Monica Vitti: Vitti d’arte, Vitti d’amore

Monica Vitti, in due parole il cinema italiano nel mondo. Nata praticamente a piazza di Spagna a Roma, in via Francesco Crispi, insieme ad Anna Magnani, Gassman, Tognazzi e Manfredi ha rappresentato la vera romanità.
Unica ed inconfondibile, con quella sua voce roca, agli esordi della carriera era stata scoraggiata dal Centro Sperimentale, dove le avevano assicurato che non sarebbe andata da nessuna parte, per poi entrare alla Silvio d’Amico, intraprendendo una breve ma intensa carriera teatrale.



Invece come sempre accade, l’imperfezione ti rende unico e ti porta al successo.
Allegra, depressa, introversa, ironica, tutte parole che potevano descrivere Monica.
Dopo un inizio carriera in bianco e nero, che la vedeva impegnata in ruoli sia comici che drammatici, è arrivato il rapporto che l’ha legata sia professionalmente che sentimentalmente al regista Michelangelo Antonioni, che le ha fatto fare un percorso interno che ha attraversato tutte le sue insicurezze, rendendola la sua musa ispiratrice.
Come tutti i rapporti intensi, ad un certo punto si consumano, e così è stato anche per loro.



La sua sensazione era sempre quella di non essere mai abbastanza, le dicevano che era troppo moderna, troppo magra, era il momento delle maggiorate come la Loren e la Mangano, ma lei non ha mai pensato che ci potesse essere un altro destino a, era un’attrice.
Stiamo parlando degli anni ‘60, dove la comicità era relegata all’uomo, la donna era di contorno, le si chiedeva solo di essere molto bella e pronta a servire la battuta; lei no, ha rivoluzionato i piani, diventando la prima mattatrice in gonnella in Italia, poi arrivarono le altre.

Si è avvalsa anche del primato di donna che ha preso più schiaffi sullo schermo, infatti nei cinque film fatti con l’amico di sempre Alberto Sordi, come Amore mio aiutami o Io so che tu sai che io so, le scene di ceffoni sono lunghissime, e portano lo spettatore più a ridere che ha soffrire per la donna picchiata, senza offendere nessuna femminista o associazione o etichetta particolare, mentre oggi è sempre più difficile orientarsi in un mondo “politically correct”.



Tra le sue frasi celebri: «Il mondo è di chi si alza felice? No, il mondo è di chi è felice di alzarsi».
Anche perché come ha spesso detto, lei di notte aveva sempre gli incubi e faceva fatica a prendere sonno, e comunque andava a letto molto tardi, quindi la mattina si svegliava per uscire da questo turbine di inquietudine che la travolgeva; quando si alzava le ci voleva qualche ora a riadattarsi alla vita quotidiana, però poi sapeva che arrivava la sera e le cene con gli amici, e quindi si rideva tutti insieme.



L’ultima sua apparizione nel 2002, poi più nulla, la malattia, forse Alzheimer. Il compagno e marito Roberto Russo, l’ha descritta come neurodegenerativa, senza approfondire, un qualcosa che si è appropriato della sua memoria, ma lui non ha mai voluto parlarne, proteggendola da tutte le voci che la vedevano ricoverata in una clinica in Svizzera, poi a spasso di mattina presto a Villa Borghese.
La festa del cinema di Roma quest’anno l’aveva celebrata con un docufilm che riprendo nel titolo: Vitti d’arte, Vitti d’amore, anche se ripercorrere la vita di Monica non è facile, ci ha raccontato un secolo con la sua povertà e la sua illusione di perbenismo: il ‘900.



Il 2 febbraio 2022, all’età di 90 anni, si è spenta nel suo attico a due passi da piazza del Popolo, e noi la ricorderemo sempre con i suoi grandi occhi verdi, come una vera diva, che non ha bisogno di farsi vedere invecchiata, sarà sempre bella ed impacciata come solo lei sapeva essere.

Per l’immagine in apertura, credits: Mondadori Portfolio/Marisa Rastellini

Cinecult: Pinocchio di Matteo Garrone

Matteo Garrone volta pagina e taglia i ponti con l’estetica dark e un po’ maledetta delle sue opere precedenti, da ‘Gomorra’ a ‘l’imbalsamatore’ fino all’osannato ‘Dogman’ con un impareggiabile Marcello Fonte, per passare ora al registro leggero e ironico della favola, quella che unisce grandi e piccini; un’alternativa colta, visionaria ed elegante al più trash cinepanettone.

Il cinema è cultura, è magia, è affabulazione, è equilibrio fra arte e intrattenimento, e in questo Matteo Garrone si conferma un maestro.

Nella sua rilettura di ‘Pinocchio’, nei cinema italiani dal 19 dicembre e distribuito da 01 Distribution, il regista crea un affresco quanto mai moderno per una fiaba che si manifesta ecologica, socialista, pedagogica, panteistica, catartica.

Federico Ielapi è il burattino più famoso del mondo che si è sottoposto a 4 ore di trucco ogni giorno sul set per poter incarnare il pupazzo di legno in cui tutti i bambini possono riconoscersi.

Il film è ispirato alla cultura pittorica dei Macchiaioli ma anche a Hieronymus Bosch e a Enrico Mazzanti, il primo illustratore di Pinocchio ma anche un po’ a Tim Burton, e per la metamorfosi di Pinocchio in somarello anche agli effetti speciali creati per ‘Un lupo mannaro americano a Londra’ di John Landis.

Un film ricco e prezioso che nobilita la povertà, un omaggio sentito e accorato, mai retorico, alla nobiltà e alla bellezza della miseria.

“È un film popolare ed allegorico intessuto di verità sempre valide che parla di un bambino alla ricerca della libertà e della felicità che però tutti gli impediscono di realizzare, è un film sulla redenzione di un fanciullo, una rilettura della parabola del figliol prodigo” spiega Garrone.

“Pinocchio è un libro iniziatico, quasi divinatorio”, gli fa eco Roberto Benigni che nel film è Mastro Geppetto, un ruolo che il premio Oscar per ‘La vita è bella’ ha saputo modulare con grazia, ironia e poesia, in parte, come lui stesso ha dichiarato, strizzando l’occhio a Charlie Chaplin e al suo iconico Charlot.

“Pinocchio è nelle mie corde da sempre, io ho fatto il mio Pinocchio, e stavolta si parla finalmente dell’amore di un padre per il figlio, Pinocchio è un puro, vive un’odissea sentimentale, per Fellini io sono sempre stato Pinocchio e questo film è il coronamento più memorabile della mia ‘carriera’, è la povertà che diventa ricchezza, è una fantastica cornucopia”, aggiunge Benigni.

Nel cast spiccano la bellissima musa di Ozon Marine Vacth che nel film di Garrone è la fata turchina adulta, nel ruolo che fu della icona super trash Gina Lollobrigida nel Pinocchio di Comencini con Nino Manfredi, mentre Gigi Proietti è Mangiafuoco, “figura dolente e solitaria ma con una sua identità ben definita e un cuore d’oro” spiega il mattatore romano del cinema italiano, interprete indimenticabile di Fregoli e Petrolini.

E poi ci sono il gatto e la volpe, interpretati rispettivamente da Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini, che rispecchiano la plutocrazia ingorda e avida, “quelli che, come dice il grillo parlante impersonato dal simpaticissimo Davide Marotta, ti dicono che ti possono far diventare ricco senza sforzi e che sono matti o imbroglioni” (ogni riferimento a Berlusconi o a Salvini è puramente casuale?).

“Ho cercato di essere il più possibile fedele al testo di Collodi dando la parola agli animali che sono allegorie viventi e che sono il più possibile antropomorfi, questo film parla di noi e della società in cui viviamo, l’ho girato nei luoghi dell’anima, l’Italia è bellissima ma è difficile trovare oggi i luoghi ai quali si riferisce Collodi alla fine dell’Ottocento, l’Italia è stata distrutta dal boom economico degli anni’60, il paesaggio, che nei miei film è sempre personaggio, è legato ai personaggi dei miei film”.

Notevoli gli effetti speciali di Mark Coulier, due volte premio Oscar per i suoi make up prostetici che si avvalgono di protesi scolpite (nel film vediamo il silicone che simula il legno), bella e intensa la colonna sonora di Dario Marianelli con la canzone vibrante ‘Passo a passo’ cantata da Petra Magoni, notevoli e azzeccati i bei costumi di Massimo Cantini Parrini.

Visionario e surreale, questo Pinocchio esalta la natura mistica, madre e matrigna al tempo stesso e ripropone temi eterni che continuano a fare riflettere divertendo intere generazioni. Ottima prova, da non perdere, in attesa del Pinocchio per adulti di Guillermo del Toro.

®Riproduzione riservata

Cinecult: La Dea Fortuna di Ferzan Ozpetek

L’amore inclusivo, quello che unisce e non divide mai perché non conosce separazioni di genere, raccontato con poetica malinconia e lucido lirismo, in una società che ha annegato i sentimenti in una gabbia virtuale, in un bordello senza mura per citare Marshall McLuhan e che annulla le emozioni livellando le sfumature con il risultato di discriminare invece che abbracciare.

Di sfumature ce ne sono tante ne ‘La Dea Fortuna’ l’ultima pellicola di Ferzan Ozpetek distribuita da Warner Bros.Entertainment Italia, nei cinema per Natale.

Finalmente un film anti panettone che punta sulla psicologia, sull’infanzia e la maturità a confronto, una bella riflessione sull’identità maschile e sul concetto di paternità in una società fluida in cui una coppia gay non può adottare e a malapena può sposarsi, proprio come nel Medioevo più oscurantista.

Un Edoardo Leo in stato di grazia, oltre che assolutamente magnetico e super glamour, affianca un elegantissimo e viscerale Stefano Accorsi che già con il bel film ‘Il campione’ ha dimostrato di essere finalmente maturato artisticamente e di aver alzato l’asticella del suo percorso professionale grazie a lavori di rilievo che sicuramente prendono le distanze dal fast food cinematografico di oggi.

Perché il cinema è prima di tutto arte e non solo intrattenimento, e teniamo a sottolinearlo. Qui siamo in una vicenda un po’ complessa: due uomini, Arturo dotto traduttore (Stefano Accorsi) e Alessandro rustico idraulico (Edoardo Leo), coatto e molto sensuale, accettano la richiesta della loro amica Anna Maria (Jasmine Trinca, bella ed elegante) che li ha fatti incontrare.

La giovane donna siciliana, malata di tumore, chiede ai due amici del cuore di tenere per lei durante la sua degenza in ospedale i due piccoli figli Sandro e Martina. E lì nasce tutto l’intreccio. I nodi vengono al pettine.

Dopo 15 anni i due ragazzi si faranno del male e si dovranno rimettere in discussione facendo i conti con un vissuto fatto di bugie e compromessi nel tentativo di portare alla luce i motivi veri del loro innamoramento.

Perdersi per poi ritrovarsi, in mezzo ci sono le tentazioni, i fraintendimenti, le barriere create da apparenti dissidi che solo il vero amore sa superare. Sullo sfondo di una famiglia LGBT a tratti iconizzata con troppi generosi cliché, (lo avevamo già percepito ne ‘Le fate ignoranti’) spuntano due ragazzini figli del tablet e dello smartphone, cresciuti senza padre, teneri e forti, innocenti ma già fin troppo maturi.

Affidiamo alle parole del regista turco, ormai italianissimo, il compito di spiegare questo bel film: “In genere si racconta quasi sempre o la nascita di un amore, magari contrastato, oppure il momento in cui esplode la passione.

Io invece volevo raccontare due persone che stanno insieme da tanto tempo e stanno quasi per lasciarsi perché è passato il momento della passione. Sono quasi come fratelli, l’amore ha cambiato aspetto e loro non sanno più come conviverci. Il fatto che siano due uomini non è determinante, avrebbero potuto essere anche un uomo e una donna o due donne.

Ma quello che mi affascinava era proprio l’idea di come, una volta superato il sesso e la passione, un rapporto possa rigenerarsi in un modo diverso di stare insieme. Credo sia un tema che riguardi molte coppie, al di là degli orientamenti.

