Halloween 2021: i film da guardare nel weekend

Dolcetto o scherzetto? Halloween è alle porte e non tutti riescono a spaventare i vicini nella speranza di ottenere qualche ricompensa golosa, alcuni preferiscono trascorrere la spaventosa ricorrenza davanti del piccolo schermo. Copertina, popcorn e rumore della pioggia: questi ingredienti fondamentali accompagneranno la notte del 31 ottobre in una maratona di film horror. Per gli amanti del genere ecco quattro film che hanno segnato la storia dì questo filone cinematografico.

“Gli uccelli” (The Birds). Un classico. Uno dei film più spaventosi di Hitchcock, se non quello più sconvolgente: sono stati necessari ben 370 trucchi di ripresa e 3 anni di preparativi per realizzarlo. Una ragazza di San Francisco segue uno studente per Bodega Bay dove, senza alcuna apparente ragione, degli stormi di uccelli iniziano a uccidere la popolazione. Il risultato è un film in grado di tenere lo spettatore letteralmente incollato allo schermo fino alla fine,  con un crescendo di suspense da togliere il fiato. La trama sottolinea la rivincita della natura sull’uomo, mettendo a confronto uccelli ed esseri umani. Non tutti sanno che per la realizzazione sono stati messi in scena, oltre ai volatili di cartapesta, e agli innumerevoli dipinti animati, fotogramma per fotogramma, anche centinaia di volatili ammaestrati. Importante è il ruolo che hanno i giochi ottici che moltiplicano gli uccelli: negli anni Sessanta la pellicola terrorizzò il pubblico grazie a questi primi effetti speciali. 

Un altro “must” è  “Non aprite quella porta”, film horror del 2003, diretto da Marcus Nispel. Il film è ispirato alle atrocità compiute dal tremendo assassino Leather Faces, giovane psicopatico che prende in ostaggio un gruppo di ragazzi prima di massacrarli. La pellicola è davvero consigliata per chi ama il genere splatter: non mancano scene di forte violenza, sangue e terrore. L’aspetto più inquietante del film è la frase che compare all’inizio “il film che state per vedere, è un resoconto della tragedia che è capitata a cinque giovani…” che lascia nello spettatore un velo di dubbio sulla possibilità che il massacro del Texas sia successo per davvero. 

Segue “47 metri”, un horror/thriller per gli amanti del brivido, prodotto da Johannes Robert nel 2017. Due sorelle molto diverse tra loro rimangono intrappolate in mare, circondate da squali bianchi a 47 metri di profondità. Si alternano attimi di puro terrore con riflessioni introspettive che catapultano lo spettatore in un continuo stato d’ansia e angoscia per tutti gli 87 minuti del film. 

Se amate il genere ghost/ soprannaturale, vi suggeriamo “Synyster“. Un giornalista sta lavorando ad un libro sui crimini misteriosi quando decide di cambiare casa: lo attende un’abitazione maledetta infestata da un’entità paranormale. Le riprese propongono scene molto buie e numerosi sono i momenti di silenzio, proprio per immergere lo spettatore in un’atmosfera inquietante. Un film anche molto drammatico, che sottopone l’uomo al famoso quesito sull’esistenza di forme a fenomeni paranormali, come fantasmi e spiriti maligni. Il confine tra surreale e reale si fa così sottile che nel bel mezzo del film si fa fatica a capire dove finisce la realtà e inizia l’incubo

78 Festival del Cinema di Venezia – i film da non perdere

Freaks out! di Gabriele Mainetti ha stupito tutti a Venezia per la delicatezza del racconto della diversità

Freaks out

Mirabolante! “Freaks out” di Gabriele Mainetti è una storia delicatissima di “diversi che senza circo sono solo dei mostri”, come afferma uno dei fantastici 4 personaggi dotati di superpoteri. C’è tanto della poesia de “La forma dell’acqua” nella rappresentazione dell’amore e della tenerezza verso il mostro, tanto dei personaggi strambi amati da Diane Arbus, la fotografa morta suicida la cui storia é stata interpretata da una Nicole Kidman che si innamora dell’uomo lupo. 2 anni di post-produzione per una pellicola che tiene incollati allo schermo, azione, storia, ironia, colpi di scena, fotografia ed effetti speciali. Anche qui il Festival del Cinema avvicina al crudele tema della guerra, durante il periodo fascista, e il cinema è il mezzo forse più veloce e potente per aprire cuori e menti.

Toni Servillo in una delle scene di Qui rido io, film di Mario Martone presentato al Festival del cinema di Venezia 2021

Qui rido io

Qui Rido io di Mario Martone è la storia vera di Eduardo Scarpetta, il più grande commediografo e attore comico del ‘900 italiano. Un uomo generoso con il pubblico e severo con la famiglia, a tratti egoista, un dongiovanni che coabitava con mogli ed amanti e rispettivi figli, quelli riconosciuti e quelli che lo chiamavano “zio”, Titina, Peppino ed Eduardo De Filippo, che presero poi il cognome della madre.
Per Scarpetta teatro e vita vera si mescolavano, la sua esistenza sfarzosa in palazzi imperiali lo portavano ad un atteggiamento imperioso che obbligava la sua cerchia ad una sudditanza “naturale”. Fino a quando l’episodio dannunziano, la messa in scena della parodia della “Figlia di Iorio”, l’opera di Gabriele D’Annunzio, lo vede accusato di plagio; sarà Benedetto Croce l’unico a sostenerlo, testimone di una malinconia che prende il sopravvento, di un mondo che muore e della nascita di un teatro nuovo.
Toni Servillo ha letteralmente divorato il palcoscenico.

