Cinecult: The Bye Bye Man di Stacy Title

“Non dirlo, non pensarlo”: quando The Bye Bye Man, il terrificante mietitore dall’oscura figura entra nelle menti delle persone non c’è via di scampo se non evitare di pensarlo e di pronunciare il suo malefico nome. Nasce così il plot di ‘The Bye Bye Man’ diretto da Stacy Title e distribuito da Koch Media. Il film basato su ‘The bridge to Body Island” è la storia inquietante ambientata nel 1990 di tre ragazzi Elliott (interpretato da Douglas Smith), John (Lucien Laviscount) e l’avvenente Sasha (Cressida Bonas), studenti universitari che decidono di convivere in una vecchia casa che custodisce le tracce di una forza sovrannaturale che per decenni ha terrorizzato vittime ignare, The Bye Bye Man. Il malefico mietitore oscuro (che nel film è impersonato da Doug Jones) si insinua nelle vite dei 3 ragazzi manipolando i loro pensieri, le loro visioni e le loro fantasie fino a distorcere completamente la realtà. Per aiutare le persone che gli sono accanto e sconvolto dai suoi pensieri nefasti, Elliott comincia a indagare sul passato di The Bye Bye Man, cercando di conservare la sua sanità mentale, ma si troverà a scoprire le storie passate di un giornalista che avendo pubblicato un articolo sul mostro ha eliminato fisicamente tutte le persone che sapevano della sua esistenza e ne avevano parlato. Nel cast spicca un bel cammeo di Faye Dunaway e la partecipazione di Carrie-Anne Moss, autentiche leggende del cinema. Il film, a metà fra horror psicologico e apoteosi di effetti speciali, ha terrorizzato oltre 2 milioni di spettatori in America. Tutto si basa sul tarlo diffuso dei pensieri inquietanti che come un avvertimento ossessiona ognuno di noi e in questo senso si fonda su premesse realistiche, soprattutto per chi crede nell’occulto e nelle forze esoteriche che sono sottese alla realtà materiale.

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Cinecult: Fast & Furious 8 di F. Gary Gray

Credit Matt Kennedy

E’ un concentrato esplosivo di testosterone e adrenalina Fast & Furious 8, il film diretto da F. Gary Gray e distribuito da Universal Pictures e che come gli altri capitoli della saga action a stelle e strisce sta mietendo una ridda di consensi fra il pubblico. Un cast stellare comprendente Kurt Russell (il Signor Nessuno ai limiti della legge), Michelle Rodriguez (Letty), Elsa Pataki (Elena, una ex poliziotta di Rio) Jason Statham (Deckard Shaw) e il nerboruto Dwayne Johnson ‘The rock’ eletto da People l’uomo più sexy dal mondo nel 2016 che nel nuovo film è Hobbs, un agente del DSS (Diplomatic Security Service), accompagna le nuove gesta di Vin Diesel che nel film interpreta nuovamente Dominic Toretto, tempra di ribelle indomito ed ex fuorilegge legato a corse clandestine che stavolta volge le spalle alla ‘famiglia’ da lui creata per inseguire il crimine a cui sembra non poter sfuggire. Ora che Dominic e Letty sono sposati, Brian e Mia si sono ritirati dai giochi – ed il resto della squadra è stato esonerato – il gruppo giramondo ha trovato una parvenza di vita normale. Ma quando una donna misteriosa -l’attrice premio Oscar Charlize Theron, nel ruolo di Cipher una cyber terrorista bellissima ed enigmatica, pronta a tutto pur di ridurre le superpotenze mondiali alla sua mercé- ammalia Dominic fino a convincerlo con un ricatto ad assecondare i suoi perfidi comandi, la squadra sarà messa a dura prova come mai prima d’ora e sarà chiamata a intervenire in prima linea per scongiurare un terzo conflitto mondiale che Cipher vorrebbe orchestrare. Non mancano ovviamente i pericolosi inseguimenti in macchina e i colpi di scena in questo action movie ad alta tensione che per oltre due ore terrà gli spettatori incollati alla poltrona. Da segnalare il cammeo di Helen Mirren attrice premio Oscar che qui si cala nei panni della donna più misteriosa che Dom abbia mai incontrato nelle sue missioni intorno al mondo. In questo nuovo capitolo il primo della trilogia conclusiva della epica saga hollywoodiana, la squadra d’élite viaggerà intorno al globo in una serie di avvincenti avventure e peripezie ambientate fra le coste di Cuba, le strade di New York fino alle distese ghiacciate al largo del Mare artico di Barents in un trionfo di rocamboleschi e spettacolari inseguimenti che evocano il mondo delle corse clandestine dei primi film della serie, il tutto come dicono dal team creativo del film, “sfidando i temi fondamentali alla base del ciclo in modo convincente ma anche divertente”. Missione compiuta. Film vivamente consigliato.

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Cinecult: l’altro volto della speranza di Aki Kaurismäki

A volte la grande, cruda verità può essere espressa e comunicata con toni poetici senza obbligatoriamente mettere il dito nella piaga o con il pugno nello stomaco. Film di velata denuncia e di critica di costume, ‘L’atro volto della speranza’ diretto dal regista di culto finlandese Aki Kaurismäki, che ha già firmato ‘Miracolo a le Havre’ e che è stato premiato per questa sua pellicola con l’Orso d’Argento come miglior regista all’ultimo Festival del Cinema di Berlino, rappresenta una bella esperienza visiva ed emotiva su un tema delicato, l’immigrazione in Europa dalle zone colpite da devastazioni e conflitti bellici, che affronta con sottile e arguto umorismo e con una vena di commossa solidarietà. La storia del film distribuito da Cinema di Valerio De Paolis si svolge in Finlandia dove Wilkström, commesso viaggiatore e rappresentante di camicie lascia la moglie e abbandona la sua attività per mettersi in proprio e rilevare un locale che da pub tipico del luogo si trasforma a seconda degli umori e delle tendenze in ristorante cinese alla moda e in club folkloristico di tendenza con musica dal vivo. Sulla strada dell’uomo d’affari molto fortunato al gioco si imbatte Khaled, un profugo siriano che si ritrova a Helsinki per caso dopo essersi imbarcato su una carboniera, come esito di lunghe e dolorose peripezie che lo hanno portato a separarsi a malincuore dalla sorella dopo aver perso l’intera famiglia. Khaled viene da Aleppo dove è in corso una guerra e le autorità finlandesi vorrebbero rispedircelo ma grazie a Wilkström che gli offre un lavoro e una prospettiva di sistemazione nella sua terra il rifugiato sembra trovare una dimensione di vita e una speranza. Surreale e poetico, venato a tratti da una struggente malinconia stemperata da una colonna sonora davvero memorabile, il film infrange il cliché secondo il quale i migranti dei paesi del terzo mondo sono solo degli invasori parassiti delle nostre città in cerca di alterne fortune e si prende gioco di tanti stereotipi circolanti sulla figura del rifugiato che dovrebbe godere invece di maggior rispetto e solidarietà umana. Lodevole perché con il sorriso e l’intelligenza riesce nell’intento di portare al pubblico un messaggio di autentica speranza e profonda verità. Dedicato a chi ama il cinema di qualità.
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Cinecult: Withney di Nick Broomfield

“Voglio essere normale” e ancora “ciò che ti cambia è la fama non il successo ma la fama non ti rende felice”. Sono dichiarazioni raccolte in varie interviste rilasciate ai media dalla pop star afro-americana Withney Houston morta sola ad appena 48 anni in una stanza d’albergo di Beverly Hills nel febbraio di 5 anni fa in seguito ad annegamento dovuto a una crisi vascolare legata a un eccessivo consumo di droghe. Comincia proprio dalla morte della cantante e attrice di Newark(New Jersey) il docu-film ‘Withney’ realizzato su commissione della BBC dal regista Nick Broomfield che sarà nelle sale italiane dal 24 al 28 aprile 2017 distribuito da Eagle Pictures. Realizzato con dovizia di materiali, interviste inedite, dettagli sulla vita privata della star e una approfondita ricerca su materiali d’archivio come scene ufficiali e retroscena dei concerti dei tour principali, il docu-film illumina le zone d’ombra della vita privata tormentata della cantante. “Nessuno mi fa fare qualcosa che non voglio fare. È una mia decisione. Quindi il mio più grande demone sono io. Sono il mio miglior amico o il mio peggior nemico” così si espresse Withney Houston in una famosa intervista televisiva rilasciata a Diane Sawyer negli anni’90. Withney Houston non era una persona felice: il suo enorme patrimonio accumulato in anni di successi, quasi 250 milioni di dollari veniva sperperato per soddisfare i desideri di parenti e amici. Cresciuta con solidi valori morali in una famiglia molto religiosa fu spinta al successo dalla madre severissima Cissy Houston che la controllava come una marionetta mentre il padre, con il quale aveva un rapporto profondo, nel periodo in cui lei era più vulnerabile le intentò una causa per ottenere un’indennità di 100 milioni di dollari. Nella sua vita dominata dalle droghe già prima che arrivasse il successo due figure ebbero grande influenza. Da una parte c’era l’amica e confidente Robyn Crawford con cui i media insinuarono che Withney intrattenesse rapporti saffici la qual cosa è un tabù per la comunità black, e che la abbandonò durante la fatidica tournée del 1999. Dall’altra c’era il suo compagno Bobby Brown, anche lui cantante e performer dal quale ebbe una figlia Bobby Cristina che morì poco dopo la madre sempre per problemi legati alla droga. Nemico giurato di Robyn, Bobby tendeva a sminuire e a maltrattare la pop star e in fatto di uso e abuso di droghe aveva instaurato un rapporto di co-dipendenza oltre a tenerla legata a sé con un ricatto emotivo. Fra i due c’era chimica perché venivano entrambi da ambienti molto umili e condividevano la stessa cultura ma Withney non fu mai vista come una rappresentante della musica black. Ai Soul Train Awards negli anni Ottanta Withney venne aspramente criticata perché veniva considerata un’icona pop favorita dai bianchi e la cantante ne fu devastata perché non veniva accettata dalla sua gente mentre Withney adorava cantare nei cori Gospel come faceva da bambina e adolescente. Cugina di Dionne Warwick, esplose a livello mondiale con il film ‘The bodyguard’ che pare fosse ispirato alla figura del maggiordomo e guardia del corpo della star, il quale nel docu-film rivela risvolti piuttosto inquietanti sulla vita più segreta di Withney. Nonostante luci e ombre-andò in overdose di cocaina la prima volta a metà anni’90 durante le riprese del film ‘Donne-Waiting to exhale’, resta il fatto che con il suo sound angelico e con il suo timbro vocale irripetibile Withney Houston ha cambiato la storia della musica spianando la strada a tutte le altre pop star afro americane come Mariah Carey che sono venute dopo di lei. Un vero fenomeno, da non dimenticare e da studiare come fa questo mirabile docu-film.
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Cinecult: Ghost in the shell di Rupert Sanders

