Pausa caffè con DADAˈ: la cantante si racconta in occasione del nuovo singolo “Doce Doce”

Un grande amore per la musica in tutte le sue sfaccettature, un percorso atipico comprensivo di un’esperienza negli studi di X Factor e un flusso creativo che scaturisce da ogni sua mossa. Gaia Eleonora Cipollaro nasce a Napoli nel 1995, e il suo nome d’arte DADAˈ parla di lei più di quanto si possa immaginare.

DADAˈ
DADAˈ, ph. Danijel Cvijic

Chi è DADAˈ, l’artista napoletana dietro la collaborazione con Caffè Kimbo

«Non sono fatta per le regole, ho bisogno di sentirmi libera di scegliere. Soffro di discalculia, per cui il concetto stesso di regola per me è sempre stato diverso, in qualche modo. Ho dovuto trovare delle mie logiche per riuscire a formarmi al meglio e come potevo».

Il nome DADAˈ si rifà alla corrente artistica appartenente alle cosiddette Avanguardie Storiche diffuse in Europa nel primo Novecento. Rompere le regole e uscire da ogni schema precostituito è il fulcro del dadaismo e nel caso di Gaia un reminder alla persona e artista che è. «L’accento finale lo vedo come una porticina, che per me è sempre aperta verso tutto quello che voglio e posso essere».

Innamorata di arte, letteratura e, ovviamente, musica, DADAˈ sta studiando psicologia all’università per imparare a conoscersi meglio, comprendere maggiormente il proprio mondo e quello artistico, con tutte le sfumature più occulte e umane che li caratterizzano.

In occasione dell’uscita del suo nuovo singolo Doce Doce, realizzato in collaborazione con Kimbo, l’artista si racconta.

«La curiosità mi ha spinta a seguire chi già svolgeva questo mestiere, per apprendere dal vivo quanto più potessi»

Sei sempre stata appassionata di musica? Qual è stato il percorso che hai affrontato per giungere al punto in cui ti ritrovi oggi?

Sono partita dalla musica classica, in quanto volevo fare la concertista (ride a ripensarci, ndr) quindi ho studiato per 7 anni chitarra classica (acustica?) e intorno agli 11 anni ho cominciato a scrivere canzoni. L’uso della parola per creare testi, questi racconti hanno preso un po’ il sopravvento sulla musica e con grande sorpresa della mia insegnante ho abbandonato gli studi di chitarra per dedicarmi al canto e all’armonia moderna. Dieci anni dopo ho lasciato anche quelli in quanto mi sentivo limitata, percepivo una certa forma di chiusura nell’approccio adottato dai vari insegnanti, una geometria che per me era troppo ostica.

Ho sempre provato ad assecondare il mio istinto, avvicinandomi ad altri generi musicali in modo amatoriale. Per un periodo, ad esempio, mi sono imposta di ascoltare per un mese solamente musica jazz, quello dopo solo rock e così via. Dalla musica classica al folk, dal cantautorato italiano a quello inglese. Come dico sempre: “dai Dream Theater a Peppino di Capri”. Questa curiosità mi ha spinta a seguire chi già svolgeva questo mestiere, per apprendere dal vivo quanto più potessi. Mi sono circondata di cantanti e musicisti più grandi, che seguivo ai concerti e alle esibizioni in giro per l’Italia. Il tutto in modo un po’ caotico se vogliamo, avevo 16 anni e nessuna idea precisa di dove volessi arrivare.

In questo modo però ho iniziato a suonare in apertura per qualche artista underground o per strada, giusto per sperimentare e per orientarmi su cosa mi piacesse maggiormente. Ho scritto molto, in italiano, in inglese e poi in napoletano. Infine, durante il lockdown ho cominciato a produrre al pc con i vari programmi e software che avevo a disposizione, dando vita a nuovi brani. Sempre per gioco, in modo istintuale, ma così mi sono accorta che ero giunta a un punto di sintesi dei miei percorsi, un momento in cui tutto ciò che avevo imparato stava fluendo in un’unica direzione. Un giorno ho deciso di inviare un brano al produttore Big Fish, che conoscevo, per chiedergli un feedback. Dopo 15 minuti mi aveva già comunicato che il giorno seguente mi aspettavano per firmare, perché il pezzo era fortissimo.

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DADAˈ, ph. Danijel Cvijic

«Con la mia voce non tento di veicolare messaggi, ma piuttosto narrazioni dal respiro universale»

La tua musica fonde in modo inedito il dialetto napoletano e un mix di generi musicali attraverso sperimentazioni sonore uniche nel panorama musicale italiano odierno. Dietro queste scelte artistiche, quella della lingua in particolare, c’è un’intenzione “educativa”, ossia di diffusione della cultura e tradizioni partenopee sotto una nuova luce?