Le cose che restano è il docufilm omaggio al grande direttore d’orchestra Ezio Bosso che ha commosso la giuria del Festival di Venezia 2021

Ezio Bosso. Le cose che restano

Per Ezio Bosso, interprete, direttore d’orchestra e compositore, esiste una “Teoria delle 12 stanze in movimento”, l’ultima delle quali tornerà a noi come prima nel momento in cui impareremo a riconoscerci, per poter essere liberi, per sempre.
Il docufilm di Gabriele Salvatores che in Ezio Bosso vedeva l’artista musicale che lui non è mai stato, è una finestra sul giardino dei mille volti che hanno avuto la fortuna di incontrare un grande comunicatore. Con la sete di sapere e la fame di musica che ha dall’età di quattro anni, Ezio Bosso è riuscito nell’intento di avvicinare “il popolo” alla musica classica, di portare la gente comune nei teatri; un film dalle infinite citazioni e dalla colonna sonora che Bosso ha regalato all’Italia intera, la direzione dei Carmina Burana all’Arena di Verona, le tre ore e mezza di musica e spettacolo nel Teatro Verdi di Busseto, in provincia di Parma, andato poi in onda su Rai3 in cui spiega Beethoven.
Una lunga storia d’amore e di dolore, quello che lo ha fermato e allontanato dalla musica, la malattia degenerativa che aveva da 2011.
Le sue esibizioni non sempre erano perfette, lo ha dichiarato anche il suo ufficio stampa, ma non è forse l’imperfezione a renderci unici?!

Redenzione, spiritualità e perdono sono i temi del bellissimo Capitan Volkonogov Escaped presentato al Festival del cinema di Venezia 2021

Captain Volkonogov Escaped

Captain Volkonogov Escaped di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov è la storia di una redenzione.
Fedor Volionogov è il capitano del servizio di sicurezza nazionale russo, il suo compito è quello di catturare i “nemici dello Stato”, per lo più vittime innocenti che vengono seviziate e uccise per accuse inesistenti.
Uno spirito notturno, una spiritualità che si era sopita, lo avverte dell’Inferno imminente dandogli la speranza di un Paradiso eterno solo nel caso in cui almeno uno dei famigliari delle vittime da lui uccise, gli avesse concesso il perdono.
Incontrerà un padre che aveva ripudiato il proprio figlio credendolo un traditor di patria; una moglie impazzita per aver perso il marito per sempre; una figlia che credeva il padre ancora vivo; un bambino che brucia gli oggetti del padre perchè “un traditore non può chiamarsi padre” e una figlia chiusa in soffitta, sull’orlo di morire, sarà lei il limbo per poter accedere all’alto oppure in basso…

Il pubblico di Venezia 2021 ha accolto con calore anche il film Imaculat di Monica Stan e George Chiper: una drammatica e autobiografica

Imaculat

Volutamente claustrofobico, volutamente lento, volutamente irritante, volutamente silenzioso, il film sceneggiato da Monica Stan racconta la sua dolorosa e reale storia, le vicende di una tossicodipendente in un centro di riabilitazione tra giochi di potere taciti e non.

Di Monica Stan e George Chiper

“Dancer in the dark” di Lars von Trier fa luce sul materno

Sacrificio. E’ una parola che collego al materno, a quella forma immensa di amore, di totale dedizione, di oblatività. Come spiega egregiamente Massimo Recalcati in “Le mani della madre”, noi tutti siamo figli di donne che si sono distinte in “madri sacrificali” e “madri egoiche”, quelle che hanno annullato la propria parte femminile per godere dell’onnipotenza materna, e le seconde che invece hanno vissuto il figlio come un ostacolo alla propria libertà personale. Lar von Trier ha messo in scena la categoria del primo tipo, l’esempio del sacrificio per antonomasia; con “Dancer in the dark”, pellicola del 2000 con protagonista la cantante Björk, il regista vince la Palma d’Oro al 53mo Festival di Cannes

Selma è emigrata dalla Cecoslovacchia in America perchè in questa terra ha trovato un ottimo medico che curerà la malattia del figlio, la stessa che l’affligge e che poco per volta la sta portando alla cecità. Per pagare la parcella del medico Selma arrotonda il suo stipendio da operaia in fabbrica con un lavoretto part-time, che consiste nell’inserire delle forcine per capelli su un pezzo di cartoncino. Lo fa la sera, dopo i turni estenuanti alla fabbrica, ma con la gioia di una madre che non sente la fatica perchè vede un futuro luminoso per il proprio figlio. Il suo non lo è, luminoso; il titolo del film ce lo ricorda, “Dancer in the dark” ci porta mano nella mano, con l’angosciante disillusione della vita tipica di von Trier, nel mondo crudele dell’essere umano. La vita di Selma è un ponte tra un’ingiustizia e l’altra, l’ingiustizia della malattia, l’ingiustizia di essere derubata dei risparmi di una vita, l’ingiustizia del tradimento di un amico.
Bill (interpretato da David Morse), suo locatore, vicino di casa, amico, nonché poliziotto in bancarotta a causa dei capricci della moglie, approfittando della cecità di Selma, scopre dove nasconde i soldi e la deruba. Selma disperata chiede indietro il denaro ma accidentalmente nello scontro parte un colpo di pistola e Bill, nella scena più terribile del film, dove le vittime per cui proviamo compassione vengono colpite e pugnalate, bastonate senza pietà come afroamericani emarginati senza colpa alcuna, prega Selma di finirlo, di ucciderlo, unico modo per riavere indietro i suoi soldi e di nascondere il terribile segreto alla moglie. 

Tra le riprese traballanti della camera a mano e la fotografia desaturata di Robby Muller, von Trier si differenzia ancora una volta per coraggio e farcisce il melodramma con il musical, grande passione di Selma che l’aiuta a sognare ad occhi aperti, a viaggiare e ballare, è il mezzo più semplice per allontanarsi dai dolori della vita, esattamente come lo legge lo spettatore, come per Elisa, la protagonista de “La forma dell’acqua”, il canto improvviso su passi di danza che inneggia alle cose belle della vita. Che qui non ci sono. E qui von Trier ci tira un altro sonoro schiaffone. Ci riporta alla realtà, alla crudeltà dell’esistenza. 

Se il critico le chiama “trappole melodrammatiche”, significa che non sa ascoltare con il cuore, che legge solo la teoria, si fossilizza sui tecnicismi; vero che Von Trier è l’eccesso per eccellenza, altrettanto vero è che si mette sullo schermo ciò che si sa, e io non posso fare a meno di pensare che le lacrime a me strappate, sono le sue realmente sentite. 


