RIPORTARE IDENTITÀ A PERSONE E LUOGHI ATTRAVERSO L’ARTE CONTEMPORANEA, CI PENSA MY LITTLE HOUSE

My Little House, la residenza domestica itinerante nata nel 2014 da un’idea di Fulvio Ravagnani, che lavora sulla disintermediazione dell’arte contemporanea, dopo Milano, Catania e Taranto, arriva a Rivello, un piccolo paese della Basilicata, per volontà di Paola Bressan, che mette a disposizione la sua casa, diventa mecenate di questa edizione e fa un dono bellissimo alla comunità. L’artista prescelto è Francesco Orazzini, che da anni vive in Messico. Il lavoro è iniziato dal muro esterno, dalla facciata della casa, mani colorate, simbolo di presenza, di alleanza, di comunità, molto amato dalla proprietaria, compone una scala, elemento caratteristico del paese, per poi arrampicarsi fino a una finestra ed entrare. Tra le mani si snoda il filo di un gomitolo rosso, che invita a seguire un percorso, una sorta di gioco, che intreccia storie e sguardi. Il filo invade il soggiorno della casa, e si ricompone materializzando un’ultima mano, che lascia la sua impronta, una traccia indelebile al centro del paese. Noi di Man in Town abbiamo incontrato Francesco Orazzini e gli abbiamo fatto qualche domanda:

 Francesco Orazzini @courtesy My Little House

Cosa ti ha portato a scegliere di fare un’esperienza come My little House?
La dinamica del progetto avrebbe messo il mio lavoro in una di quelle prove che sto inseguendo sempre di più, quella di uscire dalla zona di comfort dello studio e andare oltre a un atteggiamento personale e solitario,  insomma mi avrebbe  immerso in  un’azione  molto più diretta e viva  dove le persone sono  parte importante della realizzazione, e mi è piaciuta la sfida. inoltre la proposta è arrivata in un momento molto particolare, in cui cercavo di riavvicinarmi all’Italia. Creare un’opera che vivesse anche dell’intimità della mia nazione d’origine mi è sembrato emblematico.

Cosa ti ha stupito di più di questo progetto? Cosa non ti aspettavi?
E´ particolare la maniera in cui due perfetti estranei si possano incontrare e nel giro di poche ore trovarsi ad aprire i propri mondi e divenire complici di una creazione. Le persone che accettano di cimentarsi in questa esperienza sono probabilmente predisposte,  ma non è per nulla scontato in questo mondo. Poi non mi aspettavo assolutamente che il progetto finisse per abbracciare anche la strada fuori dalla casa di Paola, e che arrivasse a coinvolgere nel discorso tutti gli abitanti del luogo, con un delicato intervento nel centro storico. L’atmosfera che si è creata è stata per me incredibile.  In un certo modo mi sono sentito proiettato dal nulla in un’intimità profonda del collettivo, e questo mi ha dato molta soddisfazione.

Paola Bressan e Francesco Orazzini @courtesy My Little House

Qual è l’insegnamento più importante che ti porti via da questa esperienza?
Che in Italia i treni non funzionano benissimo, ma che comunque l’arte rimane un gran ponte, un canale attraverso il quale si possono creare molte situazioni, aprire un dialogo con/tra molta gente, coinvolgere e confrontare, farsi domande e scoprire cose. Può riportare identità a persone e a luoghi.

 

E ora che è finita, progetti per il futuro?
Mi affido come sempre a quel grosso e simpatico punto interrogativo, ma ad ogni modo torno in Messico,  dove generalmente rincorro la enorme quantità di eventi culturali che ci sono nella città, ad ascoltare,  a dare lezioni di disegno in scuole, istituti e centri culturali,  a illustrare libri,  realizzare murales per progetti sociali e continuare a fare mostre introverse, sforzandomi di riportare sempre di più il mio lavoro anche in Italia.

Murales esterno 7 @courtesy My Little House

MY LITTLE HOUSE #4: RIVELLO (BASILICATA)

Artista in residenza. Francesco Orazzini  –   www.francesco-orazzini.com
A casa di: Paola Bressan, Corso Vittorio Emanuele 16, Rivello (Basilicata)
La casa è visitabile sempre su appuntamento.

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magnus. accidental artist

cover_i’d rather be happy baron, i’d rather be happy than dignified (2017);
24 ct gold leaf, silk screen & giclÉe on 308 gsm cotton rag archival paper.