Vertiginoso e ipervisivo l’attesissimo ‘Ghost in the shell’ diretto da Rupert Sanders e distribuito da Universal Pictures International Italia non è solo un film sci-fi in 3D ben costruito, carico di tensione e di romanticismo, ma è anche uno spietato atto d’accusa contro i rischi della tecnocrazia e della robotica che sempre più prospettano ipotesi realistiche e inquietanti di convivenza fra uomini e macchine. In un futuro non troppo lontano, il Maggiore Mira (Scarlett Johansson) è il primo essere del suo genere: un’umana salvata da un terribile incidente e modificata ciberneticamente con il contributo di una dottoressa piena di dubbi (Juliette Binoche) allo scopo di ottenere il soldato perfetto, il cui compito è quello di fermare i criminali più pericolosi del mondo. Il suo corpo è integralmente rifatto in laboratorio ma il suo cervello e la sua anima sono vivi e veri. Quado il terrorismo cyber raggiunge un nuovo livello che prevede la capacità di penetrare nelle menti delle persone e controllarle ad opera del temibile Kuze, il Maggiore diventa l’essere più qualificato per contrastarlo. Mentre si prepara ad affrontare un nuovo nemico, il Maggiore scopre però che le hanno mentito: la sua vita non è stata salvata, le è stata rubata così come i suoi ricordi. Fuggita da casa per inseguire i suoi ideali è rimasta vittima degli esperimenti di una grossa azienda che macina fatturati sulla cibernetica e sullo sfruttamento delle opportunità derivanti dalle nuove frontiere fra uomo e macchina. Dopo la sua scoperta Mira non si fermerà davanti a nulla pur di recuperare il proprio passato, scoprire chi le ha fatto ciò e riuscire a bloccarlo prima che possa fare la stessa cosa ad altri. Tratto dal famoso manga della Kodansha Comics scritto e illustrato da Shirow Masamune, il film basato sull’algida carnalità e la corporeità diafana e cristallina della Johansson affiancata nel cast da Michael Pitt e Takeshi Kitano oltre che dalla già citata Juliette Binoche, la dottoressa ‘pentita’ di ciò che ha fatto a Mira, è per citare la produzione, una ‘parabola sui pericoli della tecnologia che solleva questioni filosofiche interessanti legate ad un ambiente futuristico, ma altrettanto rilevanti per il mondo contemporaneo. Esplora ciò che ci definisce come individui – la nostra storia messa a confronto con le nostre azioni. E riesce a fare tutto questo, nell’ambito di un grande film d’azione molto travolgente’. In realtà il film, caratterizzato da immagini epiche, potenti e d’impatto secondo lo stile narrativo tipico dei manga, è molto trasversale e attraversa vari generi: dal thriller alla fantascienza, dal drammatico al poliziesco. Girato fra la Nuova Zelanda e Hong Kong il film sembra ambientato in una Tokyo del futuro. In attesa di vedere il nuovo film su Lara Croft con Alicia Vikander la Johansson recita con grande disinvoltura nel suo ruolo di guerriera sexy cyber un po’ androgina, con la benedizione di Steven Spielberg che ha scoperto la storia grazie alla figlia nel 2008, lo stesso anno in cui ha acquisito i diritti cinematografici insieme alla Dreamworks per realizzare un adattamento live action del manga di Masamune Shirow.
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Qualche volta scappano di Pino Quartullo

Arguta e salace convince per la sua sottile ironia e la sua capacità di alternare risate e riflessioni ‘Qualche volta scappano’ l’ultima, esilarante commedia diretta e interpretata da Pino Quartullo che arriva a Roma al Teatro Quirino Vittorio Gassman dall’11 al 13 aprile dopo una tournée fitta di appuntamenti in tutta Italia. Adattata dal poliedrico attore e regista dalla garbata commedia francese ‘Toutou’ di Daniel Besse e Agnès Besse, questa commedia mette in scena, dopo infinite storie di padroni che abbandonano i cani, il curioso ‘dramma’ di un cane che scappa dagli affettuosi e confusi padroni, i coniugi Alessandro (Pino Quartullo) e Marzia (Rosita Celentano) affetti come molte persone oggi dalla sindrome da pet therapy. Uscito di casa come ogni sera per il consueto giro serale con il suo barboncino nano ‘Toutou’ (che nella realtà si chiama Euphoria) Alessandro torna a casa senza il suo amato quadrupede gettando se stesso e sua moglie Marzia nella disperazione. Vittime di un’eccessiva umanizzazione degli animali domestici, i due coniugi, affermati professionisti molto confusi, rispecchiano gli stati d’animo di tanti padroni di amici a quattro zampe. Qui il cane non si è perso, né è stato abbandonato, semplicemente forse si è stancato di fare da valvola di sfogo alle nevrosi e alle carenze affettive della coppia. Nello psicodramma interviene in un ruolo interessante e demistificatore l’amico dei coniugi Paolo (Attilio Fontana) che con una buona dose di brioso e arguto cinismo ricco di risvolti e sfumature, insinua il tarlo del dubbio nella coppia un po’ ridicolizzando il dramma divampato a casa dei suoi amici per la fuga del cane. Quest’ultimo con la sua identità e la sua fiera personalità diviene il rivelatore di disagi e compromessi e il detonatore di segreti all’interno della coppia. Freschezza e vis comica ma anche una certa capacità di far pensare e la vocazione a filosofeggiare con sagacia su questioni apparentemente semplici contraddistinguono questa pièce dove, come dice il regista e interprete Quartullo “ci si interroga, si rimette tutto in discussione e si scoprono tante cose, in una notte che sembrava tranquilla come una delle tante”.

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Cinecult: La vendetta di un uomo tranquillo di Raùl Arévalo

Viene dalla recitazione ma il suo esordio alla regia rivela un talento innato. “La vendetta di un uomo tranquillo” diretto da Raùl Arévalo già attore di successo, un film distribuito da BIM che si è aggiudicato 4 premi Goya fra i quali quello per il miglior film spagnolo dell’anno é un pugno nello stomaco, duro e spietato. La pellicola è concepita come un thriller drammatico e realistico ambientato nella provincia spagnola e si basa su un triangolo inconsueto : José (Antonio de la Torre) Curro (Luís Callejo) e l’avvenente Ana (Ruth Dìaz) e sulla storia di fatti di sangue perpetrati da un uomo apparentemente ordinario, ma sofferente e incapace di trovare un suo posto nel mondo, José. Questi perde in una rapina in una gioielleria di Madrid la sua fidanzata uccisa a colpi di violente percosse: uno dei responsabili del crimine, Curro che però non ha commesso materialmente l’assassinio della fidanzata di José, è l’unico della banda dei suoi complici a venire arrestato. La comparsa di José nella vita di Ana che intanto, mentre il compagno Curro è in galera a scontare la pena, ha allevato un figlio avuto da lui e gestisce un bar insieme al fratello Juanjo, uno della banda dei criminali, sembra aver trovato una nuova dimensione di sollievo e benessere grazie alla placidità e al carattere tranquillo di José. Ma quando Curro esce di prigione tutto si complica, Ana è confusa e insicura al contrario di José che vuole attuare il suo piano cruento di rivalsa. Ben girato, con un montaggio serrato e scene cariche di tensione in un crescendo di pathos girate anche in piccoli paesi della Castiglia, il film di Arévalo ha più che meritato i riconoscimenti assegnatigli puntando sulla disamina di sentimenti come l’odio, la rabbia e la paura: una ottima prova per chi ama il cinema sapientemente costruito.

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Cinecult: Life. Non oltrepassare il limite di Daniel Espinosa

cover credit: Sony Pictures

Oggigiorno si va su Marte per scoprire nuove forme di vita. Cosa accadrebbe quindi, se le scoprissimo realmente? Cosa avverrebbe nel momento in cui comunicassimo o ci relazionassimo a esse? A questi e ad altri quesiti nodali cerca di dare risposte l’agghiacciante thriller fantascientifico ‘Life. Non oltrepassare il limite’ diretto da Daniel Espinosa e distribuito da Warner Bros. Entertainment Italia. Il film che vanta un cast internazionale di primordine – Ryan Reynolds, Jake Gyllenhaal, Rebecca Ferguson fra gli altri e una fotografia estremamente suggestiva, è per citare un portavoce della Sony, “un thriller horror che si pone diversi interrogativi, tra cui quello relativo a come si comporterebbe l’uomo se trovasse la vita su Marte”. Il film esprime in modo serrato e pregnante il coraggio dell’uomo e il desiderio di esplorazione ai limiti della conoscenza. In occasione della presentazione del film l’astronauta Paolo Nespoli in partenza per una missione spaziale chiamata anch’essa Life come il film ha spiegato che “Conoscere una forma di vita aliena sarebbe bello, i film ci hanno abituato a una forma con la testa grande e le antenne, forse però come mostra Life potrebbero essere diversi. Sulla stazione spaziale abbiamo procedure di sicurezza per ogni cosa possibile, ma non sull’incontro con gli alieni. Immagino che nel momento in cui si comincerà l’esplorazione su Marte questo sarà un argomento caldo. Noi dobbiamo sterilizzare tutto, ma nel momento in cui metteremo piede sul pianeta lo contamineremo”. In generale il film è una prova riuscita perché corrisponde in modo appropriato all’idea ‘realistica e contemporanea’ di fare un film che si basasse su una storia che potremmo trovare nei titoli di un quotidiano di oggi. Il plot si tinge di paura quando l’organismo monocellulare che gli astronauti hanno portato sulla stazione spaziale inizia a evolversi in forme aberranti e con grave rischio per l’incolumità dell’equipaggio. I membri dello space crew saranno alle prese con una forma di vita aliena super intelligente e molto forte che somiglia più alla ‘Cosa’ di David Cronenberg piuttosto che ad ‘Alien’, una specie vitale che per sopravvivere ha bisogno di distruggere ma come asserisce un protagonista del film, “non è cattiva in sé, cerca solo di sopravvivere”. Ottima pellicola per chi ama la tensione raccontata con arguzia, adrenalina e modernità e inoltre con acuti stilistici da action movie.

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Cinecult: Elle di Paul Verhoeven

