ecc.

Il denominatore comune è la qualità di materiali e lavorazioni, fondamentali per realizzare accessori con tutti i crismi dell’artigianalità, pensati per una clientela sofisticata e cosmopolita, amante del lusso discreto, suggerito soltanto dai particolari: ad esempio, le impunture ton sur ton o la firma, ossia la denominazione completa del marchio – “Smythson of Bond Street, Est. 1887”-, stampigliata in piccoli caratteri dorati.

Tra le agende attuali, il modello di punta è rappresentato dalla serie Panama, evoluzione del suddetto “antenato” ideato nel 1908 da Frank Smythson, talmente iconico da venire soprannonimato, appunto, “The Panama hat of books”, in omaggio al cappello maschile più popolare d’inizio secolo. Tutti i diary e quaderni presentano comunque pagine in carta Featherweight dall’inconfondibile nuance azzurro polvere, diventata la cifra cromatica del brand insieme a quella, leggermente più scura, del Nile Blue.

Smythson è oggi presente, oltre alle dieci boutique di proprietà, in department store come Saks Fifth Avenue, Selfridges, Harrods e Le Bon Marché. Sotto la guida dall’ex chief designer officer di Burberry Luc Goidadin, arrivato a dirigere l’ufficio stile nel 2018, il marchio londinese sembra pronto ad aggiungere al suo heritage ultracentenario molte nuove pagine, ovviamente di colore azzurro. 

Le coordinate digitali del menswear in Italia secondo Lyst

Abbozzare una panoramica della moda maschile, pur limitandosi al contesto nazionale, è piuttosto complicato, di sicuro, però, le statistiche del portale Lyst rappresentano un ottimo inizio. La piattaforma britannica, infatti, fornisce con cadenza regolare l’elenco dei brand e delle tipologie di prodotto più cercati dai propri utenti, italiani compresi.

Iniziando dai marchi, la top 5, per il mese appena trascorso, vede in cima alle preferenze Off-White, seguito nell’ordine da Nike, Palm Angels, Gucci e Stone Island. Una lista che sembra certificare l’eccellente stato di salute dello streetwear: se appare scontato il primato del “solito” Virgil Abloh, dominus riconosciuto del settore, anche grazie alla direzione della linea uomo di Louis Vuitton, il secondo posto è occupato da un gigante dello sport mondiale (Nike), peraltro abituato alla collaborazione con griffe altrettanto celebri (basti nominare Supreme, Dior, Comme des Garçons, Stüssy, lo stesso Off-White, ecc).

Completa il podio Palm Angels, label profondamente influenzata dall’immaginario degli skater e, più in generale, dei giovani della West Coast americana. L’unico nome del lusso canonico, per così dire, è dunque quello di Gucci, che pure, sotto la guida di Alessandro Michele, è riuscito a rinnovare la propria estetica sui generis, nel segno del massimalismo. Leggermente diverso dai precedenti il caso di Stone Island, la cui ascesa parte da lontano, precisamente dagli anni ’80, e si intreccia alla storia di diverse sottoculture, dai paninari nostrani al brit pop, passando per i supporter delle squadre di calcio inglesi; arrivando, infine, al gotha dell’industria musicale e creativa odierna (leggi Drake o Travis Scott). A rimanere immutato, d’altro canto, è il mix di casual e sperimentalismo tecnico, imprescindibile per il marchio italiano.

Spostando il discorso sui singoli articoli, la sostanza non cambia granché: il primo posto spetta infatti all’archetipo dello streetwear, cioè la sneaker, quella bassa ad essere precisi (il modello high-top compare, invece, alla quarta voce); una calzatura ormai ubiqua, oggetto spesso di un vero e proprio culto, che meriterebbe un discorso a sé. Troviamo quindi la t-shirt, indumento trasversale quanto a gusti ed età. In terza posizione, un altro passepartout del guardaroba uomo, la giacca informale, una certezza per ogni occasione, dall’ufficio all’aperitivo (Covid-19 permettendo, ça va sans dire).

Si va sul sicuro, del resto, anche con capi quali camicia e pantalone chino, rispettivamente al quinto e sesto posto nelle preferenze degli utenti di Lyst. La lista prosegue, tanto per cambiare, con due pezzi d’impronta street: se tuttavia la felpa con cappuccio è ormai considerata una valida alternativa alla maglieria tradizionale, regolarmente presente nelle collezioni di qualsivoglia griffe, la traiettoria della ciabatta è meno lineare.

