Blue & Lonesome, i Rolling Stones sono più blues che mai

Gli Stones sono tornati e lo fanno nel loro unico stile. L’album “Blue & Lonesome”, uscito a inizio dicembre, arriva a distanza di undici anni dall’ultimo lavoro in studio, “A Bigger Bang” del 2005, ed è un ritorno alle origini. O meglio, un viaggio nel blues.
12 tracce di grandi classici rivisitati in chiave Rolling Stones, come a dire: “Ehi blues, ti ricordi di quando giovani e scapestrati ti suonavamo in quell’appartamento di Chelsea? Non ci sfuggi”. Infatti, il richiamo presente in tutto il disco è a quegli inizi degli anni ’60, quando macinavano concerti nei pub londinesi, Brian Jones era ancora tra noi e si consumavano le orecchie ascoltando Muddy Waters o Eddie Taylor.
Per questo viaggio nel tempo di 45 minuti di puro, autentico blues, gli Stones hanno scomodato persino Eric Clapton, che suona la chitarra in “Everybody Knows About My Good Thing” (cover del brano di Little Johnny Taylor). Il suono è la prima cosa che colpisce. I riff di Richards sono quanto mai graffianti, la voce di Mick perfetta e potente; da incanto l’assolo di armonica in “All of your love”.
Sembra un disco che arriva da un’altra polverosa epoca, ma è quanto mai attuale, ripulito dall’anima povera e intrisa di dolore tipica della musica blues. Gli Stones hanno rivitalizzato il genere dandogli una svolta sexy, ammiccante, spregiudicata come nel video del primo singolo estratto, “Ride ‘Em On Down” – versione originale di Eddie Taylor – con protagonista Kristen Stewart. Arrogante e bad girl, la Stewart scorrazza per le strade di un’assolata Los Angeles a bordo di una vecchia Mustang blu, fregandosene di tutto e di tutti, compreso un poliziotto che prova a fermarla. In sottofondo partono in contemporanea il rullo di Charlie Watss e il riff di Richards, con la voce di Jagger che aggiunge quel tocco in più che fa venir voglia di ballare.
Quindi, lunga vita ai Rolling Stones e al blue,s che è più vivo e rotolante che mai e la band lo ha capito, come in altre occasioni, prima degli altri.

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Musica e moda, tre artisti a cui ispirarsi

Blood Orange
Inclassificabile, geniale, inimitabile nello stile e nella musica, Devontè Hynes, nome di battesimo di Blood Orange, è un concentrato di pura arte. Nato a Londra da genitori della Sierra Leone, il padre, e della Guyana, la madre, è un intellettuale, legge anche 5 libri contemporaneamente, ha conosciuto il jazz da Eric Dolphy, abita nell’East Village e rifiuta qualsiasi etichetta. Non definitelo indie, perciò, vintage o qualsiasi altro aggettivo possa venirvi in mente, perché, forse, è impossibile. “Spesso mi metto vestiti da donna” ha confessato, alternando con disinvoltura skinny jeans a corte T-shirt anni ’80, che lasciano intravedere l’ombelico. Adora i cappelli – da quelli in pelle nere stile Black Panthers ai cappellini da baseball – e gli occhiali da sole, rigorosamente vintage. Si veste di pelle, giacche e pantaloni, ma anche con jeans, salopette, magliette basic o colorate, camice dal sapore rétro. Freetown Sound suo terzo album in studio uscito questa estate, ha ricevuto gli elogi della critica ed è una combinazione perfetta di sintetizzatori anni ’80, r’n’b e suoni caraibici. Un mix apparentemente scollegato, ma che come il suo senso estetico, dà vita ad uno stile particolarissimo ed unico.
Benjamin Clementine
Completamente diverso invece il percorso artistico di un altro musicista inglese. Benjamin Clementine abbandona Londra ancora adolescente per trasferirsi a Parigi dove comincia a suonare ovunque, nelle piazze, in metropolitana, nei bar parigini, ai matrimoni. Questa vita dura per quattro anni, finché non viene scoperto da un talent scout. Storia già sentita, se non che, in questo caso, ci troviamo davanti a un talento cristallino e non a una delle sempre più frequenti apparizioni di artisti destinate a durare il tempo del singolo di turno. Il suo brano del 2013, I Won’t Complain, è stato recentemente scelto per lo spot del profumo Mr. Burberry e Clementine, altissimo, molto magro e con una grazia innata, è diventato un’icona di stile. Taglio di capelli squadrato all’insù, Benjamin ama i lunghi cappotti dalle forme classiche, i pantaloni sartoriali, le maglie girocollo; mentre le camice sono minimal e abbottonate fino al collo. Uno stile british con una piccola eccezione: suona scalzo, a contatto con la terra, semplicemente perché così, “sto da dio”. At Least For Now è uno degli album più intensi dello scorso anno, romantico, impulsivo, elegante, sembra quasi che Leonard Cohen abbia incontrato Chopin. Classe ’88, voce da tenore e autodidatta, suona pianoforte, “lo comprò mio fratello, era un piano verticale Yamaha”, sax e chitarra.
Chet Faker
Più precisamente l’ex Chet Faker, dal momento che quest’anno ha deciso di tornare ad usare il suo nome di battesimo, Nick Murphy. Comunque lo vogliate chiamare, questo ragazzone australiano, diventato famoso nel 2013 con la cover di No Diggity dei Blackstreet, è la quint’essenza dello stile hipster. Barba folta, cappellino di lana, T-shirt stropicciata, lo stile all’apparenza casuale si bilancia con il suo sound chill-wave che richiama James Blake o i Four Tet. Polistrumentista dalla voce avvolgente e a tratti straziante, si è imposto sulla scena indie australiana grazie all’album Built on grass, del 2014. Il passaggio di quest’anno al nuovo lavoro come Nick Murphy, con il singolo Fear Less, è una svolta verso influenze elettroniche. Nonostante non gli piaccia particolarmente essere definito artista hipster, gli elementi di genere continuano ad essere ben presenti: capello lungo, barba, camicia a quadri (accompagnata dalla t-shirt trasandata), zaino e stivaletto. Un personaggio da cui prendere ispirazione in questa parte finale dell’anno, da ascoltare magari mangiando cioccolato.