Con ‘Elle’ il trasgressivo regista Paul Verhoeven racconta la storia di una manager d’assalto che è ghiaccio bollente: fredda e impassibile reagisce in modo passionale e perverso a uno stupro di cui è vittima nel suo appartamento. Il film, distribuito da Lucky Red, girato in Francia e tratto dal romanzo ‘Oh…’ di Philipp Djian presentato a Cannes è stato premiato con 2 César e 2 Golden Globe dei quali 2 attribuiti alla protagonista Isabelle Huppert come migliore attrice che è stata anche candidata all’Oscar. Il film che sfugge a qualunque classificazione di genere perché come dice il regista “la vita stessa non è un genere”,-non è solo un thriller, non è solo un noir, non è propriamente neppure un mélo- ritrae un carattere femminile forte. Infatti il regista ammette di ammirare sempre di più le donne nei suoi film e si è sempre ispirato alla figura della moglie nell’elaborazione dei personaggi femminili: la protagonista del film Michèle è una donna che pur essendo vittima ne rifiuta la condizione. Traumatizzata dal padre serial killer e da una madre troppo aperta nei suoi costumi sessuali, Michèle gestisce la sua vita le sue relazioni come l’azienda di video giochi in cui lavora: con il pugno di ferro. Crede di avere tutto sotto controllo ed è circondata da donne interessanti e da uomini un po’ inetti e perdenti-dall’ex marito Richard (Charles Berling) all’amante Robert che è il marito della sua migliore amica con cui ha avuto esperienze saffiche, passando per il figlio Vincent che definisce ‘un teppistello senza spina dorsale’ che ha accettato un figlio non suo. Con tutti i personaggi maschili compreso il suo stupratore, che nel corso del film flirta con lei e rivela la sua identità fino a diventare il suo amante, Michèle intreccia relazioni ambigue e perverse, che si addicono alla sua innata identità torbida. Perfetta per il ruolo di Michèle –si ricordino altri film come La cérémonie e La pianista-Isabelle Huppert ha creduto fortemente in questo ruolo audace e anti-borghese, che ha a che fare con la violenza sulle donne e il femminismo oggi, prima ancora che Verhoeven fosse ingaggiato come regista. Elle è un film che sicuramente non punta a impartire lezioni di morale assenti del resto dai vari film di Verhoeven che definisce Michèle una ‘sopravvissuta’ e le fa dire che ‘la vergogna non è un sentimento così forte da impedirci di fare di tutto’. Insomma il lato oscuro dell’eros e della sensualità femminilità sviluppato con una regia magistrale che piace e spiazza, gradevole per le forti dosi di ironia che valorizzano per paradosso l’elemento ludico delle relazioni di Michèle con il suo entourage e ben evidente nella modifica dell’attività lavorativa della protagonista dal testo iniziale di Djian alla sceneggiatura del film. Nel film infatti l’azienda di video giochi ha sostituito l’agenzia di sceneggiatori per il cinema del romanzo. “I miei prossimi progetti cinematografici? Il film Blessed virgin che è incentrato sulle vite di due suore in un monastero toscano ambientato nel Medioevo e un film sulla vita di Gesù tratto da un mio libro oltre a una pellicola ambientata in Germania nel 1923 all’epoca in cui Hitler stava per prendere il potere: anche qui il protagonista sarà una donna”. E a chi gli chiede se dopo la bomba a orologeria di ‘Basic Istinct’ oggi lavorerebbe ancora con Sharon Stone risponde :“Ne dubito perché sarebbe pericoloso”.

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Franck Mesnel e Eden Park: 30 anni di sfide

Segni particolari: un papillon rosa. Un piccolo talismano di eleganza e di libertà creativa che da trent’anni è il simbolo e il logo di Eden Park il brand francese che deve il suo nome allo stadio di rugby di Auckland, in Nuova Zelanda, un vero e proprio tempio del rugby ed è giocato sui valori dello sport della palla ovale e su due capi icona: la maglia di Jersey dei rugbisti glamourizzata e il blazer formale. Oggi Eden Park guidato da Franck Mesnel che l’ha fondato nel 1987 insieme al suo socio Eric Blanc quando erano ancora studenti, è presente in 34 paesi del mondo con oltre 530 negozi dei quali 188 all’estero ed è in piena espansione. Per i suoi 30 anni il brand lancia anche una capsule collection di capi che rievocano le sue radici e rivisitano in chiave lifestyle le grafiche dello sport anglosassone per antonomasia. Manintown ha incontrato a Roma il presidente di Eden Park Franck Mesnel qualche ora prima di un match di rugby disputato nella capitale.

Come ha vissuto i suoi primi 30 anni in Eden Park e da dove nasce la sua passione per la moda? Questo brand è stato grande scommessa. Sono sempre stato appassionato di rugby e mi sono dedicato a varie attività fra le quali la pubblicità prima di decidere di mollare tutto e imbarcarmi in questa avventura che mi ha dato finora grandi soddisfazioni. Ho studiato per 7 anni Architettura ed è forse dai miei studi che ho attinto il desiderio di cimentarmi in qualcosa che unisse moda e sport, la filosofia di vita del rugby basato sulla disciplina e il rigore grafico sia dello sport che applicato al nitore delle linee dell’architettura. Facciamo grande ricerca di nuove tendenze soprattutto in Giappone ma anche a Londra, New York, Milano e Copenhaghen. Siamo molto dediti alla qualità dei nostri capi che in parte produciamo con tessuti italiani.

Qual è il suo rapporto con l’Italia? Ottimo, ammiro molto gli italiani per la loro bellezza e innata eleganza, usiamo tessuti italiani di Albini per le nostre camicie ultra ricercate e abbiamo due showroom, a Milano e a Catania con l’obbiettivo di aprire una boutique nel futuro proprio a Milano.

Ha delle icone maschili a parte i campioni di rugby? Il rugby ci fornisce i valori ai quali ispirarci: ‘Ubbidire per imparare a disubbidire’ è il nostro motto. L’adrenalina è molto importante nel nostro lavoro ma a parte questo ci piace l’idea di essere sempre più francesi nel futuro: il gentleman francese ha uno charme sbarazzino e un filo rétro come quello di Jean Paul Belmondo e Jean Dujardin. E’ pensando a loro e al french flair che rinnoveremo il concept dei nostri negozi.

Quali sono le sue passioni maschili? Ho sempre amato pilotare aerei ed elicotteri, il vento mi dà energia e mi spinge a fare sempre meglio. Trovo stimolante volare non per sentirmi dominante ma per la libertà che questo comporta. Amo anche andare in bicicletta e praticare lo spinning in palestra più volte alla settimana.

Il capo must del suo guardaroba? Una camicia col doppio collo che mi dà la sensazione di un foulard avvolgente, in generale amo i capi sovrapposti.

Un luogo fisico e un luogo dell’anima: Come ho detto andare ad alta quota mi fa sentire vivo e più creativo, mi dà adrenalina a livello fisico. A livello emotivo mi piace ritagliarmi momenti di solitudine assoluta per dedicarmi a me stesso. Il tempo per sé stessi è diventato un vero lusso e se fossi in un’isola deserta vorrei portare con me solo una matita e un taccuino per poter disegnare in libertà, oggetti, capi di vestiario, nuove idee. Non è il massimo?

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Cinecult: Jackie di Pablo Larrain

Racconto struggente di una moglie, una madre amorevole e di una donna dal tormentato destino, Jackie Kennedy, il film biografico ‘Jackie’ diretto da Pablo Larrain distribuito da Lucky Red è uno spettacolo di rara umanità e autenticità pur sotto la superficie sofisticata, suggestiva e sfarzosa. Il regista di ‘Neruda’ ‘No-i giorni dell’arcobaleno’ e ‘Il club’ ha firmato un nuovo capolavoro vincitore all’ultimo festival del Cinema di Venezia del premio per la migliore sceneggiatura e candidato a 3 premi Oscar dei quali uno per la miglior attrice protagonista Natalie Portman, uno per la migliore colonna sonora di Mica Levi, uno per i migliori costumi di Madeline Fontaine, premiata per questo film ai British Academy Film Awards e ai Critic’s Choice Movie Awards. Il film racconta le ore e i giorni della vita di Jackie Kennedy immediatamente seguenti l’assassinio a Dallas del presidente peraltro ricostruito con grande meticolosità e sublime senso del dramma. Jacqueline Bouvier fu una delle first lady più giovani di tutta la storia americana: aveva solo 34 anni quando suo marito John Kennedy venne eletto Presidente. Dotata di stile e senso per il bello e per le arti che proteggeva da umile garbata e munifica mecenate qual era, e giornalista mancata, lasciò un segno indelebile nella storia americana anche per le scelte coraggiose che dovette intraprendere subito dopo la drammatica perdita del marito che riuscì a trasformare in una leggenda. Con un taglio intimistico e intensi primi piani la macchina da presa segue Natalie Portman-Jackie attraverso le stanze di quella che la signora considerava più che la Casa Bianca la ‘Casa del popolo’ e che aveva rinnovato con pochi, piccoli tocchi e un gusto squisito per conferire calore a una dimora ufficiale abitata da tanti capi di stato. Il film mostra una Jackie Kennedy privata molto determinata, mossa sempre dalla ricerca della verità soprattutto quando esprime la sua visione della storia e della moralità pubblica e privata al giornalista (Billy Crudup) che la intervista appena dopo la morte del marito. “Dò molto valore alla mia privacy, l’ho sempre fatto” dice durante il film. La donna si dibatte nelle traversie sulla scelta del miglior funerale per il marito morto e nella gestione dei rapporti con i figli di cui deve assicurare la sicurezza a volte discutendo animatamente con Bob Kennedy (Peter Sarsgaard) personaggio problematico che nel film afferma: “La storia è crudele, non ci dà tempo; siamo solo della belle gente, cosa abbiamo concluso? John Kennedy avrebbe potuto fare così tanto!”. Lei è sempre al centro di tutto e ammette la sua vanità e i suoi limiti pur combattendo contro i formalismi dell’establishment che la circonda e un po’ la soffoca: anche quando trattiene la rabbia e la disperazione per quanto è accaduto, Jackie mantiene sempre un contegno estremamente dignitoso e gentile come una vera first lady deve essere. Interessante il confronto dell’ex first lady con l’attore John Hurt un titano del cinema che nel film è Padre McSorley, confessore di Jackie. L’attore si è spento per un cancro al pancreas un mese dopo l’uscita del film. Bella l’immagine di Camelot metafora di una bella favola storicamente condivisa dalla famiglia Kennedy.

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Cinecult: T2 Trainspotting di Danny Boyle

L’epopea cinematografica Trash di Trainspotting tratta dalle pagine di Irvine Welsh e affidata alla magistrale regia di Danny Boyle che così tanto con il suo cinema dalle tinte forti e psichedeliche ha connotato la stagione degli anni’90 torna con il sequel del cult movie di 20 anni fa ‘T2 Trainspotting’, distribuito in Italia da Warner Bros. Pictures. Più che una classica reunion una vera e propria palingenesi del cast originale comprendente Ewan McGregor nel ruolo di Mark Renton ma anche il formidabile Robert Carlyle nei panni dello scatenato e irascibile Francis-Franco Begbie (alle prese con una dipendenza da viagra) affiancati dal cocainomane Simon Sick Boy interpretato dallo scanzonato Jonny Lee Miller e il bravissimo Ewen Bremner nel ruolo non facile di Daniel ‘Spud’ Murphy che si è rovinato la vita con le droghe. Dopo ventun anni a parte qualche chilo in più i ragazzi non sono cambiati granché e in definitiva non hanno perso smalto: lungo la strada hanno perso il compagno di bravate Tommy e ora emergono antichi rancori e nuove passioni e idee su come sbarcare il lunario. Vent’anni prima Renton si era defilato dai suoi amici a Londra dopo una rapina portando con sé la refurtiva di 16.000 sterline di cui aveva lasciato una quota di 4.000 a Spud, il più debole e indifeso del gruppo lasciando tutti gli altri però con un pugno di mosche in mano. Oggi Mark, che in questi anni ha vissuto ad Amsterdam con una donna che non lo ama più e non gli ha dato figli, torna a Edimburgo dove tutto ha avuto inizio. Qui, constatata la perdita della madre prova a riannodare i rapporti con Sick Boy e Spud, ancora schiavo delle sue dipendenze, alla ricerca della via migliore con cui incanalarle. La novità è Veronika (una spassosa e assertiva Anyela Nedyalkova), donna di piacere della Bulgaria che la sa lunga e collabora alle truffe e ai ricatti organizzati a tavolino da Sick Boy. Nel frattempo Begbie riesce a evadere dal carcere dove è stato confinato per omicidio per la rabbia di essere stato raggirato dal suo miglior amico Mark Renton e organizza piccoli furti nelle case con il figlio che invece ambisce a frequentare il college. Il film, molto ricco per la capacità del regista di gestire un’immagine doviziosa scandita da luci forti e belle inquadrature nonché dotato di un potente e inconfondibile soundtrack dove non manca Iggy Pop, affronta tematiche spesso non facili come i rimpianti, il fluire del tempo, la memoria, l’amore. Ma soprattutto questo secondo capitolo umanizza i protagonisti del primo film che ora condividono l’aspirazione alla stabilità, ad avere una famiglia e perfino dei figli, un bel voltafaccia rispetto al nichilismo eidetico e a tratti alienante del primo film, frivolo e spensierato, che a sua volta aveva rappresentato una scossa adrenalinica rispetto al compassato cinema british dei favolosi nineties. La presenza di Veronika, ispiratrice di un nuovo progetto di vita ‘ricreativo’ al quale si dedicano Mark, Sick Boy e Spud che intanto scrive dei racconti sulla sua vita e quella dei suoi amici, imprimerà una svolta al film che nel finale a sorpresa lascia presagire un sequel ulteriore. Perché come sanno i 4 ragazzi, non c’è mai occasione senza tradimento.