Esule, diversa, dissonante, Björk calza a pennello i panni della protagonista, con quel suo volto angelico e fanciullesco di chi vede solo bontà, di chi vive i rapporti con la genuinità dell’ingenuita’, come un Cristo che accetta di essere messo in croce ma prega per l’umanità intera, chiede al Padre di salvarci tutti, così Selma ascolta il suo cuore e mantiene la promessa di quell’uomo crudele che l’ha tradita e derubata della sua unica ragione di vita, la salvezza del figlio da una vita cieca. Finisce in prigione mentre l’amica (Catherine Deneuve) tenta a tutti i costi di salvarla, usando i soldi che erano destinati all’operazione del il figlio per pagare l’avvocato. Non contento di averci torturato, qui von Trier rincara la dose e ci pugnala a ferita aperta; il dolore dell’ingiustizia si addiziona allo strazio della madre che vede il figlio senza un futuro felice; accettera’ alla fine di essere giustiziata per impiccagione, a patto che i soldi da lei risparmiati vengano impiegati per salvare la vista del figlio allo scoccare dei suoi tredici anni, prima che sia troppo tardi. 

141 minuti di sacrifici umani, il regista non ci risparmia niente, riprende un’operazione a cuore aperto, e quando giriamo il volto per non guardare, ci prende di forza e ci butta la faccia nel sangue, perchè è solo sporcandosi che si arriva alla comprensione. 
Ma il genio di Lar von Trier non finisce qui, e fa un giochetto ancora più cattivo verso il finale quando l’amico di Selma, di lei innamorato, le chiede “Perchè lo hai voluto questo bambino, se eri a conoscenza del fatto che sarebbe nato con la tua stessa tara?” “Perchè volevo un figlio mio, volevo tenerlo in braccio”. E qui ci ribalta la visione della madre sacrificale in madre egoica, torna la donna che sceglie di mettere al mondo un malato per soddisfare il suo desiderio, nonostante tutto. Torna la donna egotica di “Antichrist” che vede il figlio cadere dal balcone ma non lo ferma perchè presa dal godimento sessuale, torna il von Trier misogino, torna il von Trier che rimescola tra le mani il giudizio finale. 

Il sound delle serie Netflix di successo: Manintown incontra Yakamoto Kotzuga

Manintown approda in Laguna, al confine tra Mestre e Porto Marghera, per proseguire il suo scouting alla ricerca di talent under 30 che alimentano di linfa creativa il nostro Paese, in un periodo in cui il mondo dell’intrattenimento è altamente penalizzato.

Sono le polaroid di Riccardo Ambrosio a raccontare i frame della quotidianità di Giacomo Mazzucato, in arte Yakamoto Kotzuga, classe ‘94 e una carriera da musicista, producer e sound designer in ascesa.

Giovanissimo firma un contratto editoriale con Sugarmusic, editore indipendente tra i più importanti in Europa, che gli mette a disposizione il proprio network italiano ed internazionale. 

Appassionati di musica elettronica, il Sonar vi ricorda qualcosa? Ebbene sì, Yakamoto Kotzuga è approdato sull’ambitissimo palco barceloneta nel 2019 poco prima di iniziare l’attività di compositore per le tre stagioni di una delle serie Netflix più amate dal grande pubblico: Baby. 


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Yakamoto Kotzuga e il mondo della moda. Gli esordi nel 2013 quando “Your Smell” viene scelta come colonna sonora per svariati reportage di Vogue fino a diventare l’ideatore dei sound per i brand del marchio Benetton. Come si differisce questa tipologia di lavoro compositivo rispetto agli altri?

A livello puramente artistico gli stimoli sono diversi in quanto spesso mi viene condivisa una reference a cui ispirarmi.Però è stata un’ottima scuola per sperimentare altri generi e stili musicali ai quali non sarei probabilmente mai approdato. 

Il tuo debut album “Usually Nowhere” La Tempesta/Sugar ti ha portato a condividere il palco con artisti come Forest Swords, Tycho, Plaid, Lone, Jhon Talabot e Legowelt. E poi i tour internazionali, con ottimi riscontri sul territorio francese, seguiti dalla conclamazione al Sonar nel 2019. Quanto ti manca il contatto con il pubblico in un momento storico che ha abolito i momenti di interazione nel segno della musica elettronica?

Non ho mai amato particolarmente la vita on tour in quanto sul palco non sono un animale da stage.Adoro esularmi e dedicarmi al lavoro in studio. Il bello dei DJ set, al di fuori dell’ansia da prestazione, è quello di sapere che sotto al palco ci sono persone che vogliono sentire la tua musica. 

Al Sonar ho realizzato un sogno, essere presente in una line up particolarmente interessante, e insieme ai miei idoli, è stato un punto d’arrivo non indifferente.


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Non mancano nel tuo curriculum progetti audiovisivi performativi come quello commissionato dalla Biennale di Venezia. Parlaci dell’album nato da questa importante conferma: “Slowly Fading” 

La Biennale mi ha richiesto un’opera interamente prodotta nell’area urbana circostante. Un’ottima occasione per vivere l’atmosfera industriale e l’estetica di un paesaggio a me nuovo. Questo ha influito particolarmente sull’album che si suddivide in due lati. Il primo è Fading e il secondo è Faded, ambedue totalmente distanti a livello sonoro. I visual sono stati curati dal mio collaboratore Furio Ganz e si sposano perfettamente con il contesto. Con la Biennale tuttora collaboro a livello formativo. Infatti, gli appassionati possono partecipare ai miei laboratori di musica elettronica dedicati ai giovani.

E poi Netflix e la curatela della soundtrack di una delle serie più discusse e amate dalla Generazione Z : Baby. Raccontaci i retroscena dell’impegno che ti ha portato ad essere presente nelle playlist di Spotify di molti adolescenti.

Agli albori del progetto la richiesta mi è giunta direttamente dalla produzione, in quanto uno degli sceneggiatori aveva organizzato un mio concerto molti anni prima. La mole di lavoro sin dall’inizio è stata notevole viste le deadline molto ravvicinate. 

Come si sviluppa lo studio della soundtrack? 

Con Baby sono totalmente libero a livello di sound.Inizio a leggere la sceneggiatura e mi confronto con la produzione. Appena i miei provini vanno bene mi vengono mandati i premontati su cui vanno perfezionate le tracce.Tali dinamiche mi hanno aiutato tantissimo ad entrare in un workflow che richiede massimo livello organizzativo.La componente psicologica nello studio dei personaggi aiuta, inoltre, a ricreare tutte le emozioni musicalmente quindi la challange risulta particolarmente interessante.

Il 2021 e il lancio di una nuova serie di cui hai curato la soundtrack è alle porte (Zero). Quali anticipazioni puoi darci in merito alle tue prossime collab?