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Fotografia d’autunno

Vivian Maier

Se a primavera fioriscono le rose si potrebbe quasi dire che d’autunno fioriscono le mostre. Di fotografia. Nella stagione del foliage vanno in scena, nel Bel Paese, tre esposizioni tra le più interessanti in circolazione, assolutamente da visitare durante una gita fuori porta o un lungo weekend.

Vivian Maier: Nelle sue mani
All’Arengario di Monza arriva Vivian Maier, la fotografa bambinaia che ha rivoluzionato il concetto di street photography. La rassegna, visitabile fino all’8 gennaio, seleziona oltre 100 scatti tra le migliaia che ci ha lasciato in eredità questa vorace, ma fino alla sua morte sconosciuta, artista, molte delle quali finora mai esposte in Italia. Dalle immagini in bianco e nero a quelle a colori, passando per le pellicole 8mm, Maier indaga tra le vite che passano e si muovono intorno a lei, con un occhio attento e uno spirito curioso. Per saperne di più sull’esistenza della tata americana c’è il documentario, Alla ricerca di Vivian Maier, realizzato da John Maloof, agente immobiliare che comprò casualmente 120 mila negativi andati all’asta a causa delle gravi difficoltà economiche in cui versava la fotografa prima della morte.
www.arengariomonzafoto.wordpress.com

Henri Cartier Bresson – Fotografo
Sempre a Monza, alla Villa Reale, arriva uno dei più grandi maestri della fotografia, Henri Cartier Bresson. 140 scatti che ripercorrono la sua arte, capace di cogliere la contemporaneità delle cose e della vita. “Fotografare è trattenere il respiro quando tutte le nostre facoltà di percezione convergono davanti alla realtà che fugge – spiegava il Maestro – In quell’istante, la cattura dell’immagine si rivela un grande piacere fisico e intellettuale”.
La mostra sarà aperta fino al 26 febbraio 2017.

Rodrigo Pais – Abitare a Roma, in periferia
Il fotografo italiano Rodrigo Pais analizza la capitale italiana, testimoniando non solo un periodo storico dal punto di vista dello sviluppo urbano, ma analizzandolo nelle trame più sottili. La sua fotografia, realizzata con Leica o Rolleiflex, è la rappresentazione di una realtà cruda e diretta, che restituisce all’osservatore l’identità di una città che si trova nei volti della gente, nei luoghi e nei paesaggi in cui abitano. L’esibizione è organizzata in tre sezioni. La prima, affidata all’architetto Stefano D’Amico, ricostruisce lo sviluppo edilizio pubblico e privato, con i suoi difetti e pregi, a partire dagli anni ’50, con il Piano INA-CASA. La seconda, illustra le lotte per il diritto alla casa di una popolazione emarginata, in una situazione abitativa costituita da baracche precarie realizzate con materiali di fortuna, fino ad arrivare ai movimenti più consapevoli e organizzati da enti come il Sunia. La terza sezione è riferita al sociologo Franco Ferrarotti che, fin dagli anni ’70, si è occupato delle periferie di Roma, andando ad abitare per un certo periodo in una baracca al Borghetto Latino.
Museo di Trastevere fino al 13 novembre 2016
www.museodiromatrastevere.it