Magnus Gjoen fa parte di quella categoria di artisti che possiamo definire accidentale e soprattutto senza bisogno di attribuzioni. È nato a Londra da genitori norvegesi, cresciuto in Svizzera, Danimarca, Italia e nel Regno Unito. Ha mescolato l’estetica di strada e pop con un approccio legato alle belle arti. Gjoen ha studiato arte e design della moda e ha lavorato per marchi come Vivienne Westwood. Il suo pensiero è provocatorio e la sua arte emozionale, offre una visione moderna sui capolavori classici e trasforma oggetti potenti e forti in qualcosa di fragile, ma sempre bello.

Il tuo lavoro è piuttosto influenzato dalla storia dell’arte, come ti sei appassionato a questa materia?
La mia passione per l’arte e la storia deriva dalla mia infanzia. Sono cresciuto in luoghi diversi in tutto il mondo, ho visitato molti musei e nella mia famiglia sono avidi collezionisti d’arte. Ho studiato belle arti prima di andare a studiare design della moda, così il cerchio si è chiuso. Direi che la sete della scoperta, della bellezza e delle storie dietro ogni opera è ciò che mi ha sempre spinto.

Parliamo di questa definizione di “artista accidentale”?
Tutto è avvenuto casualmente, volevo un’opera per le pareti del mio nuovo appartamento a Londra. Non avevo intenzione di dedicarmi all’arte, ma mi guardavo intorno. Poi ho pensato “posso farlo” e così è stato.

Cosa dovrebbe emergere nel pubblico dalla visione delle tue opere?
Un’emozione. Quando si crea un’opera si desidera sempre evocare una memoria o delle emozioni che lo spettatore è in grado di associare. Può essere qualsiasi cosa, ma se non succede, hai fallito. Almeno dal mio punto di vista.

Le tue creazioni sono più provocatorie o irriverenti?
Credo entrambi. A volte mi sorprende quello che offende la gente. Non mi preme creare un lavoro che provoca, ma, piuttosto, che riesamina la norma e la bellezza associata a qualcosa. Si tratta di riscrivere cose che le persone non vogliono vedere.

Come definiresti oggi la bellezza?
La definirei come si è sempre definita: qualcosa di gradevole allo sguardo. Diverse persone hanno prospettive differenti, facendo sì che alcuni vedano la bellezza dove altri non la colgono. La bellezza è ovunque, bisogna guardare abbastanza e scegliere di volerla vedere.

5 PROGETTI DA RICORDARE DEL SALONE SATELLITE

Photo Credit: Aratani Fey

Il satellite è la culla all’interno del Salone del Mobile per le proposte degli emergenti. Forse si farà poco business, ma si ha la possibilità di ascoltare molto. Tante idee giovani per caricarsi di entusiasmo, voglia di fare, ma anche cose belle. Per celebrare i 20 anni della nascita, è esposta una collezione di progetti inediti firmati da 46 designer internazionali, che hanno partecipato alle precedenti edizioni. Noi abbiamo scelto per voi 5 nomi, con i relativi progetti che siamo sicuri risentirete presto e che hanno portato a questa edizione 2017 del Salone, la voglia di volare lontano. Primo tra tutti l’Eccentric Garden di Jiwonx Kim, designer sud coreana che realizza tappeti in seta, pieni di animali e fiori dai colori tropicali, insieme a pouf fatti di frange di lana pressati in cilindri trasparenti di acrilico, che danno l’impressione di un agglomerato di licheni iper-pop. Il designer portoghese Andrè Teoman produce un tavolo realizzato a partire dal gioco del caleidoscopio e un tappeto che racconta delle tradizioni legate al detto “del maiale non si butta via niente”, per riportare all’attenzione delle nuove generazioni usanze cadute in disuso, attraverso oggetti comuni e quotidiani come un tavolo e un tappeto. Aratani e Fay sono uno studio di Detroit costituito da Ayako Aratani and Evan Fay. Il loro focus è la sperimentazione su forme irregolari per oggetti domestici. Ci siamo innamorati della loro panca attorcigliata. Sono da avere assolutamente gli oggetti reversibili di Elina Ulvio della serie Lampi, specchi da appendere, che si trasformano in vassoi. E infine Riflessi, il lavoro della veronese Camilla Brunelli su un prodotto tipicamente italiano: la pastina. Ovvero mattonelle in graniglia i cui sassolini sono sottilissimi. Si utilizza infatti solo la polvere del marmo. La pastina è un materiale levigabile in opera, questa particolare caratteristica permette di ottenere l’effetto lastra unica. Camilla inserisce dei dischi di vetro per creare un effetto più leggero adatto sia a interni, sia a esterni.