Posso dirvi che, a parte Zero, su Netflix uscirà un altro titolo che si pone in veste di lungometraggio. Oltre a questo vorrei concentrarmi sulle produzioni personali e soprattutto lavorare ad un altro disco. 


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Photographer Riccardo Ambrosio

Special content direction, production, styling and interview Alessia Caliendo

Alessia Caliendo’s assistant Andrea Seghesio

Special thanks to Vgo Lab 

Lady Gucci: la storia di Patrizia Reggiani

Lady Gucci – La storia di Patrizia Reggiani, il docu-film disponibile ora sulla nuova piattaforma Discovery Plus, che anticipa il film sulla storia dell’omicidio di Maurizio Gucci che sarà diretto da Ridley Scott ed interpretato nientemeno che da Lady Gaga.

L’idea nasce da due intraprendenti autrici Marina Loi e Flavia Triggiani, che si mettono in testa e portano a termine in un’avventura quasi tutta al femminile una lunga intervista proprio con lei, la signora Reggiani, che tutt’ora si definisce Patrizia Gucci.

Una storia che per dettagli e glamour anche sulla carta sembrerebbe la sceneggiatura di un film.

Per capire meglio chi è Patrizia Reggiani ecco cosa mi ha raccontato Marina Loi.



È stato facile convincere la signora Reggiani nel progetto.

Nonostante come si evinca dal docu-film, Patrizia sia molto a suo agio, o come magari si possa pensare sia effettivamente una persona dalla spiccata personalità narcisistica, non è stato assolutamente facile convincerla, anzi è stato un lavoro complesso.

Devo fare un passo indietro ed ammettere che la mia amica e collega Flavia Triggiani è stata come un ariete nel perseguire questa esclusiva, in quanto aveva magari rilasciato interviste anni addietro ma mai come questa volta.



Guardando il film salta all’occhio come non provi senso di rimorso nel raccontare la storia.

Bisogna precisare per chi non conoscesse la storia che la signora Reggiani è stata la moglie del terzo discendente della storica casa di moda Gucci, per cui secondo la legge italiana è stata condannata come mandante.

Lei ha una versione differente, nel senso che è cosciente di avere scatenato i fatti che si sono succeduti di cui poi è anche stata ricattata, ma si ferma li.

Sembra quasi fanciullesca nel ripetere che l’unico uomo che ha amato è Maurizio Gucci.

Posso confermarti di avere trascorso più giorni con Patrizia per quella che è stata molto più che un’intervista, ed anche al di fuori del set lo ripete molto spesso. Credo che sia legato al fatto che lei è rimasta la bambina che sognava di sposare un principe azzurro ed è riuscita nel suo intento.



Quale legame c’era sinceramente con Pina Auriemma, due donne così differenti diventate confidenti.

Nella New York degli anni 80’ i Gucci venivano definiti la coppia più bella del mondo, frequentavano Trump e tutta l’alta società frequentava il loro Penthouse sulla Fifth Avenue, forse proprio l’essere eclettica e la voglia di normalità l’ha avvicinata a Pina.

Nel film non si parla del rapporto con le figlie che abbiamo visto essere al suo fianco al funerale.

Non ha più nessun rapporto con le figlie, dal punto di vista consanguineo, Patrizia è completamente sola, quella di non parlarne è stata più una nostra scelta in quanto vi è una causa in corso.

Ovvero Maurizio Gucci in fase di divorzio aveva concesso un vitalizio pari ad un milione di euro l’anno, vi è stata la cassazione e parrebbe che le figlie debbano riconoscerlo con tutti gli arretrati, il che è davvero una contraddizione.



È stata bravissima a ricevere regali però.

Essi, anche la penthouse glielo ha regalato il padre di Maurizio in un secondo tempo, quando lei ha conosciuto il suo futuro marito era solo un rampollo della famiglia Gucci, ma è stata lei ad accogliere lui nella casa di famiglia in quanto lei era di per sé benestante ed allo stesso tempo lungimirante nella sua voglia di crescere nella scala sociale.

Così come le era stato regalato lo yacht più bello e maledetto al mondo ovvero il Creole, però erano tutti regali senza documenti e firme e così nel divorzio lei rimase senza nulla.


Teaser del docu-film LADY GUCCI

I dieci film più eleganti di tutti i tempi

Ci sono film che rimangono nell’immaginario collettivo per sempre, divenendo dei  cult senza precedenti grazie a un mix di elementi quali la regia, gli attori, la trama ma anche e soprattutto lo stile.

Vi conduciamo in un viaggio che attraversa l’eleganza cinematografica di alcuni dei film più belli della storia del cinema , con un invito a sognare in questi giorni di quarantena. Scegliete il vostro look da film preferito e rivivete le emozioni che questi bellissimi cult movies ci hanno regalato. 

Il grande gatsby (2013)

Baz Luhrman dà vita a uno dei film più eleganti di tutti i tempi, con una rappresentazione cinematografica in cui lustrini, party e paillettes fanno da filo conduttore. È la storia di J. Gatsby , misterioso milionario celebre per le sue feste sfarzose e per il suo amore impossibile  per Daisy, moglie dell’ex campione di polo Tom Buchanan. Una carrellata di 40 costumi in perfetto stile anni 20 realizzati dalla costumista Catherine Martin in collaborazione con Miuccia Prada. 

American Gigolo (1980)

Julian, famoso Gigolo di Los Angeles, si innamora di Michelle, moglie di un politico locale. Dopo la morte di una delle sue clienti viene uccisa, il protagonista viene assalito dalle indagini del detective Sunday e capisce di essere vittima  delle macchinazioni del senatore Stratton, marito della sua amante. 

Il successo di questo cult movie lo si deve anche alla scelta di ingaggiare il bellissimo Richard Gere e vestirlo Giorgio Armani: la scelta dei completi sartoriali indossati nel film non è casuale. Erano i tempi in cui Armani lanciava a livello internazionale la sua linea ready-to-wear. 

La Dolce Vita (1960) 

Personaggio centrale é il giornalista Marcello Rubini (Marcello Mastroianni) che vive in un mondo provo di valori, cinico , caotico in cui regna la sua insopportabile noia di vivere. Il protagonista segue le gesta di una star di Hollywood (Anita Ekberg) e di una ricca ereditiera (Yvonne Furneaux). Lo stile rappresentato supera i confini temporali e ci riporta al glamour italiano per eccellenza. Come dimenticare il lungo abito nero di Anita Ekberg nella fontana di Trevi. 