Ovviamente la Fortuna ci mette lo zampino facendo arrivare nella loro casa due bambini, figli di una amica che glieli affida per qualche giorno ma poi la loro permanenza si protrae.

I due protagonisti sono costretti a confrontarsi con qualcosa a cui non avevano mai pensato: non si erano mai immaginati “genitori” né la paternità era mai stata una loro fantasia o progetto. Gli capita tra capo e collo e proprio nel momento più delicato del loro rapporto”.

Insomma un gran pasticcio, apparentemente inestricabile, con un plot che prende le mosse da un fatto vero e che non vuole intervenire nel dibattito sulle famiglie arcobaleno (anche se chi scrive vuole sottolineare che invece una posizione andrebbe presa in un paese come l’Italia che non ha ancora una legge contro l’omofobia né un assetto normativo che consenta alle coppie gay di adottare dei bambini).

“Si è genitori dalla cintura in su, non dalla cintura in giù-prosegue il regista-con temi così importanti spero di aver fatto un film di emozioni coinvolgenti, sullo scoprirsi e il ritrovarsi, senza scadere nel sentimentalismo.

Nel gioco dell’alternanza tra commedia e dramma, riso e pianto, spero di essere riuscito a rispondere ai dubbi che mi avevano assalito quando mi capitò un fatto reale che è alla base di questo film.

Un anno fa mio fratello era gravemente malato. Sua moglie, a cui sono molto legato, mi aveva chiesto, nel caso fosse successo qualcosa di grave anche a lei, di occuparmi insieme al mio compagno dei suoi due figli.

Ha voluto che glielo promettessi. I miei nipoti, all’epoca dodicenni, sono bambini intelligenti, che parlano perfettamente altre lingue, si informano, leggono, sono curiosi, facili forse da gestire.

Eppure, questa richiesta mi ha spalancato un mondo di angoscia, di paure, di dubbi sulle mie capacità, mi ha aperto le porte su un mondo emotivo che non conoscevo e a cui non sapevo come avrei reagito. Questo film è stato un modo per esplorare quei dubbi e quelle emozioni. Per darmi delle risposte a domande molto personali”.

Divertente e macchiettistica, molto allegorica di un certo tipo di bigotto fanatismo molto radicato nel Sud Italia, la figura della vecchia Elena, interpretata da una impareggiabile Barbara Alberti, quintessenza di quello spirito tridentino, ipocrita e reazionario che ha istigato un figlio al suicidio e che pervade soprattutto la mentalità ancora troppo arretrata e provinciale soprattutto italica, per scoprire la bellezza di un amore che ancora oggi come diceva Proust “non osa pronunciare il suo nome”.

Nel cast troviamo inoltre la onnipresente Serra Yilmaz, il fascinoso Filippo Nigro, straordinario nel ruolo di uno smemorato sempre partecipe che corrobora la vis comica dei personaggi smorzando le scene più drammatiche, di Matteo Martari che è Stefano e che si sta facendo le ossa con un cinema di qualità e anche Cristina Bugatty, la transgender cool che da Pechino Express approda ora sul grande schermo con stile e ironia dando valore aggiunto a una sceneggiatura molto riuscita, firmata da Ozpetek, Gianni Romoli che è anche produttore del film insieme a Tilde Corsi, e da Silvia Ranfagni.

Ci auguriamo che molte coppie eterosessuali si riconoscano in questa vicenda struggente e intensa, descritta con un linguaggio mai troppo stucchevole né retorico, perché l’amore anche e soprattutto paterno è un diritto di tutti, non una conquista di pochi eletti.

Due parole le spenderemo sulla bellissima colonna sonora di Pasquale Catalano in cui brillano due brani cult: la ballata meravigliosa ‘Luna Diamante’ cantata dalla voce ricca di pathos della leggendaria Mina e tratta dall’album ‘Mina Fossati’ uscito a novembre, e ‘Che vita meravigliosa’ del cantautore Diodato, due perle a impreziosire un film dalla fotografia davvero suggestiva e vibrante, e quell’acqua che lava via tutte le imperfezioni e i drammi, riportandoci alla felicità primigenia.

Da vedere e se possibile da rivedere.

®Riproduzione riservata

Cinecult: Star Wars: l’ascesa di Skywalker di J.J. Abrams

Siete angeli o demoni? Sitts o Jedi? E siete per la libertà o per l’odio? Sono domande che cari lettori dovrete porvi vedendo per le feste di Natale l’ultimo epico capitolo della saga fantascientifica più osannata del mondo ‘Star Wars: l’ascesa di Skywalker’ diretto da J.J. Abrams e distribuito da Walt Disney Studios Motion Pictures che nel 2012 ha acquisito la saga dal suo creatore George Lucas.

Per chi non lo sapesse si tratta dell’epilogo di una epopea siderale che affonda le sue radici nel lontano 1977 quando chi scrive aveva appena 5 anni.

star-wars-l-ascesa-di-skywalker
Courtesy of Walt Disney Pictures

Star Wars ci ha accompagnato dall’infanzia alla maturità e continua a forgiare l’animo delle nuove generazioni, educando a incrollabili e solidi valori che oggi sono quasi antitetici alla propaganda sovranista e becera di Trump: l’inclusione, il multiculturalismo, l’estetica green, la tutela dei più deboli, l’uso della forza a beneficio di tutti, il rifiuto dell’odio e dell’imperialismo totalitario, la bellezza poetica della fantasia che tutto avvolge con la sua alchemica fascinazione.

Tutte componenti  che ritroviamo in questo nuovo, avvincente capitolo di questa fantastica e galattica epopea. Daisy Ridley, una conferma dopo il suo successo nel precedente capitolo, incarna la figura della nuova eroina della settima arte: la jedi Rey che salverà il mondo dal perfido imperatore del male Palpatine è una ragazza intrepida, sensibile e valorosa, capace di slanci e grande femminilità pur nei suoi abiti da oplita siderale, peraltro curatissimi, e complimenti ai costumisti.

star-wars-l-ascesa-di-skywalker
Courtesy of Walt Disney Pictures

L’autocrazia è una minaccia anche nel futuro come nel presente, e il regista e gli sceneggiatori J.J. Abrams e Chris Terrio lo sanno bene: meglio la democrazia interplanetaria guidata dalla proba, saggia e virtuosa principessa Leia Organa che nel film è interpretata da una miracolosamente ‘riesumata’ Carrie Fisher scomparsa nel dicembre 2016 e che rivive sul grande schermo grazie a una speciale tecnologia denominata ‘rotoscoping’.

Interessante Adam Driver, attore pregevole e poliedrico, nel ruolo sfaccettato e non facilissimo di Kylo Ren: sarà cattivo oppure no? Diciamo pure che si tratta di un personaggio piuttosto fluido, abbastanza posh.

Interessante perché c’è un bel lavoro di definizione psicologica del personaggio, anche se non eccessivamente intimistica, ça va sans dire. Il ragazzo ha la stoffa e lo ha dimostrato a più riprese e a chi scrive la sua figura piace molto.

star-wars-l-ascesa-di-skywalker
Courtesy of Walt Disney Pictures

C’è poi il dualismo fra Finn e Poe, ovvero rispettivamente i due eroi di sfondo della scena galattica interpretati da Oscar Isaac e John Boyega, che non fanno che bisticciare ma che sono amici per la pelle quando si tratta di difendere la Resistenza dagli attacchi del Primo Ordine.

A tratti sembra di vedere Space Vampires, a tratti Shining o l’Esorcista perché in certe scene cariche di tensione scenica e di thriller dove il lato oscuro ruba la scena alla forza, il regista sembra aver calcato un po’ troppo la mano.

Lo spettacolo in tutta la sua magniloquenza è assicurato anche dal ritorno di fiamma di Billy Dee Williams nei panni del generale Lando e da qualche cammeo qua e là, immancabile diciamo.

star-wars-l-ascesa-di-skywalker
Courtesy of Walt Disney Pictures

Formidabile la macchina scenica che ovviamente punta sui virtuosismi tecnologici per stupire e sorprendere lo spettatore: ci sembra di esserci dentro nei duelli quasi 3D sullo sfondo dei flutti più impetuosi o negli inseguimenti nel deserto, magnifico.

Esilaranti i personaggi che sono ormai parte dell’immaginario dei fan della serie cinematografica: da C3Po molto sarcastico e sempre molto blasè, al gigante peloso Chubeka, fino ai mille animaletti e robot ai quali manca solo la parola.

Il film è suggestivo anche per la fotografia che non ha badato a spese: la pellicola è ambientata in parte in Giordania e in parte nei Pinewood Studios di Londra. Curiosità: il film è stato realizzato in Cinemascope ma anche in formato IMAX a scorrimento orizzontale, mentre la maschera fratturata nera che compare nel film si ispira all’arte giapponese del kintsugi che nel sol levante attraverso l’oro e l’argento serve a dar vita nuova a un oggetto rotto.

star-wars-l-ascesa-di-skywalker
Courtesy of Walt Disney Pictures

®Riproduzione riservata

Cinecult: L’ufficiale e la spia di Roman Polanski

“Questo film dimostra che chi è accusato non sempre è colpevole”, così Emmanuelle Segnier ha chiosato lapidaria l’ultimo film del marito, il grande regista polacco Roman Polanski, di nuovo al centro di roventi polemiche.

L’uscita del film, distribuito da 01 Distribution e vincitore del Gran premio della giuria all’ultimo festival del cinema di Venezia, è stata preceduta in Francia da attacchi reiterati delle femministe contro Polanski che oggi ha 86 anni, a causa dell’accusa di stupro mossa al controverso regista di ‘Rosemary’s baby’ dalla ex attrice Valentine Monnier, per una vicenda che si è verificata 44 anni fa.

Ma con buona pace dei suoi detrattori il regista è un maestro indiscusso e con questo film che nei primi 4 giorni di proiezioni nelle sale francesi ha totalizzato 400 mila spettatori, anche Polanski sembra puntare il dito contro i suoi accusatori di ieri e di oggi: “è un film che è innanzitutto uno statement sulla tragicità contemporanea”, spiega con vigore e pathos Luca Barbareschi, coproduttore del film che è e resta indubbiamente un capolavoro, grande lavoro di ricostruzione di un’epoca e di una storia di razzismo e antisemitismo che divise la Francia, una delle pagine più buie e vergognose, oseremmo dire nella storia di una nazione quanto mai gloriosa, faro di civiltà per tutta l’Europa e stavolta responsabile di un ignominioso episodio di antisemitismo.

Quello stesso trend che oggi tanta ignobile destra sovranista sta cavalcando e riportando in auge anche nel nostro paese purtroppo, e che viene denunciato e stigmatizzato da Polanski in questo magnifico e rigoroso film di oltre 130 minuti.

L’affare Dreyfus è uno dei più clamorosi errori giudiziari della storia, sviluppatosi in Francia tra il 1894 e il 1906 e vide protagonista il soldato ebreo francese Alfred Dreyfus, ingiustamente accusato di essere una spia tedesca e quindi processato per alto tradimento.

Dreyfus sostenne fermamente la sua innocenza combattendo contro un’intera nazione ma fu anche relegato nell’isola del Diavolo nella Guyana Francese. Il suo caso ebbe una notevole risonanza mediatica dividendo l’opinione pubblica del tempo, tra chi ne sosteneva l’innocenza e chi lo riteneva invece colpevole.

Tra gli innocentisti si schierò Émile Zola, il quale scrisse un articolo in cui puntava il dito contro il clima di antisemitismo imperante nella Terza Repubblica francese. Tale intervento venne intitolato proprio J’Accuse. In quel momento tutto poteva succedere e sul banco degli imputati alla fine salì un’intera classe politica.

Il film del geniale regista visionario concepito come un legal thriller e un kolossal elegantissimo tutto giocato sull’antinomia fra il rosso e il nero (magnifici i costumi e stupende le uniformi magistralmente ridisegnate da Pascaline Chavanne), pone l’accento, in una Francia in cui si pescava nel torbido e in una Parigi livida e volutamente imbruttita, sulla passione e l’intensità di un’indagine che svela i risvolti psicologici di alcune delle peggiori tare della società occidentale e non solo: l’antisemitismo, la xenofobia e l’omofobia che nel film si può pure cogliere, anche se non è assolutamente palese.