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Hollywood celebra l’Oscar della denuncia e dei colpi di scena

Si è svolta l’altra notte all’insegna della doppia G, glamour e gaffe, l’ottantanovesima edizione degli Oscar hollywoodiani. La sfarzosa e un po’ insolita cerimonia dominata dai colpi di scena si è svolta al Dolby Theatre di Los Angeles in un’atmosfera rutilante ma anche di denuncia. Il presidente Donald Trump non si è fatto vivo né sul red Carpet né alla cerimonia di premiazione: forse un gesto politico? Ai posteri l’ardua sentenza. Intanto la serata presentata da Jimmy Kimmel che per l’incarico prestigioso ha percepito un compenso astronomico di 15 mila dollari si è svolta non senza sorprese. Infatti il film La La Land distribuito in Italia da Leone Film Group in collaborazione con Rai Cinema e vincitore di 7 Golden Globe e di 6 Oscar dei quali miglior regia (Damien Chazelle), migliore fotografia (Linus Sandgren), migliore attrice protagonista (una smagliante Emma Stone) migliore scenografia (Sandy e David Wasco) migliore colonna sonora (Justin Hurwitz) e miglior canzone (City of Stars, di Justin Hurwitz) per un disguido dovuto alla consegna della busta sbagliata è stato per errore annunciato come premio Oscar per il miglior film che invece è stato poi attribuito a Moonlight. Il film di Barry Jenkins distribuito in Italia da Lucky Red si è aggiudicato ben tre statuette fra le quali quella per il miglior film prodotto da Adele Romanski, Dede Gardner e Jeremy Kleiner, quella per la miglior sceneggiatura non originale attribuito a Barry Jenkins e Tarell Alvin McCraney e quella per il miglior attore non protagonista consegnato a Mahershala Ali. La Lucky Red di Andrea Occhipinti ha festeggiato oltre all’uscita di Moonlight in oltre il doppio delle sale, ben 140 schermi superando di gran lunga le aspettative, anche per l’Oscar al miglior film straniero a un’altra pellicola distribuita da Lucky Red e cioè ‘Il Cliente’ di Ashgar Farhadi il cineasta iraniano che ha conquistato la sua seconda statuetta. In reazione alla posizione xenofoba del governo Trump di fronte alla questione dell’immigrazione, Farhadi non ha ritirato il premio personalmente motivando così la sua scelta:“E’ un grande onore vincere questo premio per la seconda volta” – ha dichiarato per via indiretta – “Ringrazio i membri dell’Academy, la mia troupe, i miei produttori. Mi dispiace non esserci. La mia assenza è dovuta al rispetto verso i miei concittadini e gli abitanti degli altri sei paesi a cui una legge disumana ha impedito l’ingresso negli Stati Uniti. Dividere il mondo tra ‘noi’ e i ‘nemici’ crea paure, e produce una giustificazione ingannevole per la guerra. Il cinema può catturare le qualità degli uomini, combattere gli stereotipi e creare un’empatia tra gli esseri umani che oggi serve più che mai”. E se il premio Oscar come miglior attore protagonista è andato a Casey Affleck per ‘Manchester by the sea’ della Universal Pictures e prodotto da Matt Damon, quello per la migliore attrice non protagonista se l’è accaparrato la meravigliosa Viola Davis, grande e sensibile interprete del film ‘Fences (Barriere)’ distribuito anch’esso da Universal Pictures. La geniale Colleen Atwood si è confermata come la migliore costumista per ‘Animali fantastici e dove trovarli’ distribuito per l’Italia da Warner Bros.Pictures mentre il bel film di Mel Gibson con protagonista il talentuoso Andrew Garfield ‘La battaglia di Hacksaw Ridge’ distribuito da Eagle Pictures e Leone Film Goup ha portato a casa 2 statuette quella per il miglior montaggio (John Gilbert) e l’Oscar per il miglior sonoro attribuito a Kevin O’Connell, Andy Wright, Peter Grace e Robert Mackenzie.

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Cinecult: Cinquanta sfumature di Nero di James Foley

Li avevamo lasciati in piena bufera sentimentale ma i due non si danno per vinti: in ‘Cinquanta sfumature di nero’ diretto da James Foley e distribuito da Universal Pictures, secondo episodio della saga erotica letteraria bestseller di E L James, Christian Grey (Jamie Dornan) e Anastasia Steele (Dakota Johnson) mettono in scena una relazione che si tinge decisamente di toni dark. La bella favola amorosa che i due sembrano intrecciare nel primo film’Cinquanta sfumature di grigio’ è sottoposta a dure prove perché nella vita di Mister Grey, lo scapolo più ambito di Seattle, emergono zone d’ombra provenienti dal passato e di cui Grey sembra non voler parlare. La storia continua con un Christian Grey ferito, che cerca di persuadere una cauta Ana Steele a tornare nella sua vita. Lei esige di rinegoziare i termini del loro accordo sentimentale in cambio di un’altra possibilità. I due iniziano così a ricostruire un rapporto basato sulla fiducia, e a trovare un equilibrio, ma riaffiorano alcune figure misteriose provenienti dal passato di Christian, decise a distruggere le loro speranze di un futuro insieme. E la love story molto glamour diventa un thriller non privo di scene bollenti ma in realtà molto pruriginose più che realmente erotiche. Chi ha amato Eyes Wide Shut specialmente il Fidelio Party e 9 settimane e ½ -peraltro Kim Basinger interpreta nel film un ruolo molto enigmatico e torbido, quello di Elena Lincoln, ossia colei che ha iniziato Grey ai piaceri dell’eros- non rimarrà deluso. Nella fitta trama di intrighi e di personaggi dai risvolti più cupi come la ex sottomessa e succube di Grey, la tenebrosa squilibrata Leila Williams (Bella Heathcote) e il fascinoso boss di Ana Steele, l’editore Jack Hyde (Eric Johnson) licenziato perché denunciato da Ana Steele per molestie, si fa avanti il gioco della seduzione intrisa di potere: anche se preferisce il romanticismo alle perversioni di Grey, Ana Steele è curiosa di visitare ancora la ‘stanza dei giochi’ pur se con prudenza. Degna di nota la scena del rituale delle sfere d’argento. Il film, non privo di colpi di scena, riserva non poche sorprese anche sul personaggio di Grey e sembra a tratti virare verso la suspence, pur non rinnegando la sua vocazione alla messinscena di un eros patinato e felicemente glamourizzato. Chi ha amato i primi 2 episodi si tenga già pronto al seguito.

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Cinecult: Gimme Danger di Jim Jarmusch

“Non voglio essere patinato, punk o alternativo, voglio solo essere!”. Così Jim Osterberg, al secolo Iggy Pop, si definisce nel docu-film distribuito da Nexo Digital e da Bim, al cinema solo il 21 e il 22 febbraio, una pellicola di grande spessore narrativo che il magistrale cineasta Jim Jarmusch dedica a Iggy and the Stooges’ un gruppo rock che formatosi nel 1967 si sciolse poi nel 1973 in seguito a problemi di droga di molti dei suoi componenti e cioè Dave Alexander che morì di polmonite nel 1975, i fratelli Ron e Scott Asheton scomparsi pochi anni fa e naturalmente Iggy Pop che per un periodo fu affiancato alla chitarra elettrica da James Williamson. Quest’ultimo dopo lo scioglimento della band si dedicò all’ingegneria e all’industria elettronica mentre Iggy Pop volava in Europa per lavorare con David Bowie. Nato nella città di Ann Arbor, in Michigan, proprio nel periodo in cui si affermava la controcultura giovanile, lo stile potente e aggressivo del rock ’n’ roll di ‘The Stooges’ capitanati da Iggy Pop – una delle figure tutt’ora più appassionanti e iconoclaste della storia del rock- rappresentò una novità esplosiva nel panorama musicale della fine degli anni Sessanta. Aggredendo il pubblico con una miscela di rock, blues, R & B e free jazz, la band pose infatti le basi per quello che sarebbe stato chiamato nei decenni successivi il “punk rock alternativo” e venne così inserita dalla rivista Rolling Stone nella lista degli artisti immortali. Il nome della band ‘The stooges’ che significa ‘fantocci’ derivava dal fatto che i componenti della band ritenevano che tutti se la prendessero con loro anche se non facevano niente. Il film, pregevole per la ricerca di immagini, video e filmati, si snoda attraverso una serie di interviste a Iggy Pop e agli altri membri che si sono avvicendati nella band. Nel 1970 gli Stooges raggiunsero l’apice della fama e lasciarono un’impronta indelebile nella moda, nell’arte e nel cinema come testimonia il film ‘Velvet Goldmine’ che innescò la bomba della reunion della band nel 2003, dopo 35 anni dal suo scioglimento. Iggy Pop è particolarmente originale nel suo modo di stare sul palco che, come viene detto nel film, “dimostra che la vita è nell’attimo presente e che quell’attimo deve essere intenso”. “Faccio cucina espressa” soleva dire ai tempi d’oro l’Iguana Iggy Pop a sottolineare la freschezza delle improvvisazioni che caratterizzavano le sue performance. Una carriera anarchica fatta di successi e cadute che lo hanno consacrato assieme a The Stooges come punto di riferimento assoluto del punk americano. Dalle sue parole emerge pian piano tutto ciò che ha fatto di The Stooges una band capace di cambiare l’immagine stessa del rock anche grazie al confronto con Velvet Underground, Nico, John Cale e incontri come quelli con Andy Warhol e naturalmente David Bowie. Vibrante.

