Man in skirt |la gonna della “discordia”|

Lunga, corta, nella foggia di tunica, saio, chitone o toga, la gonna maschile è stato il capo privilegiato da popoli, civiltà, tribù, re e guerrieri. Ha padroneggiato nei templi, nelle corti, nelle agorà e sui campi di battaglia.

Ma al grido di “libertè, egalitè, fraternitè”, nel 1786, il pantalone diventa la bandiera dei rivoluzionari e la gonna viene messa definitivamente alla “gogna”.

Nel moderno Occidente, culla delle democratiche libertà, è ancora socialmente sconveniente per l’uomo indossare la gonna, indumento relegato all’immaginario femminile e sinonimo di scarsa virilità.

Ma la faccenda, a prima vista lapalissiana, diventa machiavellica a una seconda lettura. Che per dirla riadattando una frase di “Match Point”, è incredibile come cambiano i punti di vista se il giudizio scivola da una prospettiva ad un’altra.

Pensiamo al kilt. Il principe Carlo, Sean Connery, Ewan McGregor o Gerlad Butler vestiti di tutto punto con tanto di kilt e calze al ginocchio fanno molto “William Wallace”, temerari e tenebrosi, perché da orgoglio patriottico “It’s a kilt, not a skirt”.

Non me ne vorranno gli scozzesi, ma il gonnellino tartan, simbolo tradizionale della terra delle Highlands non si discosta molto, al pari di quello femminile, da un pezzo di stoffa arrotolato intorno alla vita. Ma sconfinando dall’amor di patria, tranne se non sei Axl Rose o Lenny Kravitz dei bei tempi, non di rado, ma difficilmente avremo come vicino di casa un kilted man. Ma il cortocircuito è geo-temporale.

Se pensiamo ai Masai avvolti nei loro sgargianti drappi colorati (lo Shuka) e agghindati con monili di perline e fili di ferro la prima cosa che ci verrà in mente non sarà di certo l’immagine di una tribù di femminei uomini in gonnella, ma tutt’altro, di guerrieri, cacciatori ed abili combattenti. Il nostro “alibi” è il retaggio culturale che veste un popolo dei suoi costumi ma che, trattandosi di una tradizione autoctona, non attecchirebbe sui non “figli della Savana”.

Così come, da utopistici quali erano, per gli hippie la gonna incarnava a giusta ragione l’immagine di una futura società senza diversità di genere; per i punk, nel loro essere ribelli, era un simbolo di disprezzo verso gli schemi e i modelli imposti dalla società; David Bowie, in quanto incarnazione dell’eccessivo glam rock, sfoggiando pellicce bianche, lustrini, piume, zatteroni e gonne, negava l’abito come espressione della personalità.

Nel 1984 si gridò allo scandalo quando l’irriverente Jean Paul Gaultier debuttò con la sua prima collezione maschile “L’uomo-oggetto”, mettendo in discussione i clichè dell’abbigliamento e vestendo l’uomo ruvido e macho con gonne, maglioni scollati e t-shirt da marinaio con la schiena scoperta. Ma poi a ben pensarci è moda.

Così come se Joaquín Cortés balla in gonna è arte, se Billy Porter si presenta agli Oscar con un’ampia gonna nera è spettacolo, se l’uniforme maschile della Flotta Astrale di Star Trek è un mini-abito, lo Skant, allora è fantascienza. Tirando le somme, nella società odierna l’accettazione dell’uomo in gonna (o il suo rifiuto) è legata essenzialmente a fattori storico-culturali, ambientali, religiosi, etici e creativi, laddove viene meno la “giustificazione” del suo essere indossata, il naso inizia ad arricciarsi.

La sua decontestualizzazione porta all’ilarità, al disagio o alla diffidenza. Se chiediamo ad uomo di indossare una gonna “rimarrà pietrificato all’idea di sembrare effeminato”, come ha ben scritto su TheGuardian la giornalista Arwa Mahdawi. In un Occidente che l’ha consacrata icona di femminilità, non è ancora arrivato il momento per la cultura maschilista di accoglierla nel suo guardaroba.

Un giorno, forse, si realizzerà la speranza idealistica di David Hall “dare all’uomo più libertà senza inutili stravaganze, ma senza piatto conformismo”. Dall’altro canto anche quando Elizabeth Smith Miller, la prima donna ad indossare i calzoni nel 1851, si presentò in pubblico con ampi pantaloni alla turca fu colpita con verdure e palle di neve, insultata dagli uomini e accusata di oltraggio alla decenza.

La gavetta è stata lunga, ma oggi finalmente anche una donna in pantaloni può dare di sé un’immagine di forza, potere e carriera. Magari, in un futuro prossimo, lo sarà anche per l’uomo con indosso una gonna. 

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