Il finale del film (la storia è nota) dimostra che alla fine, nonostante gli sforzi di Georges Picquart che nel film è interpretato dal formidabile Jean Dujardin (premio Oscar) che alla cieca obbedienza antepone la ricerca della verità e della giustizia, tutto è vano, l’omertà dell’esercito è stata smascherata ma tutto sommato, un ebreo in Francia resta pur sempre un ebreo e i suoi diritti non saranno mai riconosciuti purtroppo.

Una amara constatazione in un momento in cui i gilet gialli in Francia fanno scempio delle vestigia di un grande antinazista della storia francese. Picquart è un uomo dilaniato fra i suoi pregiudizi e la verità, abbraccia la causa del povero Dreyfus con onestà, anche se non è perfetto: ha una relazione con una donna sposata ma tuttavia si rivela un uomo integerrimo e molto umano.

La fotografia è straordinaria e meravigliosa la definizione dei personaggi, anche se a volte risulta quasi troppo perfetto e cerebrale, non privo di colpi di scena. Uno dei film più belli dell’anno, sicuramente da vedere, non foss’altro per l’attualità dei temi trattati: l’odio contro il diverso e soprattutto l’alluvione di fake news nell’informazione contemporanea che esisteva anche nella Francia ‘fin de siècle’, la Francia di Proust, del naturalismo francese e della nascita del cinema.

Condividiamo perfettamente l’opinione critica che ravvista nella pellicola “un’opera di impianto classico che trova la via del grande schermo in un momento storicamente giusto”.

®Riproduzione riservata

Cinecult: ‘Jesus Rolls – Quintana è tornato’ di John Turturro

Una luce in fondo al tunnel c’é. È la luce della libertà e della felicità. E se ti cali le braghe e te la godi potrai cogliere il meglio della vita. Il messaggio di ‘Jesus Rolls – Quintana è tornato’ è eloquente e vibrante.

E va bene così, perché se passi due ore a farti delle sane risate riflettendo anche sul senso della vita, allora forse una svolta c’è e la crisi te la scordi in nome di un epicureismo autoironico.

Il film, distribuito da Europictures, presentato in anteprima mondiale alla Festa del Cinema di Roma come film di preapertura, diretto e interpretato da John Turturro, 62 anni portati splendidamente, racconta un viaggio un po’ pazzerello, surreale ed esilarante e se ne vedono tante di cose. Ce n’è per tutti i gusti.

Il sesso è vissuto in maniera libera e giocosa così come dovrebbe essere, senza tabù, sembra di stare nell’eden. E non a caso perché il film, una commedia ironica e un po’ grottesca che parla di libertà, un road movie che è lo spin-off de ‘Il grande Lebowski’, è tratto da un romanzo del 1974 di Bertrand Blier, ‘I santissimi’ da cui è stato tratto un film godibilissimo.

E ricorda maledettamente, ma in versione coloratissima e rocambolesca, le avventure filosofiche di ‘Jules et Jim’ di Truffaut. E perché no? La sceneggiatura riprende un po’ Tarantino, un po’ i fratelli Cohen ma senza velleità né pretese.

La coppia Turturro- Cannavale è sexy e ludica allo stesso tempo, ha ritmo e irresistibile vis comica. Il film conta tanti cammei brillanti e ricchi di verve: Jon Hamm è il parrucchiere bello e vanesio che per certi versi rifà il verso a Warren Beatty in ‘Shampoo’, Sonia Braga, che ricordiamo in ‘Il bacio della donna ragno’, è una splendida maitresse che filosofeggia in spagnolo, Susan Sarandon è Jane, una ex galeotta ansiosa di godersi la vita con pienezza e un filo di naiveté.

Interessante la visione dell’identità maschile filtrata dall’ottica dei due simpatici protagonisti: una coppia di accattivanti balordi (in senso buono però) che sanno trascinarti nel loro pazzo mondo, dove l’unica regola è che non ci sono regole.

Queste due disincantate canaglie non disdegnano qualche digressione nel territorio dell’omosessualità, perché oggi tutto è fluido, tutto è viola come in una canzone di Prince. E il viola non fa più così paura se Jesus lo sfoggia con coraggio e disarmante spontaneità.

La gigioneria dei due protagonisti-mattatori è contagiosa e non può che suscitare empatia soprattutto se nel loro sodalizio entra la francesina shampista Marie interpretata dalla scanzonata e irriverente Audrey Tautou.

Questa commedia sbottonata con una risata vi seppellirà. La fotografia e i costumi sono azzeccati e la musica curata dalle brava e bella Emilie Simon ti fa volare. Bella la fotografia. Da vedere.

®Riproduzione riservata

Cinecult: Tutto il mio folle amore di Gabriele Salvatores

Il rapporto padre-figlio, l’evoluzione di un’identità maschile ormai in crisi, la diversità e l’integrazione, e sullo sfondo una storia intensa e commovente on the road che lega e intreccia vari destini sulle note di una colonna sonora straordinaria. Tutto questo e altro ancora nell’ultimo, acclamato film di Gabriele Salvatores ‘Tutto il mio folle amore’ distribuito da O1 Distribution Rai Cinema.

Vincent (interpretato dal bravissimo Giulio Pranno, una rivelazione, per la prima volta sul grande schermo) è un ragazzo di sedici anni molto speciale, vive in una sua dimensione come in una bolla di vetro e ha dei contatti particolari con il mondo esterno a causa della sua malattia, l’autismo, da cui è affetto fin dalla nascita.

A prendersi cura di lui sono la madre Elena (una strepitosa e bellissima Valeria Golino) e Mario (Diego Abatantuono, pregnante ed efficace), facoltoso editore. Un giorno il padre Willy, cantante alla deriva senza bandiera e playboy ribattezzato ‘il Modugno della Dalmazia’ (Claudio Santamaria) che ha abbandonato moglie e figlio prima che Vincent nascesse, si presenta dalla ex moglie e decide di conoscere Vincent.

Fra i due, inseguiti da Elena e Mario nel cuore dei Balcani, nasce un’ imprevedibile intesa basata su un autentico scambio umano e una profonda condivisione. E tutti scoprono che la normalità non esiste e che, dopo aver fatto i conti con noi stessi, il cemento di tutto è l’amore.

L’odissea esistenziale dei quattro protagonisti li porta a contatto con il tema delle migrazioni e perfino i rom diventano attraenti (ma guarda un po’, con buona pace di Salvini…). Film godibile di ampio respiro valorizzato da una suggestiva fotografia e impreziosito da immagini curate meticolosamente.

Salvatores non delude e anzi si conferma con questo film, con cui torna al suo vecchio amore, il road movie, uno dei più sensibili e acuti interpreti della scena cinematografica italiana. Si ride, si riflette, ci si pone delle domande sulla vita in questo bel film tratto dal romanzo di Fulvio Ervas ‘Se ti abbraccio non aver paura’ e ispirato a una storia vera.

Una curiosità: ci fu un regista americano, Barry Levinson, che nel 1988 diresse un film, ‘Rain man’ in cui Tom Cruise portava a spasso il fratello autistico in giro per gli Stati Uniti e sullo sfondo campeggiava una allora quasi debuttante Valeria Golino che in ascensore suggellava con un bacio la sua accettazione della diversità di Raymond, interpretato dal geniale Dustin Hoffman. E qui il cerchio, cari cinefili, pare chiudersi perché la bella Valeria interpreta oggi una storia che ha degli indiscutibili punti di contatto e delle palesi analogie con il film americano.

® Riproduzione riservata

Cinecult: La truffa dei Logan di Steven Soderbergh

Torna in grande stile sul grande schermo il regista di ‘Sesso, bugie e videotape’ e di Ocean’s 11,Ocean’s 12 e Ocean’s 13 con una commedia spassosa, paradossale, dagli esiti imprevedibili e piena di colpi di scena.

Dopo il passaggio alla Festa del cinema di Roma nella selezione ufficiale arriva nelle sale italiane l’ultimo capolavoro di Steven Soderbergh, regista sorprendente e visionario: ‘La truffa dei Logan’. Distribuito da Lucky Red il film racconta di una ‘rapina da contadinotti’ messa a segno da due fratelli sempliciotti e un po’ sfigati, Jimmy Logan (Channing Tatum) e Clyde Logan (Adam Driver) e da un galeotto dall’aspetto teutonico, l’ineffabile e testosteronico Joe Bang (Daniel Craig) che coinvolge nella impresa anche due fratelli un po’ svitati e moralisti, Sam e Fish. Jimmy e Clyde non hanno niente da perdere: Jimmy era una promessa del football finita a lavorare in miniera che lo ha nel frattempo licenziato e con una menomazione al ginocchio, mentre Clyde ha perso una parte del braccio a causa di una mina in Iraq e lavora in un bar dove fa i cocktail con un braccio solo. Inoltre Jimmy è divorziato dalla più bella del liceo Bobby Joe(Katie Holmes) che si è presa l’affidamento esclusivo della figlia Sadie (Farrah Mackenzie), amante dell’arte culinaria e dei concorsi di bellezza ai quali scalpita per partecipare, vanitosa e sagace com’é. La trama si svolge fra il West Virginia, la terra dei Logan, e il circuito Charlotte Motor Speedway che i fratelli Logan decidono di depredare durante una gara Nascar collegandosi in modo ingegnoso al caveau. Alla banda cui partecipano anche due evasi dal carcere Joe e Clyde, si unisce la sorella dei Logan Mellie (Riley Keough, impareggiabile) che nella vita fa la truccatrice e mette lo smalto sugli scarafaggi ma che nello sviluppo del plot ha un ruolo decisivo, come si capisce solo alla fine del film. La commedia piena di ritmo, di colpi di scena e di esilaranti gag è un ritratto talora cinico, talaltra bonario dell’America più trash e cafona dove le bambine si esibiscono nei talent show truccate da adulte, dove nei bar si ritrovano gli spacconi dei social che giocano a fare gli influencer, e potrebbe essere paragonata per il suo spirito pop e coloratissimo a un affresco corale un po’ kitsch e surreale dell’eclatante fotografo David LaChapelle. Il tratto saliente della commedia, per ovvi motivi associata alla trilogia di Ocean’s 11, Ocean’s 12, Ocean’s 13, è il paradosso: l’America è la terra delle mille contraddizioni e delle infinite possibilità, soprattutto quando la si guarda con una ironia al vetriolo come fa il regista. Interessante il ruolo di Hilary Swank che interpreta l’agente FBI Sarah Grayson che ficca il naso ovunque, riuscendo a ricostruire i fatti con grande talento investigativo ma senza mai trovare uno straccio di prova. Perché alla fine la vicenda del colpo gobbo al circuito automobilistico ha dei risvolti che non ci si aspetta.