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INDEPENDENT PUBLISHING

Un passato importante nel settore dell’editoria – ex Direttore Generale libri Trade del gruppo Mondadori e CEO di Einaudi, per dirne una – Riccardo Cavallero ha fondato nel 2016 SEM (Società Editrice Milanese). Come primo libro pubblicheranno un inedito di Federico Fellini, L’Olimpo. Il racconto delle passioni erotiche e drammatiche degli Dei, un’occasione per ripercorrere gli archetipi della nostra immaginazione in modo onirico e pungente, come solo lui sapeva fare, uno dei più grandi narratori del secolo scorso. Adesso, però, è il caso di soffermarsi sulle parole dell’Editore.

Parliamo di follia. La scelta di aprire una casa editrice nel 2016, quanto è folle?
In un mondo dove la parola innovazione è la chiave di tutto, l’editoria libraria è rimasta essenzialmente invariata da Gutenberg in poi. Anche il processo di creazione di un libro non è cambiato. Dopo 25 anni di esperienza internazionale (Stati Uniti, Spagna/ Sudamerica e Italia) con l’amico Mario Rossetti – socio Fondatore di Fastweb e innovatore di vocazione – abbiamo deciso di provare a cambiare un po’ le regole del gioco. Struttura snella, professionalità solide e propensione all’editoria sartoriale. I libri sono trattati nella loro individualità, come prodotti unici. Spariscono le collane e l’omologazione dei formati in base a logiche corporate. L’unico brand che ci interessa è l’autore e la qualità delle sue storie. Non a caso abbiamo scelto un nome retrò e “trasparente” come Società Editrice Milanese. Per comunicare noi stessi non spendiamo neanche un euro. Investiamo in tecnologia e attenzione al servizio, invece. Per esempio, siamo i primi in Italia (e tra i primi al mondo) a offrire al lettore la versione digitale e-book e quella audio comprese nel prezzo dell’edizione cartacea. Vendiamo storie, e un lettore deve essere libero di decidere come accedere a esse.

È il caso di puntualizzare cosa si intende per Editore. Che professione è oggi?
Fino all’avvento del digitale l’editore era, nel bene e nel male, colui che decideva cosa si sarebbe o non si sarebbe letto. Adesso questo non è più pensabile, la letteratura oggi è sicuramente più democratica e disintermediata, ma ci sono in giro moltissimi libri di livello infimo, in quanto la tipologia del business editoriale non consente più la cura e i tempi editoriali necessari per ottenere una qualità soddisfacente. Non sto parlando solo di alta letteratura, ma anche di progetti più popolari. Noi vogliamo riportare al centro del processo la figura dell’editore. Non è un’operazione nostalgica, è una scelta anche di business lungimirante. L’editore deve essere il braccio destro dell’autore, il suo coach non il suo aguzzino.

C’è un incontro, un momento o un fatto, che ti ha segnato e indirizzato verso questa realtà?
È stato tutto abbastanza casuale. Mi occupavo di finanza, merger&acquisition. Poi, avevo circa 30 anni, sono entrato in Mondadori come Direttore Marketing. Io parlavo di libro come “prodotto” mandando in bestia molti dei miei colleghi. Mi davano del selvaggio, ma poi c’è stato il click . Quando mi hanno cercato per un altro lavoro, ho realizzato in un secondo che fare l’editore è il più bel mestiere del mondo e che volevo restare in un settore arcaico, ma affascinante. È un mestiere difficilissimo, totalizzante ed ad alto contenuto di stress. C’è una alchimia strana che non ho riscontrato in nessun altro settore. Certo, avere come controparte Ken Follet, Vargas Llosa o Nicolò Ammanniti aiuta a giustificare gli sforzi che si fanno nel quotidiano.

 A cosa serve leggere?
Serve ad avere uno sguardo più ampio sul mondo e a non avere paura. Serve a riconoscere punti di vista diversi dal nostro. Serve a non fermarsi, a non smettere mai di modificarsi e di imparare.

C’è una ricetta per capire se un libro è “buono”?
È molto complicata e cambia tutti i giorni. Mille ingredienti e neanche una bilancia per pesarli. Solo l’esperienza, il fiuto e un po’ di fortuna.