A single man (2009) 

Adattato dal romanzo di Cristopher Isherwood  e con la regia di Tom Ford, il film ha come protagonista Colin Firth , nei panni di George professore inglese gay che insegna in California e che ha perso il suo partner. Il dolore lo porta a trovare conforto nella sua più cara amica Charley (Julianne Moore). Il debutto di Tom Ford come regista va oltre la passerella: nel film look sartoriali per Colin e stupendo lavoro di trucco e parrucco sull’attrice protagonista, in perfetto stile anni 60. 

Moulin Rouge (2001)

La storia d’amore più raccontata di tutti i tempi , vede come protagonisti Nicole Kidman nei panni di Satine e di Ewan Mc Gregor , nei panni dello scrittore squattrinato in una Parigi Bohémien di inizio 900. I due destano scandalo per il loro amore furtivo. Un tripudio di paillettes, corsetti e lustrini in una Parigi romantica e bohémienne . 

Il talento di Mr Ripley (1999) 

È la storia di Tom Ripley (Matt Damon) un giovane educato che si reca in Italia alla ricerca di Dickie (Jude Law) quando riesce a trovarlo resta affascinato dallo stile di vita che conduce l’uomo  in compagnia della sua fidanzata , così lo uccide e ne assume l’identità. Un thriller psicologico in cui è anche  lo stile anni ‘50 a decretarne il successo. 

Ragazze a Beverly Hills  (1995) 

In uno scenario tipico dei college americani, negli anni in cui il grunge diventa must tra le passerelle e le sottoculture di strada, questo film racconta la storia di Cher, ragazza più popolare del liceo che cerca di far innamorare due insegnanti riuscendoci. Ma quando prova a far lo stesso con due propri amici , i risultati non sono quelli sperati. Un cult i completini con stampe check in perfetto stile anni ‘90. 

Marie Antoinette (2006) 

Diretto da Sofia Coppola, questo cult movie è ricordato per i sontuosi costumi e le scene super eleganti nella corte della regina di Francia Maria Antonietta (Kristen Dunst), divenuta tale dopo la morte di re Luigi 15esimo. Maria Antonietta rappresenta l’epitomo di bellezza, ricchezza e lusso : centinaia di look in perfetto stile seicentesco realizzati da Milena Canonera, vincitrice del premio Oscar per i miglior costumi di scena. 

The Danish Girl (2015) 

Ispirato a una storia vera, il film si concentra sull’amore indissolubile e il desiderio irrefrenabile di un uomo che a tutti costi vuol cambiare sesso, ambientato nel 1930. 

Il film ha come protagonista Eddie Redmayne nei panni di Lili Elbe , prima persona a essere identificata come transessuale e a subire un intervento chirurgico per il cambio di genere. Paco Delgado è il designer che accompagna il protagonista in questo suo “viaggio “ tra i due sessi ma anche lo stile danese degli anni ‘20.  

La la land (2016)

La storia di due artisti innamorati si complica quando cominciano a raggiungere il successo. Il film, divenuto un cult anche per l’identità da “musical” , ha come protagonisti Ryan Gosling ed Emma Stone, in una esilarante interpretazione divenuta subito celebre in tutto il mondo. “La la land” è sia un riferimento alla città di Los Angeles sia al significato di essere nel “mondo dei sogni”. Lo stile è ispirato alla golden age degli anni 50/60 di Hollywood in un percorso cromatico collegato alle emozioni e alle esperienze dei protagonisti.  

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La storia della pittrice Dora Carrington nel film di Christopher Hampton


Gli amori platonici non sono nuovi nell’Inghilterra primi ‘900; pensiamo al matrimonio tra Virginia Woolf, scrittrice lesbica, sposata a Leonard Woolf, editore omosessuale; nella Bloomsbury intellettuale non era così desueta la relazione tra amori impossibili, o meglio, impossibili da consumare fisicamente. 
Similare il caso della pittrice Dora Carrington, raccontato nel 1995 dal regista Christopher Hampton nel film “Carrington “, 2 premi al festival di Cannes tra cui “miglior attore” a J. Pryce.

Dora è un’artista vivace che dipinge per il piacere di farlo, non ha come fine ultimo la mostra o il denaro; è una ragazza dal fisico androgino e dal carattere irrequieto, e il suo motto è “libertà”. 
Scoprirà tardi i piaceri del sesso, rifiutando per quattro anni le avances fisiche del suo fidanzato di allora Mark Gertler, pittore inglese molto lodato dalla critica del tempo. Dora nel frattempo ha già conosciuto Lytton Strachey, scrittore, critico e saggista del gruppo di Bloomsbury, pacifista e omosessuale dichiarato. Lytton è un uomo barbuto, porta occhiali da gran pensatore, possiede la calma di un vecchio saggio, l’intelligenza del lettore e inevitabilmente Dora se ne innamorerà, lasciando Mark e iniziando, in una nuova casa, un periodo di promiscuità e triangoli amorosi. 


Nonostante le prime reticenze di Lytton, che pensa alla convivenza come causa della fine di tutti gli amori, i due andranno a convivere; negli anni susseguiranno le intermissioni di altri uomini a partire da Ralph Partridge, ex ufficiale tutto d’un pezzo che Dora sposerà per tenerlo legato a Lytton, per amor suo, al loro fianco nel viaggio di nozze a Venezia. 


In un percorso Ivoryano, nelle immense vallate di Brenan dove la pittrice ritrarrà i suoi uomini, irrompe una nuova figura maschile, si tratta di Gerald Brenan, romantico personaggio, amico di Ralph, che diviene presto amante di Dora. I tradimenti della pittrice sono solo accenni di una instabilità e di una fragilità che non tarderanno a presentarsi; gli uomini sono interscambiabili, le permettono di sentirsi viva e giovane, come nella relazione con Beacus Penrose, un aitante capitano che la prende con forza e con virilità, il primo a farle notare il suo lato maschiaccio, chiedendole di “indossare reggicalze e calze nere o testa di moro, per risaltare la forma delle gambe”. 


Tutti si innamorano di Dora, ma il suo cuore è rapito dallo spirito di Lytton, che morirà di cancro allo stomaco, lasciando Dora in una profonda depressione. Gli uomini che l’hanno amata vorranno salvarla ma lei, dopo un primo tentativo di suicidio, riuscirà a lasciare tutti con un colpo di pistola, raggiungendo Lytton in un luogo dove forse, il loro amore, potrà essere esclusivo, lontano dalla gelosia a cui nessuno dei due ha mai creduto.