®Riproduzione Riservata

Cinecult: Cinquanta Sfumature di Rosso di James Foley

cover credit: Universal Pictures

Lusso, adrenalina, suspense, erotismo soft e patinato e una buona dose di romanticismo sono gli ingredienti di ‘Cinquanta Sfumature di Rosso’. Il film diretto dal talentuoso James Foley, già regista di ‘Cinquanta Sfumature di Nero’, e distribuito da Universal Pictures, chiude il cerchio della trilogia dei film campioni di incassi al botteghino, tratti dai romanzi bestseller di E. L. James con non pochi colpi di scena e rivelazioni di un passato velato da torbidi e inquietanti misteri. La love story fra Anastasia Steele (Dakota Johnson) e Christian Grey (Jamie Dornan) sembrerebbe destinata a risolversi in una bella favola fra ville miliardarie, abiti da sogno e frisson degni del più malizioso talamo coniugale animato da brividi e piaceri proibiti. Ma sulla felicità dei due amanti, stregati dal fascino di Parigi e attratti dal miraggio di una serena vita insieme dopo il matrimonio, sembra allungarsi l’ombra di un pazzo, Jack Hyde (Eric Johnson) l’inquietante ex capo di Anastasia al Seattle Independent Publishing (nel film SIP) che ha tentato di sedurla e aggredirla e continua a turbare la pace della coppia. Nel cast ritroviamo Rita Ora nel ruolo di Mia sorella di Grey, il premio Oscar Marcia Gay Harden che nel film è Grace Trevelyan, la madre adottiva di Christian, Luke Grimes nei panni di Elliot fratello di Mister Grey. Il film segna una evoluzione inevitabile nel rapporto di coppia fra Ana e Grey che appaiono sicuramente più maturi: sì ai giochi erotici disciplinati da regole ma no a un’assoluta posizione dominatrice di Christian che si sente provocato e sfidato dalla sua compagna. D’altra parte Ana si mostra più decisa, tenace, consapevole delle sue scelte e più coraggiosa che nei 2 precedenti film del 2015 e del 2017. Anche Grey interpretato da Jamie Dornan, l’attore sex symbol definito ‘la versione maschile di Kate Moss’ e che sarà di nuovo sul grande schermo nel ruolo di Will Scarlet nel nuovo adattamento per il cinema di ‘Robin Hood’, appare tormentato e protettivo, spesso in preda a dubbi e gelosie ma sicuramente sempre un gentleman anti-macho, combattuto fra la sua passione egoistica per una vita galante da libertino e la voglia di mettere su famiglia. Il glamour e la vibrante carica erotica di alcune scene piccanti convivono con una nuova concezione della femminilità e di una carnalità romantica nella rappresentazione dell’evoluzione di un’Anastasia che aldilà di qualche possibile dubbio, generato dalle ultime polemiche contro il sessismo e lo sfruttamento del corpo femminile, afferma un orgoglio e una libertà di autodeterminazione della propria bellezza che non offre nel complesso fianco a critiche. Finché si tratta di un gioco in cui i ruoli sono condivisi e in cui le regole propendono per una parità nelle rispettive condizioni, che senso ha fare del moralismo? E’ un romanzo e come tale non dovrebbe offendere la coscienza di nessuno, tanto più del pubblico femminile, perché il film è a tutti gli effetti una storia d’amore fra simili. E allora buona visione.

®Riproduzione Riservata

Cinecult: The Post di Steven Spielberg

Ci sono momenti storici in cui anche gli artisti, e fra questi naturalmente anche i cineasti, sono chiamati ad assumere una posizione netta per quanto radicale e coraggiosa, su temi cruciali per la salvaguardia dell’integrità della democrazia nel proprio paese. E’ il caso di ‘The Post’ l’ultimo capolavoro di Steven Spielberg che dirige per la prima volta i due premi Oscar Meryl Streep e Tom Hanks nei ruoli rispettivamente di Catharine Graham e Ben Bradlee, la prima prudente editore e il secondo cinico direttore del quotidiano ‘The Washington Post’ nel 1971. Il film distribuito da 01 Distribution Rai Cinema S.p.A. e candidato a 2 premi Oscar, per il miglior film e la miglior attrice protagonista (Meryl Streep), affronta e ricostruisce la bufera che investì la Casa Bianca e l’opinione pubblica americana dopo la pubblicazione nel’71 prima da parte del ‘New York Times’ e poi dal ‘The Washington Post’ dei cosiddetti ‘Pentagon papers’ una relazione top secret di 7.000 pagine commissionata dall’ex ministro della difesa Robert McNamara (Bruce Greenwood nel film) che svelava segreti e misteri sul coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam a una nazione prostrata dall’oneroso contributo in termini di risorse finanziarie e vite umane, alla partecipazione americana al conflitto. Ben quattro presidenti fra i quali Kennedy, Truman, Johnson, Eisenhower, per non contare Richard Nixon che governava l’America all’epoca dello scandalo, avevano insabbiato una serie di decisive informazioni politiche sulle reali motivazioni dell’intervento militare in Vietnam e i suoi retroscena celati al Congresso e al popolo americano. E questo testo, presentato come uno studio del Pentagono, viene segretamente riprodotto e divulgato alla stampa dall’osservatore e studioso Daniel Ellsberg (un convincente Matthew Rhys) che in Vietnam aveva visto con i suoi occhi quanto la situazione già nel 1965 fosse destinata a precipitare e che l’esercito degli Stati Uniti non avrebbe mai vinto il sanguinoso conflitto. E così, sullo sfondo di un’America che in un certo senso può ricordare quella di oggi all’epoca di Trump dove, per usare le parole dello stesso Spielberg “la verità è sotto attacco soprattutto a causa della disinformazione”, nel film si combatte una dura lotta per l’emancipazione della stampa indipendente dall’ipocrisia e dalla volontà liberticida dell’establishment politico. Se i giornali che vogliono pubblicare (e poi di fatto pubblicano) i ‘Pentagon papers’ vedono l’ingiunzione di Nixon ai tribunali per impedire la rivelazione dei documenti secretati come la violazione del primo emendamento della costituzione americana che garantisce la libertà di stampa, oggi in America il governo non ricorre più ai tribunali ma alle fake news e alla manipolazione dei mezzi d’informazione per le sue mistificazioni e la sua comunicazione strategica. Il film è uno straordinario atto di impegno civile da parte di Spielberg che realizza un thriller politico vibrante di passione e dinamismo, anche nelle inquadrature così grintose e originali, quasi ‘aggressive’, che riprendono i personaggi sotto le più varie angolazioni per valorizzare la tensione che pervade il film. Un film che esalta anche la presa di posizione e l’evoluzione psicologica di una delle prime donne al potere in America, la Graham, che deve misurarsi con il suo testardo direttore, Bradlee, che da cacciatore di notizie un po’ spietato si trasforma in un professionista della libera informazione alla ricerca della verità. Perché in realtà, come recita la motivazione della sentenza della corte suprema che decise sul caso della rivelazione dei ‘Pentagon papers’ nel’71, “la stampa deve essere al servizio dei governati, non dei governatori”. Parole sante.

®Riproduzione riservata 

Cinecult: Tutti i soldi del mondo di Ridley Scott

“Tutto ha un prezzo. Lo scopo della vita è venire a patti con quel prezzo”, parola di Jean Paul Getty, il leggendario petroliere descritto magistralmente nell’ultimo film di Ridley Scott ‘Tutti i soldi del mondo’. Distribuita da Lucky Red e candidata a tre Golden Globe, la pellicola del grande regista che ha firmato capolavori come ‘Blade Runner’ e ‘Thelma e Louise’ porta sul grande schermo le trame e i retroscena di un episodio di cronaca raccapricciante del 1973: il rapimento in Italia da parte della ‘ndrangheta calabrese di John Paul Getty III, nipote prediletto del magnate del petrolio raffinato collezionista di opere d’arte e uomo d’affari senza scrupoli. Nel film lo interpreta un grandioso Christopher Plummer che incarna senza pari l’avidità e la spregiudicatezza del grande tycoon americano : un uomo duro e ambizioso che credeva di essere la reincarnazione dell’imperatore Adriano e sognava di fare della sua famiglia una dinastia. Dei suoi 14 nipoti John Paul Getty III(un efebico e inquietante Charlie Plummer davvero convincente nella parte) era quello che secondo il ricchissimo nonno doveva subentrargli sul trono del suo impero. Ma all’inizio Getty senior pensò che il sequestro del nipote a Roma fosse solo uno scherzo architettato dal ragazzo, un po’ testa calda e ribelle- cresciuto con un padre debole e tossicodipendente e una madre dai saldi principi, Abigail interpretata da una formidabile Michelle Williams- con lo scopo di trarne dei benefici economici. Ma aldilà dei sospetti della polizia italiana sulle Brigate Rosse i cui esponenti dell’epoca conoscevano bene il ragazzo rapito, in realtà il sequestro fu messo in atto dalla mafia calabrese che portò il ragazzo a Fiumara. La vicenda, ricca di colpi di scena e di momenti mozzafiato anche leggermente cruenti, vede contrapposti a Fletcher Chace ex agente della CIA e mediatore di Getty impersonato da un testosteronico e spesso contraddittorio Mark Wahlberg prima la madre del ragazzo, Gail, alla quale la Williams ha saputo infondere la grinta e la forza d’animo di una madre moderna che nel film sembra assurgere a eroina dai saldi valori, e poi ‘l’imperatore’ Getty che non credeva nella famiglia né negli esseri umani ma solo nella bellezza delle cose, per lo più opere d’arte la cui innocenza secondo Jean Paul Getty supera quella delle persone. Nell’intrigo delle vicende riccamente sfaccettate e gestite con grande sapienza registica e di sceneggiatura che rielabora il libro ‘Painfully rich’ di John Pearson spicca il lato umano del ‘male’ ovvero il rapitore Cinquanta interpretato con notevole spessore e intensità dal ‘nervoso’ Romain Duris. Il film in parte girato in Italia con un cast che schiera sul set vari attori nazionali-fra gli interpreti anche Marco Leonardi, Francesca Inaudi, Giulio Base e Nicolas Vaporidis-si presenta particolarmente suggestivo per la vibrante magniloquenza espressiva di Scott che si traduce nell’efficace luminismo e nell’uso espertissimo e sottile dell’inquadratura e per il talento degli attori, tutti perfettamente calati nei loro ruoli drammatici ma emblematici di una saga familiare che è rimasta un caso mediatico internazionale. Un film affascinante, chiaroscurale, denso di energia da thriller con interessanti risvolti umani come quelli del mitico Jean Paul Getty, rappresentato come un ‘taccagno’ dall’inestimabile patrimonio, che è anche un po’ il simbolo di una certa plutocrazia americana e della sua etica attuale.

®Riproduzione Riservata

Cinecult: l’ora più buia di Joe Wright

Cover_Courtesy of Universal Pictures

Un Churchill così non si era mai visto: dall’intimità più umoristica che lo dipinge come una macchietta in vestaglia rosa a fiori e con i piedi nudi alla fierezza del suo lato pubblico da ‘leone’ con tutta la sua magniloquente energia e la sua tempra sanguigna, la sua umanità e i suoi mille dubbi nel portare l’Inghilterra a schierarsi con la Francia nel maggio del 1940 fortemente convinto del valore della resistenza per combattere il comune nemico, Adolf Hitler. Questo e molto altro ancora nella bella pellicola storica ‘L’ora più buia’ (The Darkest Hour) diretta da Joe Wright, regista premiato ai Bafta e distribuita da Universal Pictures con Gary Oldman candidato all’Oscar in splendida forma nel ruolo del grande Winston Churchill, coraggioso e caparbio nelle scelte e nominato primo ministro il 9 maggio 1940 dopo Neville Chamberlain (Ronald Pickup), che nel frattempo era condannato a un infausto destino per via del suo cancro incalzante. Nei giorni in cui il dittatore tedesco stava per invadere la Francia Churchill, pur essendo un personaggio poco popolare in Parlamento per via delle sue trascorse vicissitudini di Gallipoli, doveva formare necessariamente un governo di coalizione per far fronte all’emergenza di un’invasione dell’Inghilterra da parte delle truppe naziste. Brusco e irruento, ma anche saggio e facondo oratore, Churchill che aveva il peso del mondo sulle sue spalle in quelle ore disperate, deve convincere della validità della sua strategia di governo il re che non lo aveva mai perdonato per aver approvato il matrimonio del fratello con Wallis Simpson e che era inizialmente favorevole alla linea diplomatica morbida e aperta a trattative di pace con Hitler portata avanti dal Visconte di Halifax(interpretato da Stephen Dillane). Churchill è affiancato dalla sua ‘roccia’, la sublime Kristin Scott Thomas che si cala con disinvoltura nel ruolo di Clemmie Churchill, la moglie del primo ministro che alla vita pubblica del marito aveva sacrificato la sua sorte di donna amata ma anche trascurata, Churchill cerca disperatamente di salvare dalla furia nazista le truppe inglesi di fanteria accerchiate dal nemico a Dunkerque, 300.000 uomini sacrificando purtroppo i 4.000 soldati della guarnigione stanziata a Calais: fra questi, vittime di avverse e tragiche circostanze c’è anche il fratello di Elizabeth Layton, segretaria di Churchill, timida, fragile ma anche decisa interpretata da Lily James, attrice di grande talento. Il film coglie tutto l’arco delle sfumature emotive del grande statista che credeva nel coraggio di essere sé stessi e nelle proprie idee. Memorabile la scena girata in metropolitana in cui il capo del governo si rende conto del favore popolare alla sua linea dura contro il nemico Hitler. La storia gli ha dato ragione e ha premiato il suo carattere indomabile e la sua incapacità di dominare le emozioni, apparente difetto ereditato dal padre che ha modellato la sua personalità rendendolo un colosso. Film interessante e avvincente per chi vuole scoprire i risvolti più ‘mondani’ e concreti di un personaggio titanico della storia universale e la sua profonda carica umana.