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Cinecult: Barriere di Denzel Washington

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Grande prova per un Denzel Washington in forma smagliante che sullo sfondo di una umida e accaldata Pittsburgh racconta in ‘Fences’ il dramma interiore di un eroe-antieroe, Troy Maxson, un netturbino da lui stesso interpretato prima a Brodway e poi ora sul grande schermo, un uomo che ha rinunciato al suo sogno di diventare campione di baseball per condurre un’esistenza stabile e solida accanto alla moglie Rose(Viola Davis) e perché non accettato in quanto ragazzo di colore per diventare qualcuno inseguendo il suo sogno . Nel film, distribuito in Italia da Universal Pictures International Italy e candidato a 4 premi Oscar, fra i quali quello alla miglior sceneggiatura non originale del gigante della letteratura americana August Wilson, morto nel 2005, autore della pièce vincitrice del Premio Pulitzer dalla quale è tratto il film, e quello al miglior attore per Denzel Washington che ha anche diretto e coprodotto la pellicola, emergono tutte le frustrazioni e le miserie di un uomo che è stato un fenomeno a suo modo ma che ha capito, dopo mille vicissitudini fra cui l’esistenza da homeless, che “La vita non è tutta rose e fiori” e non riesce a tenere unite le sue ultime certezze come il nucleo familiare che si sgretola a causa del desiderio di Troy di costruire un’altra famiglia con una donna diversa da Rose, gettando tutto alle ortiche. Troy dovrà difendere il suo’recinto’ e le sue dighe o ‘barriere’ (da cui il titolo del film) da tutti i conflitti con i grandi e profondi cambiamenti sociali che il popolo afroamericano stava attraversando nell’epoca, gli anni’50, in cui è ambientato il film, cambiamenti che il protagonista si ostina a rifiutare e a non riconoscere. Nella sua ottica di prigioniero di una vita meschina costruita su false certezze, Troy non asseconda le inclinazioni artistiche del primo figlio Cory (Jovan Adepo) e la vocazione atletica del secondogenito Lyons(Russell Hornsby), che vorrebbe sfruttare una borsa di studio per entrare nella squadra di Football professionistica e che poi troverà un avvenire nell’esercito. “Cosa accade-si chiede Denzel Washington nelle note di regia- quando si è bravi abbastanza ma si fallisce comunque? Dove va a finire tutta quella energia quando non puoi esprimere il tuo talento? Troy sarebbe potuto diventare un campione nel suo sport e invece è semplicemente bloccato nel tempo, mal-equipaggiato per gestire un mondo in cambiamento e frustrato per la sua occasione mancata”. Una grande regia, una scelta oculata dei costumi e una tecnica magistrale dell’inquadratura rendono questo film un monumento della drammaturgia dedicata alla denuncia sociale sulla condizione dei neri d’America, un filone affrontato con solida dignità e dei dialoghi ricostruiti con grande perizia drammaturgica. Stupenda l’interpretazione di Mykelti Williamson del personaggio di Gabriel, fratello mentalmente menomato di Troy e interessante la prova attoriale di Russell Hornsby che interpreta il secondo figlio di Troy, in perenne lite col padre. Eccezionale il ruolo che nel film e nell’opera di Wilson interpreta il blues, un’atmosfera dello spirito più che una colonna sonora.

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Roma sempre più vivaio del dolce stil novo con Altaroma

New Designers at Coin Excelsior ph. Allucinazione per Altaroma

Approdata nell’ex caserma di via Guido Reni 7, diventato un hub stimolante e spazioso per ospitare eventi di diversa rilevanza e portata, Altaroma cambia d’abito. E acquista un nuovo slancio creativo con un calendario ricco di appuntamenti che in 4 giorni hanno acceso i riflettori, oltre che sull’alta moda per happy few, anche sulle realtà più giovani e bisognose di sostegno. “Abbiamo scelto questa nuova sede per questa edizione perché è più centrale e quindi più raggiungibile e poi è così grande e funzionale da consentire di poter organizzare sfilate quasi in concomitanza fra loro; inoltre si trova di fronte al Maxxi con cui istituiremo sinergie sempre più strette anche per le prossime edizioni”, spiega il presidente di Altaroma Silvia Venturini Fendi. E aggiunge: “Occorre che Altaroma diventi più liquida e aperta per sostenere nuovi progetti creativi e che faccia sempre più dialogare al suo interno le sue espressioni creative più tipiche: cinema, arte e moda”. Non per niente la maison Fendi in cui la stilista è tuttora attivamente coinvolta a livello creativo-a Silvia Venturini Fendi si deve l’invenzione della borsa feticcio ‘baguette’ e attualmente riveste la carica di direttore creativo delle collezioni uomo, bambino e accessori donna di Fendi- ha aperto il nutrito calendario della manifestazione con una mostra al Palazzo della Civiltà Italiana, ribattezzato Palazzo Fendi che fino a luglio ospita la mostra ‘Matrice’ dedicata a Giuseppe Penone. L’artista piemontese d’avanguardia si appresta a donare a Roma in aprile 2017, grazie al munifico intervento di Fendi, una sua scultura-installazione che sarà collocata a Largo Goldoni, di fronte a un’altra sede romana di Fendi. La solenne apertura mondana della personale dedicata al grande artista, il primo dell’arte contemporanea a fare un simile dono a Roma, ha aperto la kermesse capitolina che attrae sempre più giovani e compratori stranieri, soprattutto asiatici, incuriositi dalla varietà di proposte e di eventi proposti dalla manifestazione, sempre più aperta a un dialogo con il Comune di Roma e con il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) che eroga i suoi fondi per Altaroma. Accanto ai nomi altisonanti dell’atelier hanno sfilato le collezioni per l’autunno-inverno 2017-18 di talenti emergenti come Greta Boldini, ispirata dalla leggerezza delle falene e della pelliccia poggiata su abiti vagamente rétro, di Marianna Cimini, che si rifà a una donna forte e fragile come il bambù giapponese, di Miahatami disegnata dall’iraniana Narguess Hatami che reinventa un’oasi nel deserto lavorando i tessuti come preziosi tappeti Kilim. Dopo i consensi della prima edizione è tornato inoltre in passerella Portugal Fashion sfilata collettiva dei 3 designer portoghesi Pé de Chumbo, Estelita Mendonça e Susana Bettencourt, una presenza che rispecchia l’evoluzione della creatività del Portogallo aldilà dei confini geografici. Oltre a dare visibilità agli accessori dei finalisti di Who is on next? Come Akhal Teké, Azzurra Gronchi e Lodovico Zordanazzo, Altaroma ha presentato fra gli altri eventi l’inedito Silent Vernissage, un percorso multisensoriale in via del Pellegrino popolato di live performance, istallazioni e video proiezioni in un viaggio virtuale vissuto dai visitatori muniti per l’occasione di avanzate cuffie wireless in una contaminazione di stili e culture, arte e moda, di cui Altaroma è sempre più imbevuta.

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Cinecult: GGG di Steven Spielberg

Storia di amicizia, fantasia e avventura ‘GGG’ di Steven Spielberg, distribuito in Italia da Medusa, è il primo film di Spielberg prodotto e distribuito (per l’America) da Walt Disney Pictures. Il film d’animazione e avventura racconta del rapporto di amicizia che sboccia fra il Grande Gigante Gentile (l’attore Marc Rylance) e la piccola Sophie (Ruby Barnhill) sullo sfondo surreale della terra dei giganti che con la loro arroganza si prendono gioco di GGG e minacciano gli umani e i sogni dei bambini. Ambientata in Inghilterra e tratta dal romanzo di Roald Dahl, questa favola tecnologica esordisce a Londra dove in un orfanatrofio la piccola Sophie non riesce a dormire e così incontra un gigante, che la porta nel suo mondo, dove vivono altri giganti. Questi giganti si nutrono di carne umana (soprattutto bambini), ma il gigante che ha rapito Sophie non è come tutti gli altri: il suo nome è GGG (acronimo di “Grande Gigante Gentile”), è l’unico della sua specie che non mangia uomini e per di più è molto gentile e socievole. Sophie e GGG diventano amici, e la bambina aiuta il gigante nel suo lavoro: creare e portare bei sogni ai bambini addormentati. Il provvido intervento delle truppe di Sua Maestà la regina d’Inghilterra (interpretata da Penelope Wilton) salverà gli uomini dalla prepotenza dei giganti carnivori e cementerà l’alleanza e l’amicizia fra il gigante e la bambina. Film notevole e magico, fiaba antibrexit e anglofila, l’ultima fatica di Steven Spielberg segna un ritorno ai film fantastici ricchi di effetti speciali come E.T. e altri capolavori di tecnica cinematografica. Spielberg vola alto con la fantasia avvalendosi di una tecnologia digitale ‘foto-realistica’ che consente agli attori di interagire davvero anche sullo stesso set o su set di dimensioni diverse, commisurati alle dimensioni dei vari personaggi. Con questa pellicola onirica e innovativa Spielberg si conferma uno dei più geniali e visionari interpreti del genere fantasy rappresentando con GGG un eroe positivo un po’ maldestro e ingenuo ma rigorosamente vegano in una storia che lancia un messaggio positivo importante: quando la realtà prende una brutta piega gli adulti sono pronti a usare il loro potere per soccorrere e salvaguardare l’innocenza dell’infanzia.

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Federico Fellini influencer cubed

FELLINI E LA MODA- PERCORSI DI STILE DA CASANOVA A LADY GAGA
AUTOR|GIANLUCA LO VETRO
PUBLISHED BY|MONDADORI BRUNO

Geniale, poliedrico, visionario: in una sola parola un poeta-sognatore che ha inventato e re-inventato la favola del cinema italiano, facendone lo specchio di un immaginario fervido e vertiginoso che è un po’ l’esegesi stilizzata del nostro vivere. Tutto questo è stato ed è ancora Federico Fellini, osannato in tutto il mondo non solo per la sua eccezionale maestria nel creare pellicole indimenticabili, ma anche e, soprattutto, per costruire e manipolare un immaginario che ha avuto e continua ad esercitare un forte ascendente anche sulla generazione Y. Tanto che, se fosse ancora in vita, oggi suo malgrado sarebbe definito insieme alla formidabile Giulietta Masina un grande e ineffabile ‘influencer’, per usare il lessico dell’era digitale.
Difficile identificare in poche righe tutti gli stilisti, i designer, gli artisti e in generale i creativi ‘influenzati’ dalla sua vena immaginifica e onirica, capace di evocare interi mondi. In attesa di leggere il nuovo libro ‘Olimpo’, a cura di Rosita Copioli, in uscita nel 2017, in cui Fellini ripercorre gli archetipi della nostra immaginazione – suo tratto artistico distintivo e magistrale – con la libertà fantastica e l’intelligenza critica del grande romanziere ,svelando gli addentellati fra il grande cineasta e il mondo del costume e della società del suo tempo e soprattutto del nostro, l’iperbole del genio proteiforme felliniano è il soggetto centrale delle 148 pagine del volume ‘Fellini e la moda – percorsi di stile da Casanova a Lady Gaga’, pubblicato da Bruno Mondadori e scritto dal giornalista, studioso e docente universitario Gianluca Lo Vetro. L’autore riesce a cogliere, basandosi su alcuni riferimenti iconici, le connessioni della poetica felliniana con l’attualità, catturandone la longevità espressiva. Le propaggini di questa visione dell’estetica e della società arrivano fino al mimo Lindsay Kemp, che ha influenzato la gestualità di scena e le pose di David Bowie, ma anche le performance di Leigh Bowery, che tanto scandalo provocarono fuori dai circuiti underground degli anni Ottanta, fino a influenzare il make-up delle modelle di una memorabile collezione di Alexander McQueen. Felliniano, a dir poco, è sempre John Galliano. Il geniaccio di Gibilterra ha architettato collezioni che sono palesemente ispirate a Fellini soprattutto quando, mandando sulla passerella per la haute couture di Dior delle donne-prelato, ha reso omaggio in modo dissacratorio alla sfilata degli abiti talari tratta da un indimenticabile passaggio del film ‘Roma’. L’immaginario felliniano e la sua eco sono molto pervasivi nell’opera psichedelica e sopra le righe di David LaChapelle, come nei film di Terry Gilliam e di Paolo Sorrentino oltre che, naturalmente, nei modelli di Dolce & Gabbana, che nel loro universo creativo richiamano sia Anouk Aimée e il suo tubino nero sia le curve dell’ubertosa Anita Ekberg, eterna incarnazione della Dolce Vita.