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Cinecult: ‘Jesus Rolls – Quintana è tornato’ di John Turturro

Una luce in fondo al tunnel c’é. È la luce della libertà e della felicità. E se ti cali le braghe e te la godi potrai cogliere il meglio della vita. Il messaggio di ‘Jesus Rolls – Quintana è tornato’ è eloquente e vibrante.

E va bene così, perché se passi due ore a farti delle sane risate riflettendo anche sul senso della vita, allora forse una svolta c’è e la crisi te la scordi in nome di un epicureismo autoironico.

Il film, distribuito da Europictures, presentato in anteprima mondiale alla Festa del Cinema di Roma come film di preapertura, diretto e interpretato da John Turturro, 62 anni portati splendidamente, racconta un viaggio un po’ pazzerello, surreale ed esilarante e se ne vedono tante di cose. Ce n’è per tutti i gusti.

Il sesso è vissuto in maniera libera e giocosa così come dovrebbe essere, senza tabù, sembra di stare nell’eden. E non a caso perché il film, una commedia ironica e un po’ grottesca che parla di libertà, un road movie che è lo spin-off de ‘Il grande Lebowski’, è tratto da un romanzo del 1974 di Bertrand Blier, ‘I santissimi’ da cui è stato tratto un film godibilissimo.

E ricorda maledettamente, ma in versione coloratissima e rocambolesca, le avventure filosofiche di ‘Jules et Jim’ di Truffaut. E perché no? La sceneggiatura riprende un po’ Tarantino, un po’ i fratelli Cohen ma senza velleità né pretese.

La coppia Turturro- Cannavale è sexy e ludica allo stesso tempo, ha ritmo e irresistibile vis comica. Il film conta tanti cammei brillanti e ricchi di verve: Jon Hamm è il parrucchiere bello e vanesio che per certi versi rifà il verso a Warren Beatty in ‘Shampoo’, Sonia Braga, che ricordiamo in ‘Il bacio della donna ragno’, è una splendida maitresse che filosofeggia in spagnolo, Susan Sarandon è Jane, una ex galeotta ansiosa di godersi la vita con pienezza e un filo di naiveté.

Interessante la visione dell’identità maschile filtrata dall’ottica dei due simpatici protagonisti: una coppia di accattivanti balordi (in senso buono però) che sanno trascinarti nel loro pazzo mondo, dove l’unica regola è che non ci sono regole.

Queste due disincantate canaglie non disdegnano qualche digressione nel territorio dell’omosessualità, perché oggi tutto è fluido, tutto è viola come in una canzone di Prince. E il viola non fa più così paura se Jesus lo sfoggia con coraggio e disarmante spontaneità.

La gigioneria dei due protagonisti-mattatori è contagiosa e non può che suscitare empatia soprattutto se nel loro sodalizio entra la francesina shampista Marie interpretata dalla scanzonata e irriverente Audrey Tautou.

Questa commedia sbottonata con una risata vi seppellirà. La fotografia e i costumi sono azzeccati e la musica curata dalle brava e bella Emilie Simon ti fa volare. Bella la fotografia. Da vedere.

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AL CINEMA CON D-ART

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“SUSPIRIA” di LUCA GUADAGNINO 

Una Berlino in pieno autunno tedesco con la città scossa dalle azioni terroristiche della banda Baader-Meinhof. Siamo nel 1977 e Susie Bannon (Dakota Johnson) sogna di diventare una grande ballerina: entra  a far parte della scuola di danza di Madame Blanc (Tilda Swinton), un covo misterioso fitto di antiche e oscure presenze; ma se in Dario Argento si riempiva di citazioni (come le immagini ispirate a Escher sulle pareti), in Luca Guadagnino si fanno estetizzanti, minimaliste come gli abiti indossati da Tilda Swinton, lontana dalla matrigna super accessoriata che fu Joan Bennett.
L’espressione artistica delle insegnanti (che si riveleranno essere delle streghe) cela la loro crudeltà, sono le “madri non buone” della teoria di Donald Winnicott, psicanalista britannico, quelle che portano alla creazione del “falso sé“, ex bambine vittime ma mai del tutto vittime. Sono madri generatrici di vita e di morte, ci accolgono in un nuovo mondo ma ci umiliano, ci regalano il potere dell’arte ma ci nascondono il nostro triste destino, ci amano e ci odiano e parafrasando da una scena: “hanno bisogno della colpa e della vergogna“.
Più che un horror “Suspiria” di Luca Guadagnino sembra un dramma psicologico, con un cast tutto al femminile, soffocante, materno senza vere madri, che rivelerà la natura dell’essere femminino, ma anche in questo caso Lars Von Trier rimane imbattuto con Antichrist.

ROMA di ALFONSO CUARON

“Roma” è il racconto intimista del regista messicano, una casa borghese del 1971 composta da padre medico assente, madre severa e melodrammatica, quattro figli dai cinque ai quattordici anni, una nonna presente, una tata di origine mixteca, Cleo (Yalitza Aparicio) e una domestica. Cleo, la tata, è l’esatto opposto dell’egocentrico, dell’individualista, dell’esclusivista; è invece umile, buona, rispettosa verso i padroni di casa, e sinceramente affezionata ai bambini che cura come fossero suoi fratelli minori.
Una pellicola dallo sguardo femminile dove le donne sono protagoniste perché forti, capaci di superare un tradimento (quello della madre ad esempio – il padre abbandona la famiglia senza spiegazioni per una ragazza più giovane), piene di vita, anche se alcune di queste ci lasciano per volere di Dio (Cleo partorisce una figlia morta), coraggiose nei momenti che temono di più (Cleo salva i due bambini che rischiavano di affogare travolti da una corrente). Uno specchio dall’immagine chiara e nitida di quella che era la società nei ’70 messicani, la distinzione di classi sociali così perfettamente rappresentata attraverso immagini. La raffigura la scena dell’incendio nel bosco, durante la notte di Capodanno, quando i domestici si precipitano prontamente armati di secchi d’acqua per spegnere il fuoco, mentre i padroni di casa, perfettamente habillè, sono accanto a loro, calice alla mano, pettinatura artificialmente composta, nei loro cappotti di cashmire, scambiandosi poche parole senza il minimo accenno di ansia o paura.
Quale regista è capace di tanta grazia? Truffaut, ma è più cavilloso, Fellini, che è più elegante, Visconti, che è più perfezionista. Alfonso Cuarón è nato per un nuovo genere. E’ lui a vincere il Leone d’Oro di questa 75ma Mostra di Venezia.