®Riproduzione Riservata

Cinecult: l’Inganno di Sofia Coppola

Sofia Coppola, premiata con un meritatissimo riconoscimento alla miglior regia all’ultimo festival di Cannes, esplora i contraddittori risvolti della psicologia femminile nel suo nuovo film ‘L’Inganno’ distribuito da Universal Pictures. Tratto dal romanzo ‘The Beguiled’ di Thomas Cullinan e remake del film ‘La notte brava del soldato Jonathan’ di Don Siegel con Clint Eastwood, il film è un thriller carico di tensione ambientato in Virginia nel 1864 durante la Guerra di Secessione e riunisce un cast femminile di primordine: il premio Oscar Nicole Kidman nel ruolo di Martha, e le sue attrici predilette Kirsten Dunst (Edwina) ed Elle Fanning (la adolescente Alicia) affiancate dal vincitore del Golden Globe Colin Farrell nei panni del caporale nordista Jonathan McBarney. Questi, trovato ferito a una gamba nel bosco dalla piccola Amy trova rifugio in un collegio femminile diretto da Martha Famsworth, una facoltosa signora caduta in disgrazia a causa della guerra, che ospita Edwina, Alicia e altre 4 fanciulle ‘che non hanno trovato altro posto dove andare’. La Coppola affronta il tema dell’isolamento femminile durante la guerra civile dal punto di vista delle donne ritratte come caritatevoli e diaboliche insieme. Il film è un ‘Southern gothic’ dove il fuoco arde sotto la cenere e la violenza del cuore umano è rappresentato come un tema senza tempo, che prescinde dal periodo in cui si svolge la storia. Tutto il pathos del film scaturisce dalla contraddizione fra la religiosità e la passione più profana e vendicativa. Le donne del collegio, che vivono in una lussuosa dimora neoclassica americana testimone della decadenza della vita in tempo di guerra, trattano il caporale con sospetto: lo assistono sottoponendolo alle migliori cure, ma pur essendone attratte soprattutto fisicamente, come nel caso della fragile Edwina, percepiscono il pericolo insito nella condizione del nemico. La molla del desiderio sessuale fa scattare un coacervo di emozioni ambigue e sottili risentimenti che difficilmente le ragazze del collegio riescono a gestire. La regista sottolinea quanto possa divenire spietata una donna che non ottiene ciò che vuole. Il film è un’opera pregevole non solo perché approfondisce le asperità dell’animo umano che possono esplodere soprattutto in tempi difficili come in quelli di guerra, ma anche perché valorizza alcuni aspetti scenici come le scenografia, la fotografia e i costumi portandoli ad alti livelli. Notevole nella sua ricostruzione storica il lavoro della costumista Stacey Battat che ha già collaborato in passato con Sofia Coppola e contribuisce a trasformare alcune scene, specialmente quelle delle cene, in autentici ‘tableaux vivants’. Una pellicola illuminante sulla condizione umana, sapientemente orchestrata.

®Riproduzione Riservata

Cinecult: Atomica Bionda di David Leitch

credit jonathan prime 

Le sue erotiche scarpe rosse in vernice dal tacco a spillo diventeranno una pagina della storia del cinema. Poco prima che crolli il muro di Berlino arriva lei, l’atomica virago Lorraine Broughton alias Charlize Theron, diretta da David Leitch in un film thriller, ‘Atomica bionda’ inquietante e ad alto tasso di adrenalina distribuito da Universal Pictures. Nel cast spiccano un ottimo John Goodman, ambiguo e imperscrutabile, e James McAvoy che interpreta David Percival, spietato e ineffabile che la pensa così : “ chi sceglie di fare la spia può finire in un modo solo”. Spy story ricca di sorprese e colpi di scena’ Atomica bionda’ è un adattamento cinematografico di ‘The coldest city’ romanzo di Antony Johnston illustrato da Sam Hart e si svolge in uno scenario in costante evoluzione soprattutto nella città di Berlino mentre sta per crollare il Muro e i servizi segreti dei due schieramenti sono in gran fermento perché si contendono una lista racchiusa in un orologio che contiene il nome di un’ipotetica talpa la cui identità è la vera chiave di volta del film. “Il mondo gira intorno ai segreti” dice non a caso Percival convinto che ‘nel fare le spie ci si sveglia a fare gli assistenti del demonio”. Molte le scene d’azione anche piuttosto cruente dove sono estremamente curati i costumi, ottima la colonna sonora che ricostruisce con perizia le atmosfere di quel travagliato ed euforico periodo. Atomic Blonde più che un personaggio è un archetipo femminile che non manca di sedurre lo spettatore tenendolo incollato alla poltrona con le sue tragiche e violente imprese. Non mancano le scene lesbo-chic che danno un sapore neo-punk e glamour allo spirito che pervade il film. Che è tutto giocato su un principio: “Mai abbassare la guardia meditando ogni singola mossa come in un gioco di scacchi e guardarsi sempre le spalle”, un po’ come è a volte nella vita.

®Riproduzione Riservata

Cinecult: Spiderman: homecoming di Jon Watts

Grandi poteri esigono grandi responsabilità: ne sa qualcosa Peter Parker, l’uomo ragno animato da una ‘determinazione entusiasmante’ ma che sembra non farne una giusta. Eroe di quartiere che pare un ninja con la sua tuta calzamaglia a effetto e le sue strampalate ragnatele, il nuovo superuomo della Marvel è alle prese con dei criminali che trafficano in armi illegali per distruggere i supereroi e le loro attrezzature.
Questo il plot di ‘Spiderman: Homecoming’ diretto da Jon Watts e distribuito da Warner Bros. Entertainment Italia.
Il giovane Peter Parker / Spider-Man (Tom Holland), reduce da un clamoroso debutto in Captain America: Civil War, entra nell’Universo Cinematografico Marvel in Spider-Man: Homecoming. Acclamato in tutto il mondo, Spider-Man è il personaggio dei fumetti più popolare della storia e il fiore all’occhiello della Marvel Comics. Ora, ‘torna a casa’ in un film dai toni nuovi, divertente e fresco, prodotto dai Marvel Studios, che per la prima volta porta il Peter Parker dei fumetti sul grande schermo al fianco degli eroi del Marvel Cinematic Universe. Entusiasta della sua esperienza con gli Avengers, Peter torna a casa, dove vive con la zia May (Marisa Tomei), sotto l’occhio vigile del suo nuovo mentore Tony Stark (Robert Downey, Jr. e Iron Man). Peter cerca di tornare alla sua routine quotidiana, distratto dal pensiero di dover dimostrare di valere di più dell’amichevole Spider-Man di quartiere, ma quando l’Avvoltoio (Michael Keaton) appare come un nuovo cattivo, tutto ciò a cui Peter tiene maggiormente viene minacciato.
È arrivato il momento di dimostrare di essere un eroe. Ha appena 15 anni ma deve tirar fuori il meglio di sé in scene eclatanti come quella nell’obelisco di Washington o quella davvero spettacolare girata su un battello. Il giovane supereroe prende sul serio i suoi poteri: “Spiderman non è mica una carnevalata” e con il suo cuore tenero vorrebbe fidanzarsi con la figlia del suo più acerrimo nemico. Tuttavia anche se all’inizio è uno stagista ansioso di andare in missione e riesce a fermare un autobus a mani nude, alla fine come dice Robert Downey, Jr, è un eroe springsteeniano della classe operaia. Divertenti le riprese in diretta con video girati a braccio che animano la prima parte del film.
Fra intrattenimento di livello, romanticismo scanzonato e alto quoziente di umorismo non si rischia davvero di annoiarsi.

®Riproduzione Riservata

Cinecult: I Pirati dei Caraibi: la vendetta di Salazar di Joachim Rønning ed Espen Sandberg

Spiagge assolate e cristalline ma anche morti viventi, duelli all’ultimo sangue, mappe straordinarie con rubini incastonati, galeoni magici che mutano formato e dimensione improvvisamente in mezzo al mare. Questo e altro ancora in “I pirati dei caraibi: la vendetta di Salazar” diretto da Joachim Rønning ed Espen Sandberg e distribuito da Walt Disney Pictures. Il ‘passero’ Jack Sparrow, bucaniere dandy dai mille talenti e attrattive, interpretato dall’inossidabile Johnny Depp è tornato, più seducente e ironico che mai. Adora i soldi e le sottane e non ha paura di niente e di nessuno, sempre alla ricerca di arcani tesori e di nuovi linguaggi da decifrare. Stavolta dovrà vedersela con il macellaio dei mari il capitano Salazar (Javier Bardem) tornato dall’oltretomba per vendicarsi dell’umiliazione subita vari anni prima dallo stesso Sparrow nel cosiddetto spaventoso ‘Triangolo del diavolo’. Alla compagnia si uniscono la bella astronoma Carina Smyth (Kaya Scodelario) e il giovane Henry Turner (Brenton Twaites), marinaio dell’esercito di Sua Maestà che nel film si cala nei panni del figlio del pirata Will Turner interpretato da Orlando Bloom sul quale pesa una maledizione che solo il potere emanante dal tridente di Poseidone potrà spezzare.
Il film è il quinto capitolo della saga di Pirati dei Caraibi e il sequel di Oltre i confini del mare, uscito nel 2011. Torna anche il personaggio del corsaro Hector Barbossa (Geoffrey Rush) legato per vincoli affettivi e familiari alla giovane e intrepida astronoma. Il film, ipervisivo e mirabolante, è ricco di colpi di scena e di scene spettacolari ambientate in mare ma anche sulla terraferma: memorabile quella della ghigliottina che diventa itinerante e si trasforma in un’esilarante marchingegno. Da segnalare il cammeo di Paul McCartney che nel film interpreta lo zio di Jack Sparrow. Notevole la performance di Bardem, ricostruito con effetti speciali degni di nota, che gioca un po’ il ruolo del dandy latino ferito nell’orgoglio. Fra mostri animati e acque che si aprono tutto conferma come dice il giovane Turner che ‘I miti del mare sono reali’. E così di nuovo realtà e fantasia si confondono magicamente per valorizzare i poteri magici e misteriosi di mappe e il lato oscuro degli oceani. Convinti che per liberare il potere del mare bisogna dividere il tridente collocato sulla tomba di Poseidone. E’ un sogno l’apparizione di Keira Knightley, resa ancora più glamour dalla costumista Penny Rose. Una piccola avvertenza: si consiglia di non lasciare la sala prima che siano terminati i titoli di coda. Ne vedrete delle belle.