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Il nuovo umanesimo secondo l’uomo che verrà

Semplicità, umanità, modestia, amicizia, fratellanza. Non è il manifesto di un clan o di una società segreta ma il complesso dei messaggi antropocentrici che sono circolati con dovizia nelle ultime sfilate uomo per l’autunno-inverno 2017-18. In passerella non è solo la giacca, sempre con spalle scese e coulisse in vita come un parka, a subire un processo di decostruzione. Destrutturata è anche la nuova identità maschile pure secondo Giorgio Armani, che da sempre professa una fede incrollabile nell’essenzialità e lo riconferma con la sua idea cool di una sciarpa che avvolge un braccio e fascia il busto. Semplice ma sexy. Ritornare a un linguaggio essenziale significa recuperare la verità e la modestia di un completo da artista bohémien in velluto a coste da alternare a una maglia con disegni da pittore naïf: è il Miuccia Prada pensiero che opta per una mascolinità un po’ acerba e ribelle a base di collane con conchiglie e pantofole di pelo. Giocano la carta dell’essenzialità che riporta in auge il montone in tutta la sua declinazioni anche Fendi e Dirk Bikkembergs dove è approdato Lee Wood. Silvia Venturini Fendi difende l’idea di un uomo molto moderno e gentile, amante del nylon reversibile spesso lavorato e accoppiato con la pelliccia, visone o shearling poco importa e degli accessori multitasking come lo zaino che può diventare sgabello. La vera eleganza che si nutre di sobrietà e di una nuova umanità circola anche nelle proposte maschili di Donatella Versace che alterna un lato più classico a uno decisamente selvaggio e quasi street mettendo insieme un cast multietnico “perché i ragazzi di varie parti del mondo devono dialogare fra loro”. Meglio allora disegnare per loro completi tailored snelliti ed epurati con belle borse da meeting d’affari alternativo, come quelli del Signor Finestra protagonista della serie televisiva ‘Vinyl’, dalla graffiante anima rock come quello della bionda anima creativa della Medusa. Da Dirk Bikkembergs Lee Wood, nuovo direttore creativo del brand distilla un guardaroba che sembra emulare Jil Sander anni’90 con una grande passione per la pelle spesso dark e per il montone che denuda le spalle, con abiti strutturati ed eleganti in colori chiari. Regale e signore del web e del grande e piccolo schermo è l’interlocutore privilegiato di Dolce & Gabbana che pensano a Cameron Dallas e a Lucky Blue Smith battezzati ‘nuovi principi’ con tanto di corona, fra i protagonisti di uno show faraonico nel cast e nella messinscena che ha premiato l’opulenza di abiti damascati e la vena funny di borse-zaino in peluche a forma di testa d’animale. Perché ciò che conta in un’epoca complessa come la nostra è giocare la carta dell’ironia e della leggerezza per sdrammatizzare il più possibile senza perdere di vista la necessità di uno storytelling solido e gravido di contenuti plausibili per il pubblico maschile.

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THE NEW FACES OF ITALIAN CINEMA

Una carrellata di volti ed espressioni cattura per i nostri lettori la neo generazione di attori italiani, in uno shooting fra moda e musica. Una serie di immagini di stile fra formale e streetwear colte sulle note di canzoni speciali scelte dai nove protagonisti. MANINTOWN ne ha fotografato i look, cercando di indagare sulle loro passioni e aspirazioni, alla ricerca di una nuova identità italiana fra cinema, televisione e teatro.

GIULIO BERANEK

Quale sarà la tua prossima avventura professionale? Puoi darci delle anticipazioni?Più cinema o teatro nel tuo futuro?
Spero che nel mio futuro ci sarà più cinema. Prossimamente sarò sul grande schermo con la commedia “Lasciati andare”, di Francesco Amato, con Toni Servillo, e con “Una questione privata”, dei fratelli Taviani, al fianco di Luca Marinelli. In TV invece è attesa la messa in onda di ‘Tutto può succedere 2’.

Quali sono le tue passioni maschili e come le vivi?
Gioco a calcio quando riesco a non farmi male e mi piace scrivere, sono due passioni che mi aiutano a rilassare il fisico e la mente.

Un capo e/o un accessorio must have del tuo guardaroba
I calzini.

Un luogo privilegiato o ideale per il corpo o per l’anima e la mente.
Il luogo ideale per me è il mare.

La canzone che ci hai indicato durante lo shooting e’ legata a qualcosa in particolare(‘Love will tear us apart’ dei Joy Division)?
La canzone che ho scelto nello shooting era la prima che mi è venuta in mente.

RIMAU RITZBERGER

Quale sarà la tua prossima avventura professionale? Puoi darci delle anticipazioni?Più cinema o teatro nel tuo futuro?
Ho appena finito di girare un cortometraggio da protagonista in Sardegna, per la regia di Enrico Pau.

Quali sono le tue passioni maschili e come le vivi?
Mi rifugio nella lettura o in un cinema possibilmente vuoto. Poi gli scacchi e le gare di corsa.

Un capo e/o un accessorio must-have del tuo guardaroba.
La camicia.

Un luogo privilegiato o ideale per il corpo o per l’anima e la mente.
La montagna.

La canzone che ci hai indicato durante lo shooting e’ legata a qualcosa in particolare(Toccata e Fuga in D Minore di Bach)?
La toccata e fuga è legata alla mia famiglia e in particolare a mio padre, che suonava l’organo.

ALESSANDRO SPERDUTI

Quale sarà la tua prossima avventura professionale? Puoi darci delle anticipazioni?Più cinema o teatro nel tuo futuro?
In questo momento sto girando un film per la regia di Michael Radford, “La musica del silenzio” sulla vita di Andrea Bocelli, con Antonio Banderas ed Ennio Fantastichini e altri big. In uscita su RaiUno c’è “Il Confine”, di Carlo Carlei, in cui sono un irredentista della Prima Guerra Mondiale.

Quali sono le tue passioni maschili e come le vivi?
Sono appassionato di colonne sonore e tecnologia, cerco di combinare le due cose e per hobby creo brani al computer. Amo lo sport, dalla palestra fino all’arrampicata e allo snowboard.

Un capo e/o un accessorio must have del tuo guardaroba
Un cappotto nero

Un luogo privilegiato o ideale per il corpo o per l’anima e la mente.
Il mio luogo ideale è un lago tra le montagne come il Lago Matheson in Nuova Zelanda, o anche il lago di Braies in Trentino.

La canzone che ci hai indicato durante lo shooting e’ legata a qualcosa in particolare(New Born dei Muse)?
È un brano misterioso e potente, di grande ispirazione, appartiene a un periodo molto incisivo della mia vita. L’ho ascoltato dal vivo a un festival in Inghilterra.

Cinecult: Aquarius di Kleber Mendonça Filho

Intrigante bellissima, sfaccettata come non mai Sonia Braga in questo film ‘Aquarius’ di Kleber Mendonça Filho presentato in concorso a Cannes 2016, distribuito da Teodora Film , pellicola che ha fatto incetta di premi conquistando il box office, interpreta il ruolo di Donna Clara. Che è soprattutto un’appassionata sopravvissuta: a un tumore al seno e poi alla perdita dell’adorato marito che vediamo solo nel prologo del film ambientato negli anni’80. Tenace e coraggiosa la protagonista di questa storia, critica e compositrice musicale in pensione, affronta impavida i nuovi proprietari del palazzo in cui vive da cui prende il nome il film, un bellissimo edificio anni’40 che si erge sul lungomare di Recife di cui uno spregiudicato imprenditore immobiliare ha acquistato tutti gli appartamenti tranne quello della signora 65enne.
Il film sensuale, poetico e toccante si dipana fra nostalgia e senso della memoria costellata di una serie di oggetti che raccontano una storia-dalla credenza testimone di amplessi e vicende romantiche fino a una meravigliosa e monumentale collezione di dischi in vinile che Donna Clara tratta come simulacri e oggetti sacri quasi come metafora di un passato ineffabile-e la guerra fredda che la protagonista porta avanti contro i nuovi proprietari del palazzo e in particolare contro Diego, l’incaricato della società del progetto di acquisto e ristrutturazione che rappresenta il Brasile subdolo e corrotto. Ritratto di signora che incede pensosa sul viale del tramonto incerta del futuro vivendo sola e con grazia maestosa e fiera lontano dai suoi tre figli che talora si ricordano di lei. Ancora bellissima, la donna prova a intrecciare relazioni fugaci nel tentativo di sentirsi ancora ‘viva’ come quando era innamorata di suo marito. Onore al merito alla meravigliosa colonna sonora che accompagna le evoluzioni psicologiche del personaggio principale. Accanto a Sonia Braga un cast di giovani attori di talento, da Irandhir Santos a Maeve Jinkings, fino a Carla Ribas e Julia Bernat, Humberto Carrao e Barbara Colen.

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Pino Quartullo torna in scena a Roma con La strategia del Paguro

Con la ‘Strategia del paguro’ versione italiana della commedia francese “Una semaine pas plus” (Una settimana non di più) di Clement Michel (autore-attore quarantenne francese) Pino Quartullo che ha diretto e adattato il testo teatrale interpretando anche il ruolo chiave della commedia, Piombo, l’amico paguro che si costruisce una ‘casa’ a spese degli altri, torna a indagare sulla fenomenologia contemporanea dei rapporti di coppia mettendola a nudo con sense of humour scoppiettante, tagliente ironia e una buona dose di saggezza. Come si fa a lasciare una donna che ti adora, gentile e carina? E’ quello che si chiede il buono e simpatico Mattia (Alberto Farina) sottomesso a Brinna, la sua donna bella e volitiva. Da tempo la passione ha lasciato il posto alla tranquilla routine, la bomba sexy è ora divenuta una placida donna di casa perennemente in tuta e capelli raccolti con matita. Mattia non è nemmeno innamorato di un’altra. Semplicemente Mattia non sopporta più Brinna. Lo infastidisce ogni cosa di lei; quello che lo aveva fatto innamorare ora è quello per cui vorrebbe eliminarla per sempre. Ma per lasciare qualcuno ci vuole coraggio. E Mattia non ne ha nemmeno un briciolo. Sa solo che deve lasciare Brinna al più presto, prima che la situazione degeneri. E allora come fare? Invitare a casa il proprio imbarazzante migliore amico, Piombo (Pino Quartullo) che guarda caso Brinna detesta. Depresso cronico, inappagato nel lavoro quanto inappagato in amore, accetta controvoglia di essere l’elemento di disturbo nel ménage di Mattia e Brinna. Ecco infatti il piano diabolico di Mattia: esasperare la sua donna e molto vigliaccamente mettere lei in condizione di lasciarlo (e come un paguro impossessarsi della casa). Ma dopo pochi giorni di assurda convivenza a tre, fra battute, discussioni, equivoci, sotterfugi e provocazioni, la situazione sfuggirà di mano a tutti e tre, con un risvolto inaspettato. Un’implacabile commedia triangolare, piena di colpi di scena, menzogne e situazioni comiche in cui gioca un ruolo fondamentale il talento comico di Alberto Farina, uno dei pilastri della trasmissione “Colorado” e interprete al cinema di vari film. Come in molte pièce d’oltralpe pregi e difetti, vizi e virtù dei sentimenti umani vengono dipinti con dialoghi divertenti e serrati, situazioni tragicomiche e talvolta grottesche, nella piena tradizione francese. Da vedere specialmente per il finale a sorpresa che ribalta le sorti dei personaggi.