DOUBLES VIE di Olivier Assayas

“Doubles vies” è un film sulla conversazione, dialoghi fittissimi e ritmi serrati, quasi la sceneggiatura fosse destinata al teatro.
Quello che racconta il regista è nient’altro che quello che conosce: l’ambiente parigino, fatto di dialoghi ping-pong, calici di vino alla mano, sigarette alla bocca, salotti borghesi, cafè caotici e pasti consumati nella zona living, personaggi dall’aria noncurante tipicamente francese, il cardigan stropicciato e il capello arruffato, un dito succhiato tra un Bordeaux e una omelette, la Parigi borghese e cinica.
Lo spazio è ristretto, gli amici fanno tutti parte dell’editoria francese, ma spicca Alain (Guillame Canet), editore di successo che deve scontrarsi con l’evoluzione digitale. Questo è il tema su cui si concentrano gli infiniti dialoghi, briosi, accesi, che innescano alcuna risposta ma infinite domande.

THE FAVOURITE di YORGOS LANTHIMOS

Siamo nel 1700 nella corte di Inghilterra, Anna Stuart è la regnante dal carattere debole, incerto, capriccioso, infantile, ed è quindi facile preda delle più astute dame di corte intorno a lei, a partire da Lady Marlborough, ovvero Sarah Churchill, moglie del generale e politico John Churchill. Sarah, interpretata da Rachel Weisz, nelle notti in cui il marito è al fronte a combattere la guerra, si consola nel letto della regina, fino a quando subentra la figura dolce e premurosa di Abigail Masham, una cugina di Sarah caduta in disgrazia a causa della dipendenza al gioco del padre.
“The favourite” è un film sul potere, sulla dignità, sulla moralità. Fino a che punto siamo disposti a cedere il nostro corpo, il nostro nome, il nostro rispetto? Quando Abigail comprende che l’unico modo per uscire dalla condizione di sguattera sarà “vendersi” alla regina, dirà:

Quando sarò per le strade a vendere il culo ai malati di sifilide, di questa moralità non me ne farò niente e la mia coscienza riderà di me”

Lanthimos colora ogni personaggio con irriverenza, crudeltà, ridicolaggine; eccelsa la fotografia di Robbie Ryan che ci accompagna nel castello a lume di candela, con ritratti dal nero rembrandtiano e intensi  rallenty sulle nature morte e sui banchetti, uno stile che accentua i disgustosi i modi e le eccentricità di corte, perditempo nella corsa delle aragoste e delle oche. La scena finale è la voce della coscienza, e ci ricorda quanto sia caro il prezzo da pagare quando, per raggiungere il proprio scopo, si utilizzano ogni genere di bassezze.


CHARLIE SAYS” di MARY HARRON

Orge ogni sera, natura selvaggia, nessuna regola, droghe a profusione, sesso libero, nudismo, condivisione, le attività della “Family”, un gruppo di cinquanta ragazzi che avevano come loro unico dio Charles Manson, il macabro assassino che ha sconvolto la Hollywood degli anni ’70 con l’uccisione di Sharon Tate (allora moglie del regista Roman Polansky incinta di 8 mesi e mezzo) e quattro dei suoi amici durante una festa privata.
La storia è raccontata dal punto di vista delle tre ragazze che hanno preso parte agli eccidi di  Cielo Drive e della coppia Leno e Rosemary LaBianca: Leslie (Hannah Murray), Patricia (Sosie Bacon) e Susan (Marianne Rendón). Dal carcere e attraverso dei flashback che iniziano con “Charlie Says” – “Charlie dice“, raccontano il vivere della “Family” allo Spahn ranch di Manson, una comune che si ciba di avanzi trovati nei cassonetti della spazzatura, a cui non sono permessi giornali né orologi, dove le donne non possono avere soldi e sono destinate ai lavori più umili e devono essere pronte ai bisogni primitivi dell’uomo  senza mai controbattere la “verità” del leader, che si sente la reincarnazione di Satana e Gesu’ Cristo insieme.
Manson siede in mezzo alle sue discepole come ad un’Ultima cena, le tre ragazze sono dei docili micini quando ricordano i fatti, ma la realtà dice questo: Sharon Tate (26 anni incinta di 8 mesi e mezzo) implora ancora qualche giorno di vita, prima di morire.
Senti, tu stai per morire, e io per te non provo nessuna pietà… Ero strafatta di acido” .
Sono queste le parole agghiaccianti di Susan Atkins, che pugnala l’attrice 16 volte, poi prende uno straccio, lo intinge di sangue e scrive sulla porta la parola «pig», maiale.

THE MOUNTAIN  di RICK ALVERSON

Siamo negli anni ’50, Andy ha perso il padre, e la madre è ricoverata in un istituto psichiatrico chissà dove. A fargli da tutore il dott. Wally Fiennes, palesemente ispirato alla figura di Walter Jackson Freeman II, primo medico statunitense ad aver introdotto il metodo della lobotomia.
Andy è un ragazzo timido, apatico, silenzioso, problematico,  non esprime il minimo interesse nei confronti della vita né delle sue attività; viaggia con il dottore, da un manicomio all’altro, Polaroid alla mano, ritraendo i pazienti sottoposti allo strazio della lobotomia transorbitale, tecnica che, combinata all’elettroshock, avrebbe dovuto guarire dalle malattie mentali. Andy (Tye Sheridan) è vittima di un labirinto malato, dove la pazzia è la normalità e la sua routine. In un copione praticamente assente, volge al cambiamento quando prende coscienza della rudimentalità dei mezzi e della totale mancanza di partecipazione emotiva del dottore durante le infinite operazioni.
Pellicola pretenziosa anche se perfettamente impacchettata nella sua fotografia nostalgica alla Erwin Olaf, vellutata nei verdi, morbida come panna montata ma estremamente fredda, un corpo pallido sotto le luci di un obitorio. Un 4:3 di estrema bellezza, una bellissima donna senza contenuto.