®Riproduzione Riservata

Cinecult: Life. Non oltrepassare il limite di Daniel Espinosa

cover credit: Sony Pictures

Oggigiorno si va su Marte per scoprire nuove forme di vita. Cosa accadrebbe quindi, se le scoprissimo realmente? Cosa avverrebbe nel momento in cui comunicassimo o ci relazionassimo a esse? A questi e ad altri quesiti nodali cerca di dare risposte l’agghiacciante thriller fantascientifico ‘Life. Non oltrepassare il limite’ diretto da Daniel Espinosa e distribuito da Warner Bros. Entertainment Italia. Il film che vanta un cast internazionale di primordine – Ryan Reynolds, Jake Gyllenhaal, Rebecca Ferguson fra gli altri e una fotografia estremamente suggestiva, è per citare un portavoce della Sony, “un thriller horror che si pone diversi interrogativi, tra cui quello relativo a come si comporterebbe l’uomo se trovasse la vita su Marte”. Il film esprime in modo serrato e pregnante il coraggio dell’uomo e il desiderio di esplorazione ai limiti della conoscenza. In occasione della presentazione del film l’astronauta Paolo Nespoli in partenza per una missione spaziale chiamata anch’essa Life come il film ha spiegato che “Conoscere una forma di vita aliena sarebbe bello, i film ci hanno abituato a una forma con la testa grande e le antenne, forse però come mostra Life potrebbero essere diversi. Sulla stazione spaziale abbiamo procedure di sicurezza per ogni cosa possibile, ma non sull’incontro con gli alieni. Immagino che nel momento in cui si comincerà l’esplorazione su Marte questo sarà un argomento caldo. Noi dobbiamo sterilizzare tutto, ma nel momento in cui metteremo piede sul pianeta lo contamineremo”. In generale il film è una prova riuscita perché corrisponde in modo appropriato all’idea ‘realistica e contemporanea’ di fare un film che si basasse su una storia che potremmo trovare nei titoli di un quotidiano di oggi. Il plot si tinge di paura quando l’organismo monocellulare che gli astronauti hanno portato sulla stazione spaziale inizia a evolversi in forme aberranti e con grave rischio per l’incolumità dell’equipaggio. I membri dello space crew saranno alle prese con una forma di vita aliena super intelligente e molto forte che somiglia più alla ‘Cosa’ di David Cronenberg piuttosto che ad ‘Alien’, una specie vitale che per sopravvivere ha bisogno di distruggere ma come asserisce un protagonista del film, “non è cattiva in sé, cerca solo di sopravvivere”. Ottima pellicola per chi ama la tensione raccontata con arguzia, adrenalina e modernità e inoltre con acuti stilistici da action movie.

®Riproduzione Riservata

 

Cinecult: Free State of Jones di Gary Ross

Dopo Dallas Buyer’s Club, il premio Oscar Matthew McConaughey continua a rappresentare un filone cinematografico impegnato per una Hollywood alternativa e di frontiera. In un momento in cui l’America sembra a rischio discriminazione con l’esito delle ultime elezioni presidenziali il divo-antidivo della mecca del cinema ha scelto di interpretare il coraggioso Newton Knight nell’epopea utopistica ‘Free state of Jones’, pellicola diretta da Gary Ross autore e cineasta già noto a tutti per film come ‘The Hunger Games’ e ‘Pleasantville’. Il film, distribuito da 01 Distribution per Rai Cinema racconta la storia vera della ‘compagnia’ di contadini e schiavi neri liberati ovvero ‘il libero stato di Jones’ che fu costituita durante la Guerra di Secessione dal fabbro Newton Knight per bandire i privilegi dei ricchi e lo sfruttamento dello schiavismo che già dopo la fine del conflitto che portò Lincoln alla presidenza degli United States, dette vita al Klu Klux Clan. “Noi non apparteniamo a nessun paese ma siamo noi il nostro paese” proclama nel film Matthew/Newt (Newton Knight) che non crede nella guerra e nella schiavitù e nel 1864 era seguito da 250 persone fra cui donne e bambini anch’essi armati per sostenere le loro ragioni di egualitarismo contro le angherie delle truppe sudiste che reclamavano a titolo di imposte quantità immense di grano, vettovaglie e altri beni preziosi per la sussistenza dei contadini della Contea di Jones e delle aree limitrofe al Sud Est del Mississippi. La comunità rimase in piedi anche dopo la Guerra fra Nord e Sud degli Stati Uniti per portare avanti fra le altre cause, la campagna per il diritto di voto delle persone di colore. Newton Knight fu una figura rivoluzionaria anche nella sfera privata tanto che avendo sposato una schiava liberata Rachel (la bellissima e talentuosa Gugu Mbatha-Raw) venne demonizzato dagli altri concittadini degli Stati del Sud. Fino a produrre conseguenze giuridiche anche negli Stati del Sud nel pieno degli anni’50 del Novecento quando a un discendente dell’eroico Newt viene impedito di contrarre matrimonio con la sua amata perché nato da persone non totalmente ‘bianche’ nel loro albero genealogico. Notevole la tensione drammatica e il realismo delle scene che documentano gli scontri bellici durante la guerra in cui Newt perse un nipote-la mortalità infantile e dei giovani era molto frequente e diffusa a quei tempi-e degna di menzione anche la scena nella quale il protagonista entra in una chiesa per ‘giustiziare’ il comandante in capo della guarnigione che tormentava i suoi proseliti. Il film, carico di tensione civile e ideologica e molto riuscito nella ricostruzione degli ambienti e dell’atmosfera dell’epoca, impartisce una lezione di storia e dignità umana ancora attuale contro ogni forma di privazione e ingiustizia civile e sociale. “Siamo tutti schiavi di qualcun altro-dice Newt- ma un figlio di Dio non può essere schiavo e ha diritto di raccogliere e godere di ciò che semina nella sua terra”. Fa riflettere a tale proposito la dichiarazione di John Stauffer, professore di storia della civiltà americana all’università di Harvard che dice : “Questa non è una storia sulla schiavitù ma di ribellione e per molti aspetti questi due termini sono all’opposto”. Come dargli torto?

@Riproduzione Riservata

Cinecult: Animali notturni di Tom Ford

ph. merrick morton-universal pictures international 

Vivamente consigliato ai lettori e agli utenti del nostro portale dedicato allo stile di un uomo in tutti gli aspetti della vita, questo film, ‘Animali notturni’ può essere tranquillamente definito un autentico capolavoro e sicuramente la pellicola che segna la maturazione nell’olimpo di Hollywood e nella tecnica cinematografica di Tom Ford, noto al mondo come uno stilista sensibile e visionario e un cineasta di successo alla sua seconda, pregevole prova dopo il pluripremiato ‘A single man’. Il film, distribuito da Universal Pictures, insignito del Gran Premio della Giuria all’ultimo Festival di Venezia descrive nella forma di un thriller romantico l’evoluzione del legame d’amore di una coppia divorziata che si trova a scoprire verità inattese dopo tanti anni di distanza. La gallerista d’arte Susan Morrow (Amy Adams) riceve dall’ex marito Edward Sheffield (Jake Gyllenhall), romanziere sensibile e tormentato, una prima copia del manoscritto che racconta la tragica e violenta storia di un padre di famiglia Tony Hastings (sempre interpretato da Gyllenhaal) che sulla strada per una vacanza perde la moglie e la figlia in seguito all’incontro-scontro con una gang di delinquenti on the road che sequestrano, stuprano e uccidono le due donne. Tony inseguirà gli assassini con l’aiuto del laconico tenente Bobby Andes (il candidato all’Oscar Michael Shannon) che cercherà la via più illegale e eterodossa per ottenere vendetta. Il romanzo si chiama ‘Animali Notturni’ ed è ispirato in modo latente alla figura di Susan che, quando erano insieme Edward era solito chiamare appunto ‘animale notturno’ perché irrequieta e incline all’insonnia. Il film sovrappone con sottile maestria due livelli narrativi apparentemente inconciliabili, il romanzo e la realtà e cioè rispettivamente il pathos e la suspence da un lato e la complessa trama delle relazioni umane e sentimentali. Le due dimensioni drammaturgiche sono legate dal tema della vendetta dello scrittore verso la sua ex moglie che lo ha abbandonato per condurre una vita tranquilla, solida ma borghese e noiosa accanto al marito Hutton che le è infedele, un uomo d’affari playboy interpretato dall’avvenente Armie Hammer. Il film ricco di suggestioni visive e costruito in modo impeccabile sia nella sceneggiatura sia nei bei dialoghi rivela tutto il talento espressivo di Ford che convoglia nel cinema la sua sensibilità estetica, evidente nella fotografia ricercata e nei costumi, e lo sviluppo di una concezione della mascolinità fragile, precaria e vulnerabile che insegue sia Edward che Tony e che ha molto toccato nel profondo Gyllenhall, candidato all’Oscar per questo film insieme a Amy Adams, dalle indimenticabili chiome fulve. Del film ricorderemo in particolare una battuta: “chi scrive ha il compito di tenere vive le cose perché grazie alla scrittura possano sopravvivere e durare per sempre”, efficace, realistica e romantica come questo magnifico film da vedere e rivedere.

@Riproduzione Riservata

Cinecult: Roberto Bolle l’arte della danza di Francesca Pedroni

Ha danzato davanti alla Regina Elisabetta II d’Inghilterra e a Papa Giovanni Paolo II. Appassionato, carismatico e apollineo, Roberto Bolle è considerato l’artista che ha regalato all’arte della danza l’entusiasmo riservato finora alle star del pop. In questo docu-film di Francesca Pedroni ‘Roberto Bolle l’arte della danza’ presentato in anteprima al 34esimo Torino Film Festival, distribuito da Nexo Digital e nelle sale italiane fino al 23 novembre, l’étoile del balletto si racconta fra realtà e intimismo rivelando aspetti inediti di quella che è a oggi una grande star della danza internazionale, ambasciatore dello stile italiano nell’arte della performance del balletto in tutto il mondo. Il film è impostato come un tour che documenta le tappe dell’itinerario artistico di Bolle sullo sfondo di tre location d’eccezione: l’Arena di Verona, il Teatro Grande di Pompei, le Terme di Caracalla a Roma. Un tour rappresentato attraverso immagini esclusive tratte dal palcoscenico come dal backstage degli spettacoli. Il film è anche un ritratto dell’uomo e dell’artista Bolle attraverso il suo galà ‘Roberto Bolle & Friends’ che associa l’étoile a dieci eccezionali danzatori di tutto il mondo scelti dallo stesso Bolle per avvicinare la danza a un pubblico di migliaia di spettatori: Nicoletta Manni, del Teatro alla Scala, Melissa Hamilton, Eric Underwood, Matthew Golding del Royal Ballet di Londra, i gemelli Jiři e Otto Bubeníček, rispettivamente del Semperoper Ballet di Dresda e dell’Hamburg Ballett, Anna Tsygankova del Dutch National Ballet di Amsterdam, Maria Kochetkova e Joan Boada del San Francisco Ballet, Alexandre Riabko dell’Hamburg Ballett. Ad arricchire il film interviste, riprese delle varie fasi di lavoro, spettacoli, riflessioni personali dell’artista, nel tentativo di approfondire il tema del rapporto totalizzante tra un uomo e la sua arte. Perché Bolle, stakanovista della disciplina, si affida alla danza accettando fino in fondo ciò che impone al corpo e allo stile di vita. Il film ci introduce quindi in un percorso che alla scoperta di emozioni vere alterna la preparazione atletica alle prove dello spettacolo, l’organizzazione del tour alla scelta degli artisti e dei brani degli spettacoli. Per usare le parole dello stesso Bolle : “La danza è il fuoco che ho dentro. Mi ha formato, mi ha dato un’identità.
L’uomo che sono ora lo devo alla danza”. Elegante e smart Bolle è stato anche scelto da varie maison di moda per interpretarne lo spirito. Un modello da seguire e da emulare per chi voglia essere gentleman in town.