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Moda maschile, il mondo in una giacca

Elastica e sinuosa, con quel pizzico di jersey che la fa aderire nelle zone strategiche dell’anatomia virile, tagliata in modo sartoriale e con un appeal molto british la giacca riacquista la sua centralità nell’armadio del gentleman evoluto che in nome dell’eleganza non rinuncia mai al comfort. All’ultima edizione del salone Pitti Immagine Uomo per l’autunno-inverno 2017-18 come conferma Antonio Cristaudo, fashion guru e ricercatore di tendenze per la rassegna di moda maschile, la giacca “tende a soppiantare l’abito inteso dagli uomini come una rigida divisa e si combina bene con il cappotto e con il montone, consente di personalizzare il proprio look spezzando il classico completo con un pantalone più informale, ha un’allure aristocratica ma anche decostruita, privilegia le lane inglesi e i disegni check e soprattutto manifesta una forte vocazione a fondersi con la maglieria”. Capospalla e maglieria vivono in simbiosi nelle collezioni di vari marchi presenti negli stand della Fortezza da Basso di Firenze: a cominciare da Lardini dove la grande novità è la giacca cardigan effetto maglia d’impronta militare o quella che si porta proprio sotto il cardigan a kimono accanto alle più preziose giacche intelate che rivelano la matrice sartoriale dell’azienda di Filottrano. “La giacca deve avvolgere senza comprimere” spiega Gabriele Pasini, stilista di una sua linea omonima sviluppata in tandem con Lardini e mostra la sua giacca con i revers a lancia che sfinano e si portano con pantaloni sarouel di foggia esotica. “Non c’è un solo tipo di giacca che suggerisco perché la giacca ha tante anime e permette all’uomo di esprimersi liberamente personalizzando il proprio look”, aggiunge Pasini. La giacca fa l’uomo, e lo fa libero, maturo e consapevole di sé e delle sue scelte estetiche. Sono tante e di tanti tessuti diversi ma tutte destrutturate pur mantenendo quella forma avvitata e accostata al corpo, mono o doppiopetto, le giacche di Brunello Cucinelli che propone un soft tailoring, un casual lussuoso declinato in velluto, cachemire e lane bouclé o gessate. “La giacca è un gesto, è così easy quando lo infili e la sfili, è quasi un rito quotidiano e dice molto di un uomo”, spiega Luca Magliano, stilista emergente bolognese del marchio Magliano selezionato da Pitti Uomo e Mini per The Latest Fashion Buzz, un incubatore di nuovi talenti nato come vetrina del nuovo che avanza. Secondo Magliano la giacca deve essere epurata e ridotta ai minimi termini per tornare alla sua essenza sartoriale ma senza costruzioni o imbottiture. E’ impalpabile come un alito di vento la giacca Zero Gravity di Tombolini che questa nuova stagione si combina bene con il gilet di maglia della stessa fantasia a scacchi della giacca stessa e mostra colori e lavorazioni inedite come l’agugliatura, per il cammello più pregiato. E’ un ordigno di seduzione la giacca di Tagliatore disegnata dal pugliese Pino Lerario che crede molto in una giacca “che veste e non copre” traslata nel binomio cromatico antracite e cognac, con ampi revers e una linea che segue le forme del torace assecondandole: si porta con un dolcevita o con un gilet in tessuto. Molto più generose nei volumi e nelle proporzioni le giacche maglie completamente decostruite di Altea che crea sapienti abbinamenti di fantasie e di colori sul tema del finestrato con echi street e spunti cromatici interessanti. Gioca molto con la maglieria anche Cividini con i cardigan magistralmente tinti in capo mentre la leggerezza è la cifra distintiva delle giacche di Massimo Rebecchi che si ispira a un dandy di nuova generazione amante dei disegni più classici ma rivissuti in chiave contemporanea come il pied de poule e il Principe di Galles con effetti flanelle, per lane pure o pettinate. Poi ci sono i tessuti ad alte prestazioni come quelli hi-tech che sembrano naturali in disegni tradizionali: li propone Traiano un brand emergente ma anche Lumberjack che si concentra sulla modularità e fungibilità dei capi termici alternati alle giacche tradizionali nel weekend ma anche in vari momenti e occasioni. Si chiama Techmerino la nuova trovata di Alessandro Sartori per Z Zegna che fra il casual attivo destinato allo sci e il formale trova nuove frontiere, ampliando gli orizzonti del bel vestire con un nuovo statement sulla giacca.

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Cinecult: E’ solo la fine del mondo di Xavier Dolan

Quando l’attrice Anne Dorval lo presentò all’attore e regista Xavier Dolan, reduce dal successo di ‘J’ai tué ma mère’, Dolan aveva accolto con incredulità e scetticismo il copione di ‘E’ solo la fine del mondo’(Juste la fin du monde), testo di una pièce teatrale del 1990 di Jean-Luc Lagarce. Ma reduce dalle fatiche del suo capolavoro ‘Mommy’ il cineasta francese, ormai osannato dalla critica e dal pubblico internazionale anche per film come ‘Laurence Anyways’ e ‘Tom à la ferme’ ha riconsiderato la sua decisione di non affrontare quella pièce e ha scelto di dirigere e trasporre per il cinema l’opera traendone un film ad altissimo impatto emotivo distribuito in Italia da Lucky Red. Il film, che ha valso a Dolan il Gran Premio della Giuria conferitogli nell’ambito dell’ultimo festival di Cannes, è un dramma sui conflitti famigliari che hanno impedito al giovane Louis (Gaspard Ulliel) scrittore di successo, di confrontarsi con i suoi parenti più stretti per ben dodici anni. La sua omosessualità e ora la sua malattia che tornato in famiglia Louis intende rivelare alla fine di un pranzo, sono solo il pretesto per rivivere nostalgie e rimpianti viscerali che ancora lo legano alla sua vecchia casa, al fratello Antoine (un grandioso Vincent Cassel) complessato e nevrotico, e alla fragile sorella Suzanne (Léa Seydoux) che il protagonista quasi non ha visto crescere. Forte e cerebrale il rapporto con la madre, interpretata da una pirotecnica Nathalie Baye: il film si dipana in una serie di dialoghi e di primi piani serrati che non danno tregua allo spettatore che percepisce la tensione latente come una lama affilata di coltello. I personaggi fra i quali la confusa cognata di Louis Catherine (una Marion Cotillard in stato di grazia) vivono ciascuno in un isolamento fatto di fragilità, rimpianti e incomunicabilità, ciascuno segregato in un muro di gomma che impedisce alle emozioni di esternarsi nella maniera più giusta per costruire un circolo di affetti sano e armonioso nel senso più pieno. Fra ipocrisia borghese e riscatto psicologico il film è un’eccellente prova attoriale e di regia in cui Dolan sembra aver superato sé stesso con una maggiore eleganza espressiva, una maturità artistica e un’asciuttezza che non precludono ma anzi valorizzano la drammaticità e il disagio esistenziale quasi bergmaniano del protagonista. Da vedere.

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Cinecult: Paterson di Jim Jarmusch

Per Paterson, ‘il cellulare è un guinzaglio’, il tempo è ‘la quarta dimensione’ e ‘E’ sempre un altro giorno. Il sole sorge ogni mattina e tramonta tutte le sere’. Queste poche citazioni tratte dal film ‘Paterson’ scritto e diretto magistralmente da Jim Jarmusch e distribuito da Cinema di Valerio De Paolis racchiudono già da sole l’essenza di una pellicola d’autore acclamata come ‘film della critica’ dal Sindacato Nazionale dei Critici Cinematografici Italiani con questa motivazione: “commedia anti modernista e caustica che conferma e rinnova una volta di più la poetica del regista, in grado di fondere con estrema naturalezza lirismo e abituale quotidianità”. Paterson (Adam Driver), che si chiama come la città dove vive e lavora nel New Jersey, Stati Uniti, è un uomo fortunato: conduce una vita tranquilla appagato nel lavoro e negli affetti. Il suo lavoro di conducente di autobus, apparentemente abitudinario, gli consente di guardare il mondo e la società da vari punti di vista e con la percezione di un vero poeta dato che nelle pause fra una corsa e l’altra il protagonista scrive versi molto intensi. Inoltre convive, innamorato e riamato, con l’eclettica creativa Laura (Golshifteh Farahani) che si veste in bianco e nero, sogna di diventare una cantante country imparando a suonare una chitarra anch’essa bianca e nera ed è abilissima nel preparare deliziosi cupcake, sempre in tema con la sua ossessione per il black and white. La poesia di Paterson è nelle piccole cose, apparentemente ordinarie, è nel mondo della cultura black e del club dove si reca ogni sera a bere birra e a osservare la ‘commedia umana’ che gli scorre davanti agli occhi, è nella visione della vita che, secondo il protagonista, è strutturata come una scatola da scarpe, ama le poesie di Emily Dickinson, i versi di William Carlos Williams e le opere di Dante e Petrarca: Jarmusch è un grande fan della letteratura e della storia del nostro paese, passione forse trasmessagli da Benigni all’epoca di ‘Daunbailò’. Spassoso e davvero esilarante Marvin, il bulldog-personaggio di Laura e Paterson che dispettosamente fa in mille pezzi il taccuino dove il protagonista geniale ha messo nero su bianco le sue poesie. Il film fa riflettere sulle vite favolose e creative, cariche di talento e di passione vissute da persone che svolgono lavori ordinari e trasmette sensazioni positive nella reiterazione dei gesti quotidiani che lo sottraggono alla banalità e lo elevano all’eccezionalità dei sentimenti più autentici e di un’introspezione mai stucchevole. Da non perdere.