Non proprio e anzi credo sia giusto fare chiarezza su questo punto: tendenzialmente si presume che chi canta in napoletano si voglia fare portatore delle proprie tradizioni, ma è più che altro uno stereotipo. Certo, nel momento in cui si canta in napoletano ci si pone in qualche modo al centro di Napoli, si incarna automaticamente tutto ciò che la città è agli occhi del mondo.

Io però mi reputo una cantastorie, i testi dei miei racconti non hanno a che fare necessariamente con Napoli, se non per alcune espressioni e modi di dire che sono tipici della lingua e quindi della tradizione. Con la mia voce non tento di veicolare messaggi, ma piuttosto narrazioni dal respiro universale. Allo stesso tempo non credo che la musica napoletana, come genere in sé, abbia bisogno di essere raccontata, dal momento che la musica italiana intesa come musica leggera si è sviluppata da alcuni brani della canzone napoletana ottocentesca. Sicuramente oggi c’è una nuova apertura verso la musica partenopea, ascoltarla va di moda, ed è bello perché ciò porterà sicuramente alla nascita di nuovi spunti nella storia della musica.

Invece la scelta di adottare diversi mix sonori e di generi da dove nasce?

È qualcosa che non ho propriamente scelto, non si tratta di sperimentazioni strategiche o programmate. Anzi, si tratta di una caratteristica della mia musica che mi hanno fatto notare da fuori e che mi rende molto felice, anche perché ognuno ne percepisce una sfumatura diversa e trovo sia bellissimo così. Voglio che la mia arte sia un’esperienza aperta più che una corrente ben definita. È un prolungamento del mio carattere, sono fatta in questo modo anche io, non mi piace incasellarmi o etichettarmi in modo preciso, preferisco seguire ciò che mi fa stare bene. Sia nella vita che, di conseguenza, nella mia musica.

DADAˈ
DADAˈ, ph. Danijel Cvijic

«Dirigo tutti gli aspetti dei miei progetti musicali e visivi, dai costumi, al make-up, dalla produzione alle riprese»

Nel 2023 è uscito Mammarella, il tuo primo EP, che contiene brani inediti e cover rivisitate. Come ha segnato il tuo percorso questo progetto, sia in termini di carriera che di vita?

Anche nel caso di Mammarella ho messo insieme una serie di racconti. Sono partita da brani già esistenti che ho totalmente capovolto, comeVerd Mín” che proviene da un brano in lingua celtica, oppure ne ho creati di inediti. È l’esempio di “Tir Tir”, che parla di una sirena pescata dai marinai: a Napoli, Partenope è la sirena “possente” che ha dato vita alla città e la possiede. Io invece canto del lato più umano e fragile di Partenope, rivendendomi in lei nella sofferenza causata dall’essere rimasta impigliata nella rete. Mi rendo conto che il binomio libertà e identità è qualcosa che sento fortemente e che torna sempre nei miei brani, senza che io lo voglia necessariamente. È un po’ il fulcro della mia poetica.

Sono rimasta molto contenta dalla resa dell’EP perché è stato ben accolto dal pubblico, sia per la trovata di far uscire una canzone a settimana, sia per l’aspetto visual. Anche il tour è andato benissimo e le 50 date estive che ho affrontato mi hanno aiutato a capire quali sono i miei limiti e a riscoprire la mia resistenza. È stato l’ennesimo piccolo-grande passo che mi ha insegnato tanto e mi piace l’idea di imparare direttamente sul palco, attraverso esperienze del genere. È un approccio che mi dà modo di vivere lentamente in tutte le mie forme creative. Dirigo tutti gli aspetti dei miei progetti musicali e visivi, dai costumi, al make-up, dalla produzione alle riprese.

In riferimento a questo tuo ruolo di direttrice creativa, le scelte estetiche dietro i tuoi videoclip sono precise e li rendono impattanti, energici, teatrali. Concorrono a imprimere nell’immaginario di chi ascolta quelle narrazioni di cui parlavi poco fa. Da dove deriva quest’altra sfaccettatura di DADAˈ?  