@Riproduzione Riservata

Cinecult: Inferno di Ron Howard

Courtesy of Warner Bros. Pictures

Lasciate ogni speranza voi che entrate: si potrebbe iniziare così il racconto dell’ultimo capitolo della trilogia legata al ‘Codice da Vinci’ e ‘Angeli e Demoni’ e tratta dai romanzi di Dan Brown. Come nei precedenti film il protagonista è Tom Hanks alias Robert Langdom, studioso e colto enigmista che nel nuovo film ‘Inferno’ magistralmente diretto da Ron Howard e distribuito da Warner Bros. Pictures deve fare i conti non con la teologia ma con la realtà contemporanea. Qui lo scienziato dal pensiero veloce deve vedersela con la minaccia di esplosione di un virus letale progettato a tavolino da un folle miliardario, il bioingegnere Bertrand Zobrist (Ben Foster). Il personaggio vuole così risolvere il problema della sovrappopolazione mondiale che secondo lui è alla base di ogni male dimezzandola. Langdom si sveglia in una clinica di Firenze dove è ambientata una parte del film ed è inizialmente vittima di una temporanea amnesia trovandosi inseguito da uomini misteriosi che vogliono eliminarlo. Intanto inizia a collaborare con la dottoressa Sienna Brooks (Felicity Jones) che lo aiuta a recuperare la memoria. Il film prende le mosse dalla decifrazione di una rappresentazione di Botticelli de l’Inferno di Dante che per Langdom è sia uno stato mentale che fisico dato che è tormentato da un mal di testa di cui non comprende l’origine. Il plot sviluppato egregiamente e diretto da Ron Howard è un susseguirsi appassionante di inseguimenti attraverso i cunicoli di Palazzo Vecchio a Firenze, la Basilica di S. Marco a Venezia e Santa Sofia a Istanbul dove si conclude la saga emozionante del filosofo dalle mille risorse che deve salvare il mondo dalla pandemia. Il film che sembra girato come se i protagonisti percorressero davvero dei gironi infernali, è diviso in due parti ben precise: un primo tempo più raccapricciante e tendente quasi al macabro con scene truculente ma sicuramente ben realizzate che hanno determinato gli strali della censura, e una seconda parte più dinamica da cardiopalma in cui in una vertigine di sequenze da action movie e spy story da brivido il protagonista capisce chi sono i suoi veri alleati e per contro gli artefici della predisposizione del virus Inferno. E quindi ritrova al suo fianco nell’Organizzazione Mondiale della Sanità perfino un alto dirigente che è stata una sua vecchia fiamma, la Dottoressa Elizabeth Sinsky interpretata da Sidse Babett Knudsen. Decisamente pirotecnica l’interpretazione di Omar Sy nel ruolo di Christoph Brouchard che ha permesso al brillante attore francese di calarsi nei panni di un ‘tipo tosto’ come lui stesso lo ha definito. Una nuova tappa nel racconto dell’eterna lotta fra Bene e Male dove stavolta le carte sono ancora più confuse e il pubblico è sottoposto ad angoscianti dilemmi oltre che a una bufera di emozioni. Godetevelo tutto d’un fiato.

®Riproduzione Riservata

Cinecult: Café Society di Woody Allen

Courtesy of Warner Bros. Pictures

Non è la prima volta che Woody Allen porta sullo schermo film nostalgici dal sapore rétro e ambientati nel passato: si pensi a ‘Radio Days’ e a ‘La rosa purpurea del Cairo’. Ma qui il regista sembra aver superato sé stesso. In ‘Café society’ scritto e diretto dal grande cineasta americano, distribuito dalla Warner Bros. Pictures, Woody Allen ha portato un romanzo sul grande schermo, la storia di Bobby (il geniale Jesse Eisenberg) che dal Bronx vola nella Los Angeles degli anni’30 per trovare un lavoro grazie a suo zio Phil (un sempre sorprendente Steve Carell) che lo introduce nello star system ma troverà invece l’amore, intrecciando una relazione tormentata con Vonnie (Kristen Stewart) segretaria dello zio che ridurrà il suo cuore in frantumi rifiutando la sua proposta di matrimonio. Il ragazzo di belle speranze trasloca allora a New York da cui è venuto e aiuta il fratello malavitoso Ben (Corey Stoll) a dare vita a uno dei locali più alla moda della metropoli dove incontra la splendida Veronica (Blake Lively) con cui convola a nozze ma non smetterà mai di pensare a Vonnie perché come gli fa dire il regista nel film:“Le emozioni non muoiono mai”. Il film, la cui superba sceneggiatura ricorda molto vagamente e in modo molto più intimistico ‘Il grande Gatsby’, è straordinario e andrebbe visto più volte: anzitutto per la fotografia di Vittorio Storaro che per la prima volta ha collaborato con Woody Allen producendo acuti di stile e avvalendosi di effetti digitali. “New York dipinge la sua luce sui suoi palazzi” dice Bobby a Vonnie durante un incontro galante o altrove si parla di una città avvolta nella morbida luce del crepuscolo. Poi ci sono i formidabili costumi di Suzy Benzine che, dal glamour modernista ed effimero di Los Angeles dove le star del cinema si vestono solo per andare alle prime, vira bene alla Café society di New York composta dai circoli dei nababbi e dei signori di rango della Grande Mela che rievocano l’epoca Jazz con abiti di taglio sartoriale molto sofisticati ed eleganti soprattutto per le signore perché ispirati al gusto parigino dei grandi atelier. Elegantissimi à la Vionnet i lunghi abiti a sirena di una innocente e vulnerabile Blake Lively ammaliata dal fascino di Bobby “Voi ebrei siete esotici e misteriosi e talvolta avete una gran faccia tosta” dice al protagonista mentre costui è intento a sedurla. Alcuni personaggi come i genitori e il cognato di Bobby incarnano la sapienza filosofica di Woody Allen che cita Socrate quando dice che ‘La vita merita di essere analizzata ma analizzarla poi alla fine non è poi un grande affare”. Difficile dargli torto. Ottima prova.

®Riproduzione Riservata

Cinecult : Bridget Jones’s Baby di Sharon Maguire

credit cover GILES KEYTE

Bridget ha 44 anni, ha rotto con il fiero avvocato Mark Darcy e ha perso svariati chili di troppo e il vizio del fumo ma non il cattivo gusto nel vestire e la vocazione a combinare guai senza risparmiare né il lavoro né la vita amorosa. E per un’inguaribile romantica come Bridget Jones, interpretata ormai per la terza volta con successo e simpatia da Renée Zellweger, (premio Oscar peraltro per ‘Chicago’), qui ancora cronista maldestra attualmente al servizio della nuova informazione ‘all by myselfie’ dell’era 3.0 sicuramente due è meglio di uno, specialmente quando si tratta di scegliere il papà giusto per il suo bambino. E’ tutto nel nuovo film ‘Bridget Jones’s Baby’ diretto da Sharon Maguire e distribuito da Universal Pictures. Tutti i suoi amici, perfino Tom (James Callis), il gay della pazza comitiva di ‘fratelloni di sventura’, hanno messo la testa a posto mettendo su famiglia. Per cui è arrivato anche il momento della svolta di Bridget che, pur dedita a fantastiche avventure nel talamo con tipi molto appetibili almeno sulla carta come il bel Jack Qwant (Patrick Dempsey), un principe azzurro alla rovescia che estrae dal fango la mitica scarpetta della favola, non riesce a dimenticare il suo amore di sempre, l’ingessato e tenero Mark Darcy (Colin Firth premio Oscar fra gli altri per ‘Il discorso del re’), parruccone molto sexy (non sulla carta però). Magari si sente un po’ la mancanza di Hugh Grant alias Daniel Cleaver ad animare e dare pepe alla storia ma non tutto è perduto (dobbiamo aspettare un sequel?) perché l’esilarante anti-eroina creata da Helen Fielding, suo malgrado esplora il mondo del web e quello della relazionalità ‘poliamorosa’ vissuta da molte donne quarantenni di oggi ampliando i suoi orizzonti. Dopo due incandescenti incontri galanti, Bridget resta incinta così per caso senza pensarci imbattendosi in una ginecologa un po’ sui generis (una convincente Emma Thompson premio Oscar per la serie ‘Tata Matilda’), paleo-femminista ed ex ragazza madre che dona un tocco di sapido sarcasmo in più a tutta la vicenda. Ma sul futuro di Bridget, illuminato da un matrimonio regale da romanzo d’appendice in versione parodistica (indovinate con chi?) pesa ancora una diabolica incognita che potrebbe cambiare di nuovo il suo destino. Il film gode di ottime musiche, belle ambientazioni, situazioni esilaranti come il maxi concerto allestito nel week-end festival, dialoghi esuberanti e un’interessante visione del problema dell’informazione e del ‘ ritorno dell’integrità e della democrazia nel mondo mediatico’ per usare le retoriche ma pregnanti parole di Bridget. L’abbiamo amata nei primi 2 capitoli e continueremo ad amarla anche qui con quei ‘ritocchini’ per i quali la diva vincitrice di un Golden Globe per ‘Betty Love’ ha rivendicato il suo sacrosanto diritto. Il tutto senza magari nutrire troppe aspettative su una commedia che, pur in qualche lacuna di sense of humour e la mancanza delle scoppiettanti gag dei primi 2 episodi, riesce a far trascorrere piacevoli momenti davanti al grande schermo risvegliando positività e romanticismo ormai dati per dispersi nel filone della commedia brillante, agrodolce e vagamente demenziale oggi in auge nelle sale.

@Riproduzione Riservata

Cinecult: Il disagio femminile trionfa sul red carpet del cinema di Venezia N° 73

Si è aperto con le scene danzanti di un musical rutilante, ‘La La Land’ con Ryan Gosling ed Emma Stone e si è chiuso con la cavalcata trionfante dell’epico kolossal western fuori concorso ‘I magnifici sette’ remake dell’originale con Denzel Washington e attualmente distribuito da Warner Bros questo 73° Festival del Cinema di Venezia. Il Leone d’Oro non è andato a un film tricolore né tantomeno all’osannato Sorrentino che ha presentato in pompa magna il suo ‘The Young pope’, miniserie televisiva scritta e diretta dall’amato regista ed esponente in parte del filone ieratico del festival, né ad altri autori italiani che secondo alcuni critici poco benevoli hanno bruciato un’occasione in più.
La femminilità prostrata della protagonista dell’interminabile film del filippino Lav Diaz ‘The woman who left’ ha trionfato con il suo bianco e nero sul corpo parlante e ubertoso di una matura e bellissima Monica Bellucci, immortalata senza veli da Paris Match che ha recitato nell’ultimo film di Emir Kusturica nella pellicola ‘On the milky road’. Chi si aspettava scandali, oscenità, drammi ad animare la kermesse della Serenissima è rimasto cocentemente deluso: la Biennale celebrata in laguna sotto lo sguardo di una giuria di prestigio capitanata da Sam Mendes, cineasta raffinato, e composta fra gli altri da Giancarlo De Cataldo, Chiara Mastroianni, Lorenzo Vigas e Laurie Anderson ha premiato alcuni buoni titoli che presto vedremo sui nostri grandi schermi. A cominciare da ‘Animali Notturni’ gran premio della giuria di questa edizione del festival, un film scritto e diretto da Tom Ford, stilista e regista di talento che torna dietro la macchina da presa dopo ‘A single man’ con una storia convincente che concilia il thriller e la suspence con la sua mania estetizzante che lo ha reso giustamente famoso. Nel film giganteggia ancora una figura femminile bella e ricca interpretata da Amy Adams che deve fare i conti con un amore del passato torrido, affascinante e squattrinato come Jake Gyllenhaal fra eros e vendetta.
Le altre dame del Festival hanno suscitato l’ammirazione del pubblico e dei fan ma senza troppo glitter e glamour, usando semplicemente l’arma della seduzione verbale: si va da Emma Stone, la musa di Woody Allen che ha sfilato nel suo scintillante modello di Atelier Versace (marchio apprezzato anche da Rania di Giordania), conquistandosi l’ambita Coppa Volpi per ‘La La Land’ fino a Natalie Portman, anch’essa favorita per la prestigiosa Coppa per il film ‘Jackie’. Il biopic di Pablo Larrain sull’icona americana andata sposa in seconde nozze a Onassis e interpretato con grazia e intensità dalla Portman ha comunque portato a casa un premio alla sceneggiatura per Noah Oppenheim.
Ha fatto un po’ discutere critici e pubblico del festival il Leone d’Argento ex aequo andato a due film radicalmente diversi: il poetico Paradise del formidabile russo Andrei Konchalovsky che ha affrontato il tema dell’Olocausto, e ‘La Region Salvaje’ del messicano Amat Escalante un po’ surreale e poco comprensibile in verità. Fra gli altri riconoscimenti spicca il premio di migliore attore a Oscar Martinez, interprete di ‘El ciudadano illustre’ diretto da Cohn e Duprat, un bel film di sceneggiatura come l’ha definito Emiliano Morreale su ‘La Repubblica’ e quello a Paula Beer per il film ‘Frantz’ di François Ozon che affronta il nazismo da un punto di vista teutonico. Truculento ma lussuoso e sicuramente da vedere il film ‘The bad batch’ un ‘western psichedelico’ firmato dalla regista Ana Lily Amirpour che intreccia tensione drammaturgica e cannibalismo premiato con il premio speciale della giuria. Ha sedotto un’ampia fetta di critici Stehane Brizé con il suo ‘Une vie’ che si rifà all’Ottocento nostalgico e languido di Maupassant. Interessante il gradevole ‘Tommaso’ con Kim Rossi Stuart che con grazia e senza banalità porta sul grande schermo la crisi d’identità del maschio moderno. Ha diviso la platea e il pubblico in sala il film ‘Piuma’ della pisana Roan Johnson distribuito da Lucky Red uno dei film italiani più sorprendenti ma trascurati dalla giuria non giustamente: esorcizza la paura diffusa di fare un figlio con spirito, ottimismo e ironia. Fra gli altri ci sono anche ‘Spira Mirabilis’ e ‘Questi giorni’ di Giuseppe Piccioni con un cammeo di Margherita Buy. Premio di consolazione al documentario sugli esorcismi ‘Liberami’ di Federica Di Giacomo vincitore della sezione Orizzonti.. E sono proprio i documentari quelli che ricorderemo forse di più di quest’ultima edizione n°73 del Festival: da quello, distribuito da BIM sulla vita di Rocco Tano, alias Rocco Siffredi realizzato da Thierry Demaizière e Alban Teurlai e presentato alle Giornate degli Autori fino a due docufilm sulla moda. Il primo diretto da Dario Carrarini, ‘L’eleganza del cibo’ che è l’evoluzione cinematografica di una mostra approdata perfino a New York con i suoi addentellati fra food e fashion mentre il secondo, dedicato alla direttrice di Vogue Italia Franca Sozzani, ‘Franca, Chaos and creation’ girato dal figlio fotografo Francesco Carrozzini penetra nell’intimo di una delle donne più potenti e temute del fashion system scavandone l’anima.