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I KINGS OF LEON TORNANO CON WALLS, MURI FRAGILI E TORMENTATI

Giro di basso inconfondibile, seguito da attacco di chitarra e batteria, potente e preciso quasi a tornare indietro nel tempo, a quel 2003, anno del loro debutto mondiale che incantò i critici e conquistò le orecchie degli ascoltatori rock. Si presenta così Waste a moment, il singolo dei Kings of Leon apripista dell’album WALL (We are like love songs), uscito lo scorso 14 ottobre. Già dalle prime note ritroviamo la forza e la compattezza del suono che hanno caratterizzato la band dei fratelli – più il cugino – Followill. Questo lavoro è l’ideale seguito di Mechanical Bull del 2013. Niente a che vedere, quindi, con il suond grezzo dei primissimi album Youth and Young Manhood e Aha Shake Heartbreak. Negli anni i KOL sono diventati una super band da milioni di dischi venduti e la loro musica si è omologata alquanto alla legge di mercato, rendendo il suono dei ragazzi del Tennessee edulcorato e ripulito dalle chitarre graffianti e folk tipiche della loro terra. Ascoltando il nuovo lavoro si è divisi tra sonorità già familiari e nuove sperimentazioni che virano su synth e new wave. I testi dei pezzi rappresentano la parte più intensa di tutto il lavoro: c’è il dramma di un uomo che s’impicca nel giardino della sua casa in Over o i riferimenti alla morte di Blaze Foley, cantante country ucciso nel 1989; c’è l’omaggio alla moglie di Caleb, la top model Lily Aldrige, che si innamora di un fantasma in una camera d’albergo di L.A. in Find me. WALLS è l’album più cupo della band, nato dopo lavori che non hanno propriamente rispettato le previsioni di vendita (solo 347.000 copie per Mechanical Bul) e dopo un periodo in cui il gruppo era al centro di voci insistenti riguardanti una probabile rottura; inoltre il problema di alcol che stava per fare perdere la voce al frontman era diventato serio, obbligando lo stesso Followill ad un periodo di pausa e riabilitazione. Per ogni storia si presume ci sia un lieto fine e se la voce di Caleb è tornata forte quasi come un tempo, WALLS ci ricorda invece quanto la strada per l’happy ending non sia apparentemente solida, ma costellata di tormenti.

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I Medici e The Young Pope: storia e potere in tv

17 e 21 ottobre: le date rispettivamente dell’ascesa de I Medici e dell’elezione al soglio pontificio di Papa Pio XXIII. No, non si sta tornando indietro nel tempo o riscrivendo i libri di storia, ma più semplicemente, ci troviamo nel mondo delle serie tv. Due in particolare “I Medici”, appunto, e “The Young Pope” sono tra le novità seriali italiane più attese. Entrambe vantano un cast internazionale, promettono colpi di scena e sono girate in due luoghi storici del Bel Paese: rispettivamente Firenze e Roma.
Il serial sulla casata fiorentina apparirà il prossimo 18 ottobre su Rai 1 in prima visione mondiale, ma già da tempo fa parlare di sé, soprattutto per il cast. Diretta dal regista statunitense Sergio Mimica-Gezzan, ha come protagonisti le superstar Dustin Hoffman, Richard Madden, Stuart Martin, accompagnati da attori nostrani come Miriam Leone, Alessandro Preziosi, Sarah Ferbelbaum, Alessandro Sperduti. Il telefilm ripercorre le vicende di una delle famiglie più importanti della storia, che tra il XV e il XVIII secolo dominò Firenze, la Toscana e praticamente tutta l’Italia, dando i natali a tre papi e anche a due sovrane di Francia. Dalla politica alla religione, i componenti del casato influenzarono tutti i settori della vita dell’epoca, spesso tramando e adottando ogni mezzo possibile per arrivare al potere. La serie vanta anche la colonna sonora scritta da Paolo Buovino, con la sigla iniziale cantata da Skin.

“The Young Pope” è del premio Oscar Paolo Sorrentino, alla sua prima esperienza per il piccolo schermo, prova tra l’altro egregiamente superata almeno a giudicare dalle due puntate iniziali mostrate in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia. La miniserie, composta da 10 episodi trasmessi da Sky Atlantic a partire dal 21 ottobre, racconta l’ascesa al potere di Lenny Belardo – Papa Pio XIII (interpretato da Jude Law), primo pontefice di nazionalità americana, dalle varie sfaccettature e con un passato doloroso. Belardo ha un carattere tormentato: estremamente moderno negli atteggiamenti, ma conservatore nel pensiero; deciso, a tratti arrogante e dispotico, ma anche ingenuo e pieno di dubbi. A primo impatto le analogie con il presidente Frank Underwood di “House of Cards” sono tante, cosi come i comportamenti discutibili e la forte esigenza di rivoluzionare la Chiesa. Un pontefice drasticamente opposto a quello attuale, scelta che Sorrentino ha descritto come “possibile” in un futuro più o meno prossimo: “Ho fatto questa scelta perché potrebbe accadere che dopo un Papa più liberale ne venga uno che ha idee diverse. Penso anche che sia abbastanza illusorio credere che la Chiesa abbia avviato un lunghissimo cammino verso la liberalità. Quindi il nostro Papa non è inverosimile, anzi. In un futuro più o meno lontano potrebbe essere molto verosimile”. Il cast è completato da un bravissimo Silvio Orlando (Cardinal Voiello) e da Diane Keaton nel ruolo di Suor Mary, forse il personaggio più vicino a Papa Belardo. Ottobre quindi, e l’inizio dell’autunno in generale, si confermano periodi di innovazione seriale che mai come adesso guardano al passato, ma rivelano una natura quanto più attuale possibile.

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