THE SISTERS BROTHERS  di JACQUES AUDIARD

Quella del western è solo una scusa, il regista francese Jacques Audiard prende in prestito il genere per raccontare qualcosa di diverso da colpi di pistola, whisky ingollati, corse a cavallo, eroi machi e sporchi di terra.  I  “fratelli sorelle“ hanno un legame che contempla il gesto femminile di prendersi cura l’uno dell’altro (i due si tagliano vicendevolmente i capelli) e il più forbito tra i due (surreale tanta grazia per un cowboy) è Edi, cui tocca far da balia al più rude Charlie, sempre preso da alcol e testosterone.
Parodico, carico di humor e avventure selvagge, il western di Audiard ci spiazza; a volte freddi e privi di rimorsi, i personaggi si rabbuiano davanti alle loro azioni, o si rattristano per la morte del loro cavallo.
I fratelli Sisters sono la prepotenza e l’avidità. Audiard ce li presenta attraverso le proprie debolezze e i propri feticci: Eli è il romantico che chiede ad una prostituta di recitare una frase, anziché concedersi senza domande. E’ colui che piega ogni notte, prima di addormentarsi, una coperta rossa regalatogli da un’amante passata, la annusa e fantastica, per poi masturbarsi stringendola a sé. Charlie invece è istintivo e vive dell’oggi, beve con piacere e si lascia andare al vizio.
Svuotato della crudeltà del western, “The Sisters Brothers” parla di umanità e di sogni, di un’America che corre verso la ricchezza e che finisce in mano agli avidi e non agli uomini di intelletto, ma lo fa giocando ogni tanto con la pistola e con le corse al galoppo.

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MOVIE TO WATCH: BOY ERASED VITE CANCELLATE.

Siamo stati alla prima di Boy Erased, film basato sulla storia vera di Garrard Conley e raccontata nel suo libro di memorie Boy Erased: A Memoir, pubblicato negli Stati Uniti nel 2016 e tradotto in italiano nel 2018.

Protagonista del film è Lucas Hedges, affiancato dallo stesso regista Joel Edgerton, Nicole Kidman e Russell Crowe. La pellicola si snoda sulla tormentata storia di Jared, dicannovenne proveniente da una famiglia battista dell’Arkansas che dopo aver fatto coming out con i genitori, viene costretto ad intrapendere una terapia di conversione dall’omosessualità, la cui pena in caso di fallimento sarà l’esilio dalla famiglia e dagli amici. Il percorso “riabilitativo” chiamato Love in Action, si rivela per il protagonista un viaggio nella follia di una compagnia religiosa oscurantista, un’antiterapia che si pone come obbiettivo quello di cambiare la natura dell’omosessuale sfidando i numerosi studi psichiatrici in merito. Boy Erased racconta tramite la finzione cinematografica, una realtà purtroppo ancora oggi profondamente radicata nella cultura occidentale.

Il film è ispirato da una storia vera, quella di Garrard Conley, che compiuti 19 anni subisce uno stupro, a cui segue il coming out. Da quel momento i genitori decidono di fargli seguire una “terapia di conversione” in un centro religioso specializzato per “curare i gay”, Love in Action, poi diventato Restoration Path. L’obiettivo è smettere di essere omosessuale, ma dopo due settimane Conley tenta il suicidio e si sente un errore umano. Non è l’unico ad essere stato sottoposto a programmi per adolescenti che, si legge nella descrizione del centro, “soffrono per l’attrazione sessuale verso partner dello stesso sesso, per l’interesse verso la pornografia e/o verso la promiscuità”, con risultati piuttosto rilevanti. Le terapie di conversione sono presenti anche sul territorio italiano, in epoche non troppo lontane hanno avuto anche una forte risonanza mediatica, come nel caso del controverso brano “Luca era Gay” di Povia, secondo classificato a Sanremo 2009 che ricalca la storia vera di Luca di Tolve, omosessuale “convertito” che oggi presiede anche l’associazione onlus Regina della Pace, finita negli anni scorsi nel mirino mediatico a seguito di un servizio delle Iene.

Nonostante le tematiche trattate nella storia siano ormai all’ordine del giorno, non è mai troppa l’informazione in questo senso. Se da una parte sembra che questi argomenti siano ormai permeati e metabolizzati dalla nostra società, assistiamo quotidianamente a discriminazioni che ci dimostrano il contrario. Compito principale del cinema è quello di educare, ed è giusto ricordarci di una società chiusa e bigotta nella quale la scoperta dell’omosessualità viene ancora trattata come una malattia, nonostante il DSM (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) la abbia derubricata nel 1990.

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Credit: Focus Features

MARCO CASTELLI: BOXING SOUL TEAM

Marco Castelli, classe 1990  e agrigentino di origini, è uno dei tanti esempi che  tra sogni e realtà il passo è breve. Da giovanissimo comincia a lavorare per caso nella moda, diventando prima top model per le più grandi case italiane, parigine e newyorkesi, poi testimonial di campagne pubblicitarie di brand importanti. Oggi insieme all’attività di modello è anche imprenditore, con la sua collezione di moda Marco Castelli Collection, dove crea abiti per la famiglia reale di Doha o per chi desidera uno stile assolutamente unico. Con il suo viso da bravo ragazzo conduce una vita sana e mai sregolata fatta di sport, alimentazione genuina e amore per gli affetti più cari come quello verso la famiglia e la sua terra, Porto Empedocle in Sicilia.

Ed è proprio il suo territorio ad ispirarlo nella prossima sfida, un cortometraggio di prossima produzione che verrà girato nella provincia di Agrigento e alla base vedrà il rapporto tra due fratelli . I due protagonisti saranno il modello Marco Castelli e Gerlando Castelli, due fratelli che il mondo del lavoro ha trascinato a grandi distanze per poi farli rincontrare nel Mediterraneo. Punto di congiunzione di una fratellanza che rappresenta anche una profonda amicizia, è la passione per la kick boxing e l’amore per la propria terra. «Abbiamo realizzato un trailer che rappresenta il primo passo per un prossimo cortometraggio che valorizzi la nostra terra – ha spiegato Marco Castelli, ideatore del progetto e autore della sceneggiatura – vogliamo comunicare a tutti i nostri luoghi sullo sfondo del bene tra due fratelli».  (Testo a cura di Alan David Scifo)

 

 

Credits video: Elis Gjorretaj, Andrea Vanadia

 

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