@Riproduzione Riservata

Cinecult : Tom à la ferme di Xavier Dolan

Dal mélo al thriller rurale, dalle metropoli canadesi a una fattoria che somiglia tanto al motel di Psycho riecheggiato dalla colonna sonora.
Il film ‘Tom à la ferme’ di Xavier Dolan, presentato al Festival di Venezia del 2013, e attualmente nelle sale italiane, è quello che precede direttamente l’epico dramma ‘Mommy’, davvero indimenticabile. Questo film interpretato da un Dolan dai capelli platinati nel ruolo di Tom un pubblicitario rimasto privo del suo compagno Guillaume, apre la finestra su una nuova, inquietante dimensione dell’immaginario queer del visionario cineasta canadese che insinua nella trama enigmatica delle sfumature surreali e con un plot sorprendente racconta i segreti di una fattoria dove tutto è ambiguo e ancestrale. Tom si reca in campagna a conoscere la bizzarra madre Agathe e il fratello Francis, macho e manesco, del suo compagno Guillaume. Ma scopre sconcertato che la mamma del suo defunto ragazzo è convinta che il figlio fosse legato a una ragazza, la sbarazzina Sarah che s’introduce nella trama del racconto quasi rompendo gli schemi di un ordine sociale dove la parola ‘omosessualità’ deve essere categoricamente bandita. Divertente la scena del tango fra Francis e Tom fra i quali nasce uno strano rapporto descritto in un climax di tensione e di violenza, fra l’aggressività di Francis e il carattere indeciso, vulnerabile di Tom, plagiato dal seducente bifolco che lo insegue nei campi di granoturco. Sicuramente una digressione di suspence e di giallo nella cinematografia del prolifico regista classe 1989. Non ha la carica e il pathos di ‘Mommy’ né l’ironia folgorante di ‘J’ai tué ma mère’ ma è senz’altro una pellicola interessante, con risvolti singolari e scene secche e forti cifra ormai distintiva di Dolan.

@Riproduzione Riservata

Cinecult: L’identità queer si racconta al festival Mix Milano

cover tratta dal film Ville Marie

Cala il sipario in questi giorni sulla 30° edizione di Festival Mix Milano, la manifestazione milanese di cinema e musica ideata e diretta da Giampaolo Marzi e votata a raccontare con un respiro internazionale le ultime evoluzioni della sensibilità gay e lesbica nel mondo della settima arte. Una vetrina affacciata sulla realtà di oggi sempre più problematica e inquietante in cui una volta di più si torna a interrogarsi sui vari risvolti dell’identità di genere e sulle accezioni che assume nel villaggio globale la parola diversità. Organizzato da Associazione Culturale MIX Milano, in collaborazione con Immaginaria, storico Festival Internazionale del Cinema delle Donne, Ribelli, Lesbiche, Eccentriche, in collaborazione con Milano Film Network, la rete dei festival di cinema milanesi il festival di quest’anno ha decretato fra i lungometraggi la vittoria di Barash di Michal Vinik, un pregevole film israeliano che narra la storia di una diciassettenne lesbica con una passione per alcol e droghe in netta antitesi all’atmosfera sessista del suo ambiente familiare. Secondo la motivazione della giuria “E’ un film che, grazie a una certa ricerca e attenzione al dettaglio incontra e rappresenta al meglio le nuove generazioni. La pellicola unisce a una narrativa di puro intrattenimento temi forti come il “confine”, interiorizzato o esteriorizzato, e il dialogo con ciò che vive al di là del muro, comunque si percepisca tale muro”. Molto apprezzati tanto da aggiudicarsi gli ambiti riconoscimenti della giuria dei lungometraggi anche ‘La belle saison’ di Catherine Corsini che innesta una love story saffica francese di rara poesia e bellezza nella cornice tumultuosa delle rivendicazioni femministe degli anni’70, senza parlare del filosofico ‘Liebmann’ di Jules Herman in cui un uomo decide di lasciarsi alle spalle la sua vita in Germania per trasferirsi nel nord della Francia dove incontrerà l’amore, ma prima di gustarsi la nuova vita dovrà fare i conti con i fantasmi del passato, e ‘Jason and Shirley’ di Stephen Winter, in concorso ufficiale all’ultimo BFI Flare London LGBT Film Festival. Il film immagina l’elettrizzante e complicato dietro le quinte della notte in cui venne girato il documentario ‘Portrait of Jason’, un classico del cinema queer, ad opera della filmmaker ebrea premio Oscar Shirley Clarke nel 1967. Fra i vari film da segnalare oltre a quelli insigniti dei premi delle varie giurie merita una menzione speciale ‘Theo et Hugo dans le même bateau’ di Olivier Ducastel e Jacques Martineau che ha aperto il programma del festival, insieme a ‘Ville Marie’ con una sensuale Monica Bellucci nel ruolo di Sophie, una grande diva che dopo anni incontra il figlio gay afflitto da varie problematiche affettive ed esistenziali e ossessionato dalla ricerca del padre che non ha mai conosciuto. Notevoli anche alcuni documentari imperniati sull’identità; fra i vari docu-film in concorso la giuria del festival ha premiato ‘Coming out’ di Alden Peters in quanto la rivelazione privata di un ragazzo gay diventa espressione di una storia universale che affronta in modo istintivo ed efficace temi come l’omofobia e il bullismo.

@Riproduzione Riservata

Cinecult: Sexxx di Davide Ferrario

Corpi semi nudi che si intrecciano, flirtano, si abbandonano a languide pose simulando torridi amplessi per una messinscena cinematografica inedita del linguaggio della danza d’avanguardia. Tutto questo e altro è ‘Sexxx’ diretto da Davide Ferrario, il film che ha sedotto Madonna, sugli schermi italiani solo il 4 e il 5 luglio. Tutto è nato quando il cineasta a novembre dello scorso anno è andato a Collegno (Torino) a vedere lo spettacolo di danza sensuale del coreografo Matteo Levaggi, uno di quelli che sa il fatto suo e ha dato un bello scossone al mondo sclerotizzato della danza contemporanea e del balletto. E così folgorato da quanto aveva appena visto, una serie di performance messe in scena dal Balletto del Teatro di Torino, Ferrario ha cominciato a lavorare su un ipotetico film-documentario studiando il modo migliore con il quale tradurre per il Grande Schermo le suggestioni visive di un balletto molto speciale, che sfida le regole e i tabù della nudità e della danza classica per aprire nuove prospettive sul body language. Il film mette in forma di racconto i vari quadri della coreografia di Levaggi ispirandosi alle forme espressive della pittura rinascimentale come ai set dei film per adulti, con l’intervallo di un cortometraggio piccante in forma di fiction ambientato in una stanza d’albergo. Arricchito dalle colonne sonore di David Bowie, degli Ultravox, di Massimo Zamboni-la musica originale del balletto è di Bruno Raco-il film come pure lo spettacolo è “un’istantanea sul contemporaneo, sul corpo abusato del ballerino, che ricerca sempre più potenza fisica, tecnica, costruendosi un ideale di perfezione che forse finisce per non trasmettere più emozioni: La sessualità in SEXXX è racchiusa nel titolo: è un pensiero della danza sepolto nel più profondo anfratto dellamente, quel pensiero audace che emerge dai corpi seminudi ed esposti.”
Lasciatevi guidare in un viaggio intimo alla scoperta dei nuovi linguaggi poetici e sensuali del corpo, senza falsi pudori.

@Riproduzione Riservata

Cinecult: The neon demon di Nicolas Winding Refn

“La bellezza è il valore più importante e universale, senza la bellezza non siamo niente” e ancora: “Perché perdere tempo con la carne scaduta quando puoi avere carne fresca?”. Sono solo alcune delle ‘perle di saggezza’ estetizzante e modaiola che si possono estrapolare dall’ultima, riuscitissima fatica cinematografica del danese Nicolas Winding Refn ‘The neon demon’, distribuito da Koch Media. Il regista di ‘Drive’ e di ‘Solo Dio perdona’ costruisce abilmente un horror ambientato nel mondo della moda con un impatto visivo formidabile fatto di un mix di colori densi e acrilici e di atmosfere ipnotiche e notturne. Il regista che alla nouvelle Vague preferisce gli horror genere ‘Non aprite quella porta’ ha una cultura del cinema e dell’immagine molto ricca e raffinata. Nel film che racconta l’esperienza di Jesse, giovane aspirante modella in una Los Angeles corrotta ed efferata ma ‘dal cielo immenso che ti fa sentire piccolo’, si possono leggere riferimenti a pellicole cult di Dario Argento come ‘Suspiria’ e ‘Phenomena’ e ‘gli occhi di Laura Mars’ ma anche il tema del film di Julie Delpy ‘La contessa’ che si nutriva del sangue delle vergini come elisir di giovinezza, anche se il regista ha smentito quest’ultimo riferimento. Lo spietato mondo dell’alta moda viene radiografato con i toni di un thriller ricco di scene ad alto tasso di tensione e di bellezza, perché la bellezza naturale, quella di Elle Fanning protagonista assoluta, molto somigliante alla Brooke Shields degli esordi (Pretty Baby dirà qualcosa ai cinefili) viene intesa come potere assoluto e pericoloso dove il diavolo si cala in elegantissime vesti femminili. Notevole la prima scena in cui la Fanning, sorella dell’altrettanto celebre Dakota, indossa un top metallizzato con mini abbinata, un look firmato Emporio Armani su un set molto gotico ma di design e in una posa che sembra rubata a uno scatto di Guy Bourdin, la cui influenza estetica pervade varie scene della pellicola. Giorgio Armani è fra gli stilisti che hanno collaborato con la costumista Erin Benach anche per la bellissima scena della sfilata intrisa di simbolismi esoterici e di linguaggi gotici e stregoneschi legati alla mistica del triangolo. Completano il quadro suggestivo dell’insieme le musiche di Cliff Martinez che si è ispirato al potente e inquietante sound elettronico di Giorgio Moroder anni’80. Film, potente e ipervisivo, molto crudele.

@Riproduzione Riservata