I modelli in gomma, in effetti, prima di essere sdoganati dai più temerari come alternativa a sandali e altre scarpe estive, sono rimasti a lungo confinati nell’anonimato di piscine e palestre. Negli ultimi tempi, alla fortuna delle slide ha forse contribuito la quarantena generalizzata dovuta alla pandemia, presumibilmente trascorsa indossando abiti pratici e confortevoli. Nessuna sorpresa in fondo alla classifica, dove troviamo due evergreen dell’armadio maschile, jeans e polo, rispettivamente alla nona e decima posizione.

Il binomio (vincente) moda e sostenibilità nel report 2020 di Lyst

Concetti come riciclo, ecologia, impatto ambientale, biodegradabilità e affini, entrati ormai stabilmente nel discorso pubblico, hanno un’incidenza sempre maggiore anche quando si tratta di abiti o accessori; sembra essere questo il dato saliente del Sustainability Fashion Report 2020 di Lyst, studio ad hoc pubblicato annualmente dal motore di ricerca di moda che aggrega migliaia tra retailer internazionali e brand.

I dati utilizzati dalla piattaforma, forte dei suoi 104 milioni di utenti e oltre 20 milioni di articoli caricati soltanto nell’ultimo anno, fanno riferimento alle ricerche effettuate su Lyst e Google, ai tassi di conversione e vendita, alle visualizzazioni delle pagine, tenendo presenti anche i social network e la copertura mediatica globale. L’analisi si avvale inoltre del sistema di valutazione dell’associazione Good on You, imperniato su tre principi, ossia persone, pianeta e animali.

Per quanto riguarda il menswear, il documento offre interessanti spunti di riflessione, che si tratti di griffe o specifiche categorie di prodotto. Tra le prime, una posizione di assoluto rilievo è occupata dalla francese Veja: le sue sneakers, rigorosamente eco, sono le calzature sostenibili di maggior successo su Lyst, con un aumento delle ricerche, rispetto al 2019, del 115%. In particolare le Veja Campo, bestseller del marchio, spiccano come accessorio non in pelle più gettonato dagli utenti, apprezzato in ugual misura dal pubblico maschile e femminile.

Va poi menzionato Nudie Jeans, brand svedese votato al green fin dalle origini che, tra le altre cose, garantisce alla clientela la riparazione gratuita a vita. Il modello di punta, in questo caso, è il Grim Tim Dry, un cinque tasche in denim grezzo dalla gamba affusolata.

Altra categoria decisamente popolare su Lyst è quella dei capispalla, e il nome di riferimento è senz’altro Patagonia: nell’ultimo anno si sono registrate oltre 100.000 ricerche di giacche dell’azienda di outdoor californiana, pioniera in fatto di etica e sostenibilità. Tra gli uomini è molto apprezzato il Lone Mountain Parka, un giubbotto con zip dal design basilare, proposto nelle “rassicuranti” tonalità del kaki e del verde oliva. Restando in tema outerwear, Lyst cita il designer Greg Lauren, che, lavorando su capi vintage d’ispirazione street o militare, scompone e ricompone, in modo ogni volta diverso, materiali e texture.


In termini generali, dall’inizio del 2020 l’aumento di ricerche relative alla sostenibilità è stato del 37%: soprattutto nel caso di sneakers, borse e orologi, gli utenti tendono a utilizzare termini quali “upcycled” (+42% nello scorso trimestre), “seconda mano” e “usato” (+45%). È significativa la cifra della social impression associata, nell’arco dei dodici mesi, all’espressione “slow fashion” (oltre 90 milioni), un approccio che contrappone alla bulimia produttiva dei vari Zara, H&M e simili la qualità di capi timeless, realizzati nel rispetto dell’ambiente e delle condizioni dei lavoratori.

Concentrando l’attenzione sul nostro paese, negli ultimi tre mesi la ricerca di moda riciclata ha visto un incremento del 64% e, su base regionale, i consumatori lombardi sono quelli maggiormente sensibili all’argomento. I numeri mostrano, infine, come le donne siano più ferrate in materia rispetto agli uomini: la ricerca di marchi di abbigliamento femminile sostenibile è stata superiore del 45% rispetto a quella delle controparti maschili.