Fin da bambina ho sempre amato esprimere la mia creatività in diversi modi, dalla pittura alla scrittura ai lavoretti-bricolage. Quindi avere la direzione artistica dei miei progetti è un sogno che si avvera. Stancante (ride, ndr), ma ne vale la pena. La musica per me è forse la parte “più facile”, nel senso che è quella che riesco ad avere per prima sotto gli occhi. Per me, infatti, la musica viaggia per immagini, forse un retaggio della cultura partenopea dove ci sono parole che racchiudono tantissimi significati e immagini diverse (tipo i kanji giapponesi). Ho diari e taccuini pieni zeppi di appunti per questo motivo e la testa perennemente affollata da immagini, parole e idee. Talvolta i membri del mio team devono chiedermi di calmarmi e concentrarmi su una cosa alla volta.

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DADA’, ph. Danijel Cvijic

«Il caffè è il portale verso quest’altro mondo, in Italia è il simbolo dell’incontro per eccellenza e di conseguenza, perché no, dell’incontro con se stessi»

Oggi è uscito il tuo nuovo singolo “Doce Doce”, brano di cui hai curato anche la produzione e che rielabora lo storico jingle del Caffè Kimbo nel ritornello. Raccontaci come sono nati il singolo e il relativo videoclip.

Anche in questo caso ho seguito la direzione artistica del progetto a 360°, dalla musica al testo, fino alla cura di ogni dettaglio del videoclip. Una grande responsabilità! Di nuovo, il brano è nato insieme alle immagini, quindi sono strettamente collegati l’uno all’altro. Mi è stato chiesto di rielaborare il jingle di Kimbo e in automatico l’ho ricucito su un brano a cui fatalità stavo lavorando in quel periodo. È difficile da spiegare, ma è come se tutto si fosse allineato perfettamente a livello astrologico o energetico. Per i costumi e i set di scena sono stata affiancata da Daria D’Ambrosio, una bravissima fashion designer campana.

Doce Doce (ossia “Dolce Dolce”) gira intorno al tema della noia e del piacere: la pausa caffè è un momento di piacere che ci concediamo. Un rituale con cui, attraverso un gesto molto semplice, dedichiamo del tempo a noi stessi e stacchiamo dal tran-tran quotidiano. La noia in questo caso si riferisce all’avere a disposizione una gran quantità di tempo. Come ci accadeva da bambini, quando le opportunità erano infinite e ciascuno poteva impiegare le ore come meglio credeva. È noia intesa come possibilità di scelta, e quindi di sfogo creativo.

Ecco perché nel video viene mostrata una madre che, mentre lava il figlio piccolo, fantastica su tutto quello che potrebbe sperimentare se avesse del tempo tutto per sé. C’è una forte connotazione ironica ovviamente, ma il messaggio è vedere la bellezza che sta nella libertà di immaginarsi chiunque e dovunque; anche quando nel quotidiano occupiamo ruoli predefiniti o siamo inseriti in schemi rigidi. Il caffè è il portale verso quest’altro mondo, in Italia è il simbolo dell’incontro per eccellenza e di conseguenza, perché no, dell’incontro con se stessi.

«Nelle 50 date del tour ho imparato che stare da sola sul palco forse non fa per me… accompagnata dai musicisti sarà per me un nuovo capitolo, in cui potrò srotolare una nuova serie di possibilità»

Stasera ti aspetta uno showcase per il lancio del nuovo brano al Museo Madre di Napoli. Si tratta di una performance dal vivo riservata a 100 fan e agli addetti ai lavori, dove presenterai anche il videoclip, le foto e i materiali di scena. Ci si saranno anche altre sorprese sonore realizzate proprio per la collaborazione con Kimbo, ispirate al mondo musicale del caffè.

Il 26 gennaio invece ti esibirai col nuovo brano all’Auditorium Porta del Parco di Bagnoli di Napoli, dove presenterai per la prima volta al pubblico la tua nuova formazione live con band. Come ti senti e cosa ti aspetti?

Sono molto contenta, la presentazione di stasera sarà pazzesca ed è bello coronare questa collaborazione con Kimbo con un evento del genere. Sarà un momento di gioco, ma anche artistico-espositivo: con Daria D’Ambrosio abbiamo creato queste scenografie giganti, a forma di cucchiaio e tanto altro, non vedo l’ora.

Il 26 invece sarà il primo live in cui sarò in band: come ti dicevo prima, è un altro momento formativo e di piacere per me stessa. Nelle 50 date del tour ho imparato che stare da sola sul palco forse non fa per me, mi piacerebbe vivere il contatto con il pubblico e l’esperienza del palco senza dover gestire macchine o altro. Accompagnata dai musicisti sarà per me un nuovo capitolo, in cui potrò srotolare una nuova serie di possibilità.

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