Come è stato scovato questo inedito di Fellini, che uscirà a fine gennaio?
Il nostro Direttore Editoriale, Antonio Riccardi, ha collaborato per molto tempo con Rosita Copioli, curatrice del testo, una delle studiose più affermate del Maestro Fellini. È stata un’operazione molto complicata, ma siamo fieri e orgogliosi di dare il via alle nostre pubblicazioni con un testo di questo spessore. Pensate che nell’idea di Fellini, il testo doveva contenere in nuce un soggetto per una serie TV. Questo quarant’anni prima del fenomeno Netflix. A proposito di attualità.

Se dico stile ed eleganza, a cosa pensi?
Penso alla cerimonia del Nobel dell’82 e alla meravigliosa guayabera bianca di Gabriel Garcia Marquez, di cui ho avuto la fortuna di essere amico ed editore durante i miei anni spagnoli. Una persona mite e dolcissima, di una semplicità disarmante, per niente divo, ma con una stile inconfondibile sulla pagina scritta come nella vita. Era elegantissimo, pur non essendo affatto un adone. Gabo era Gabo perché non doveva dimostrare niente a nessuno. Quando è mancato non ho esitato a farmi 20 ore di aereo in tre giorni per andare al suo funerale. Unico.

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Jonathan Anderson – Il valore dell’artigianalità

Forse non tutti sanno che, nel 1988 Enrique Loewe Lynch, membro di quarta generazione della famiglia LOEWE, ha fondato la fondazione omonima, per promuovere prima di tutto l’arte, ma anche programmi educativi, poesia, danza, design, artigianato, fotografia e architettura. Oggi, sotto la direzione della figlia Sheila Loewe, la fondazione ancora lavora nella stessa direzione. Nel 2015 la fondazione partecipa per la prima volta ad Art Basel Miami con Chance Encounters, un progetto curato dal direttore creativo di LOEWE, Jonathan Anderson nel negozio situato nel Miami Design District. La mostra ha abbracciato la bellezza dirompente dell’incontro casuale, la creazione di conversazioni inaspettate tra il lavoro di quattro importanti artisti britannici storici e contemporanei: Anthea Hamilton, Paul Nash, Lucie Rie e Rose Wylie. Mentre durante PHotoEspaña 2016, la fondazione ha organizzato anche una mostra sul lavoro di Lucia Moholy, una delle pioniere della fotografia modernista. Nel 2016 la Fondazione lancia il LOEWE Craft Prize, un premio internazionale per l’eccellenza nei mestieri che mostrano ambizione artistica e innovazione. Il premio si propone di dare un riconoscimento internazionale a coloro che saranno in grado di produrre opere eccezionali che resteranno nella memoria. Finalmente una casa di moda ha deciso di spostare l’attenzione della sua ricerca culturale sulle esplorazioni artigianali, lasciando un territorio non sempre confacente come l’arte contemporanea. Abbiamo incontrato il direttore creativo Jonathan Anderson per farci raccontare più approfonditamente il perché di questa decisione.

Perché hai scelto l’artigianato come focus di questo nuovo premio?
Come casa di lusso, anche noi siamo artigiani nel senso più puro del termine. Quindi ha senso che Loewe riconosca i migliori artigiani nei loro campi. L’artigianalità è l’essenza della Loewe.

Qual è la correlazione tra questa scelta e il corso che Loewe sta prendendo?
Vedo Loewe come una realtà con un paesaggio culturale più ampio rispetto a un semplice marchio di moda. Non è solo l’abbigliamento, è arte, artigianato e collaborazione con diversi artisti. Loewe ha gli artigiani più sorprendenti e un patrimonio meraviglioso. Senza di loro, non avremmo mai potuto realizzare le borse stupefacenti che stiamo producendo.

Ora parliamo di futuro, in che direzione sta andando il design?
La moda è sempre un punto di riferimento per la cultura, credo che non si tratti solo di questo però, si tratta di come vive la gente al giorno d’oggi. Per me, si parla di vendere una esperienza alle persone, penso che vogliano sentirsi coinvolti nel processo, devono imparare o vedere qualcosa.

Come si fa a gestire l’innovazione e la tradizione allo stesso tempo nell’artigianato?
L’artigianato è immensamente importante per me come fonte di ispirazione. Ho voluto creare una piattaforma per mettere in evidenza quei manufatti che sono progettati e realizzati a mano, da parte di persone che lavorano in silenzio e spesso sottovalutate. In realtà, non c’è niente di più difficile che trovare un modo per rendere un oggetto che ha una formula propria e parla però la lingua del produttore, creando così un dialogo che prima non esisteva.

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