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A Natale al cinema, una valanga di film sotto l’albero

Babbo bastardo 2

Natale sta arrivando e con esso non solo una valanga di dolci e di doni. Sotto l’albero ad animare le giornate di festa troveremo anche tanti film, lungometraggi festosi e divertenti carichi di positività e ottimismo da vedere e rivedere. Cominciamo dai classici che sono un’occasione da non perdere, protagonisti di una stagione dorata del cinema hollywoodiano. In testa alle preferenze di grandi e piccini troviamo ‘Mary Poppins’, l’allegra istitutrice dalla borsa magica e ‘Tutti insieme appassionatamente’ sul miracolo della famiglia e dell’amore, entrambi interpretati dall’icona childish Julie Andrews. A seguire in programma per i più romantici i cult ‘Bianco Natale’ del 1954 e ‘La vita è meravigliosa’ del 1946 fino a ‘Scrooge’ tratto da ‘Canto di Natale’ di Charles Dickens, storia di un avaraccio molto facoltoso e cinico che considera il Natale una fatuità. Gli faranno cambiare idea degli spiriti in visita. E veniamo ora al menu dei film proposti dalle sale cinematografiche per il Natale 2016. Ci sono i film italiani e quelli di animazione ma anche le saghe fantasy e fantascientifiche il tutto all’insegna della comicità, degli effetti speciali e della fantasia. Dall’Italia con furore arriva una sfilza di commedie brillanti. Da ‘Un Natale al Sud’ di Federico Marsicano con Massimo Boldi e Paolo Conticini ambientato in parte nel Salento passando per ‘Natale a Londra-Dio salvi la regina’ di Volfango De Biasi con Lillo e Greg e Paolo Ruffini nel ruolo di chef impegnati nella missione di rapire i cani di Sua Maestà, fino a ‘Poveri ma ricchi’ diretto da Fausto Brizzi con Christian De Sica, Lucia Ocone e Anna Mazzamauro su una famiglia folkloristica del Lazio che vince una grande somma alla Lotteria e decide di andare a fare la vita da ricchi a Milano e ‘Non c’è più religione’ di Luca Miniero (già regista di ‘Benvenuti al Sud’) in cui Claudio Bisio, Alessandro Gassman e Angela Finocchiaro cercano di rinnovare e salvare la tradizione del presepe in una piccola isola del Sud. Non ultimo ‘Fuga da Reuma Park’ la commedia futuribile diretta da Aldo, Giovanni e Giacomo. Per chi lo avesse perso alla Festa del Cinema di Roma dove si è aggiudicato il Premio speciale conferito dal pubblico c’è l’intenso ‘Captain Fantastic’ diretto da Matt Ross e distribuito in Italia dalla Good Films con un impareggiabile Viggo Mortensen, padre progressista e un po’ hippy e la sua ‘squadra’ di rampolli addestrati per sopravvivere nella foresta incontaminata e orfani di una mamma emotivamente problematica. Sempre dalla festa del cinema di Roma arriva nelle sale ‘Florence’ diretto da Stephen Frears e distribuito da Lucky Red, storia vera tratta dalla vita di una diva brillante che decide di dedicarsi al bel canto pur essendo completamente stonata. Cast da grandi occasioni: una grande Meryl Streep e un magnetico Hugh Grant proiettati negli anni’40. Per i patiti della fantascienza c’è ‘Rogue One-a Star Wars Story’ della Walt Disney Studios Motion Pictures, lo spin-off della saga di ‘Guerre Stellari’ nel quale un gruppo di ribelli è impegnato a rubare i piani della ‘Morte Nera’, arma di distruzione di massa in costruzione. Dedicati ai fan dell’animazione ‘Una vita da zucchina’, ‘Oceania’ spettacolare della Disney, ‘Rock dog’ sulle avventure di un giovane mastino tibetano, gli episodi nuovi di ‘Peppa Pig’ e il poetico ‘Le stagioni di Louise’ di Jean François Laguionie basato sulla memoria e i ricordi di un’anziana signora persa in un paesaggio surreale, film che si avvale nel doppiaggio in italiano della voce di Piera degli Esposti. Cinico e spassoso ‘Babbo bastardo 2’ distribuito da Koch Media in cui il premio Oscar Billy Bob Thornton torna al cinema nei panni del rapinatore Willie Soke che, ritrovandosi col suo assistente di un tempo Marcus (Tony Cox) decide che forse è giunto il momento di tornare sulla retta via ma fino a che punto riuscirà a mantenere i buoni propositi? Divertente anche ‘La festa prima delle feste’ distribuito dalla Universal Pictures International Italy diretto da Will Speck e Josh Gordon con Jason Bateman, Olivia Munn e Jennifer Aniston in cui per scongiurare la chiusura di una società e il conseguente licenziamento dei dipendenti il fratello scapestrato dell’amministratore delegato decide di radunare i colleghi e organizzare un’epica festa di Natale nel tentativo di fare colpo su un potenziale cliente, e concludere così una vendita che potrebbe salvare i loro posti di lavoro. E ciliegina sulla torta, il film imperdibile con Kevin Spacey e Christopher Walken diretto da Barry Sonnenfeld distribuito da Lucky Red in cui un miliardario cinico e molto dedito alla carriera cerca di recuperare il rapporto con la famiglia trasformandosi accidentalmente in un gatto. Buona visione e buon Natale cinefilo a tutti!

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Cinecult: Sully di Clint Eastwood

In America, qualche anno dopo la tragedia dell’11 settembre i media e l’opinione pubblica definirono ‘miracolo’ l’ammaraggio nelle acque del fiume Hudson di un aeroplano pilotato dal capitano Chesley ‘Sully’ Sullenberger che il 15 gennaio del 2009 salvò da morte certa 155 persone compreso l’equipaggio di un aereo infortunato a causa dell’impatto di uno storno di uccelli nei motori. Da questa storia il 4 volte premio Oscar Clint Eastwood ha tratto ‘Sully’ un film distribuito dalla Warner Bros. Pictures drammatico, intenso e ricco di risvolti sociologici e privati molto interessanti anche per capire i meccanismi del consenso e la formazione della pubblica opinione in America. A interpretare il ruolo dell’eroe ‘Sully’ artefice del miracolo è Tom Hanks vincitore di 2 premi Oscar affiancato nel cast da Laura Linney che interpreta la moglie Lorraine e da Aaron Eckhart nel ruolo del co-pilota di Sully Jeff Skiles. Tom Hanks con la sua capacità di penetrazione psicologica del personaggio riesce magistralmente grazie anche alla formidabile regia di Clint Eastwood, che affronta la vicenda con realismo e obbiettività, a cogliere le sfumature e le evoluzioni di un uomo che dopo l’accaduto fu sopraffatto da mille dubbi e incertezze. Dopo l’evento infatti Sully venne messo sotto inchiesta da una commissione ministeriale dell’aviazione civile per capire se il suo operato corrispondeva agli standard ufficiali di un pilota esperto e responsabile. La commissione gli dette ragione alla fine. Il film evidenzia la discrasia palese fra il giudizio della gente e della stampa che non tarda a definire Sully un eroe(anche se Sully si definisce solo “un uomo che ha fatto il suo lavoro al meglio”) e il processo del sistema rigido e diffidente, troppo ancorato a regole procedurali divenute ancora più pressanti per la salvaguardia della sicurezza nazionale dopo il disastro delle Torri Gemelle. Aldilà delle simulazioni digitali con cui vengono ricostruite le dinamiche della situazione Tom Hanks fa dire a Sully davanti alla commissione:“Vi siete dimenticati il fattore umano”, un fattore che è l’unica incognita in grado di rimescolare le carte quando bisogna gestire al meglio una situazione critica. Clint Eastwood ha analizzato in modo decisamente interessante e con grande asciuttezza espressiva il contesto emotivo che circonda Sully dopo l’evento dell’ammaraggio e l’atteggiamento di chi mette in discussione le decisioni di un uomo intuitivo e intraprendente che dopo tutto ha salvato delle vite. Una bella prova d’autore.

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Cinecult: Free State of Jones di Gary Ross

Dopo Dallas Buyer’s Club, il premio Oscar Matthew McConaughey continua a rappresentare un filone cinematografico impegnato per una Hollywood alternativa e di frontiera. In un momento in cui l’America sembra a rischio discriminazione con l’esito delle ultime elezioni presidenziali il divo-antidivo della mecca del cinema ha scelto di interpretare il coraggioso Newton Knight nell’epopea utopistica ‘Free state of Jones’, pellicola diretta da Gary Ross autore e cineasta già noto a tutti per film come ‘The Hunger Games’ e ‘Pleasantville’. Il film, distribuito da 01 Distribution per Rai Cinema racconta la storia vera della ‘compagnia’ di contadini e schiavi neri liberati ovvero ‘il libero stato di Jones’ che fu costituita durante la Guerra di Secessione dal fabbro Newton Knight per bandire i privilegi dei ricchi e lo sfruttamento dello schiavismo che già dopo la fine del conflitto che portò Lincoln alla presidenza degli United States, dette vita al Klu Klux Clan. “Noi non apparteniamo a nessun paese ma siamo noi il nostro paese” proclama nel film Matthew/Newt (Newton Knight) che non crede nella guerra e nella schiavitù e nel 1864 era seguito da 250 persone fra cui donne e bambini anch’essi armati per sostenere le loro ragioni di egualitarismo contro le angherie delle truppe sudiste che reclamavano a titolo di imposte quantità immense di grano, vettovaglie e altri beni preziosi per la sussistenza dei contadini della Contea di Jones e delle aree limitrofe al Sud Est del Mississippi. La comunità rimase in piedi anche dopo la Guerra fra Nord e Sud degli Stati Uniti per portare avanti fra le altre cause, la campagna per il diritto di voto delle persone di colore. Newton Knight fu una figura rivoluzionaria anche nella sfera privata tanto che avendo sposato una schiava liberata Rachel (la bellissima e talentuosa Gugu Mbatha-Raw) venne demonizzato dagli altri concittadini degli Stati del Sud. Fino a produrre conseguenze giuridiche anche negli Stati del Sud nel pieno degli anni’50 del Novecento quando a un discendente dell’eroico Newt viene impedito di contrarre matrimonio con la sua amata perché nato da persone non totalmente ‘bianche’ nel loro albero genealogico. Notevole la tensione drammatica e il realismo delle scene che documentano gli scontri bellici durante la guerra in cui Newt perse un nipote-la mortalità infantile e dei giovani era molto frequente e diffusa a quei tempi-e degna di menzione anche la scena nella quale il protagonista entra in una chiesa per ‘giustiziare’ il comandante in capo della guarnigione che tormentava i suoi proseliti. Il film, carico di tensione civile e ideologica e molto riuscito nella ricostruzione degli ambienti e dell’atmosfera dell’epoca, impartisce una lezione di storia e dignità umana ancora attuale contro ogni forma di privazione e ingiustizia civile e sociale. “Siamo tutti schiavi di qualcun altro-dice Newt- ma un figlio di Dio non può essere schiavo e ha diritto di raccogliere e godere di ciò che semina nella sua terra”. Fa riflettere a tale proposito la dichiarazione di John Stauffer, professore di storia della civiltà americana all’università di Harvard che dice : “Questa non è una storia sulla schiavitù ma di ribellione e per molti aspetti questi due termini sono all’opposto”. Come dargli torto?

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Cinema e moda complici nel nuovo revival

Café Society courtesy of Warner Bros. Pictures

Realtà e finzione, passato e presente, mito e quotidiano non sono termini di una dicotomia ma di un’endiadi. Lo conferma il fatto che il cinema che fa volare la nostra fantasia e la moda che appartiene al nostro vissuto reale, intrecciano i loro ruoli sempre più spesso, soprattutto per definire personaggi maschili che abbiano una solida credibilità, preferibilmente ambientati nel passato. Non a caso il vintage futuribile è la grande tendenza del gusto e del costume attuale e infonde nuova linfa non solo nella vita, ma anche in alcuni film sul grande schermo. Sull’onda di questo tormentone che volge lo sguardo al futuro con un occhio legato al passato e a un mondo a volte fantastico ricreato sulla base di spunti fumettistici collegati alla realtà attuale, le liaison fra moda maschile e cinema sono state e sono tuttora molteplici. Armani ha creato il guardaroba di Richard Gere per il film ‘American Gigolò’ manifesto della nuova virilità anni ‘80 e ha trionfato a Hollywood con i costumi del film ‘Gli intoccabili’, che si rifà all’epoca di Al Capone. Neanche una decade prima Ralph Lauren, negli anni ’70, rilanciò lo stile rétro dei ruggenti ’20, disegnando gli abiti di Robert Redford per ‘Il grande Gatsby’, che recentemente sono stati ideati da Brooks Brothers per il remake del film con Di Caprio. Poi c’è anche chi dall’ufficio stile di grandi maison è passato a dirigere film, transitando dietro la macchina da presa: è il caso del visionario texano Tom Ford, vincitore con il film da lui scritto e diretto ‘Animali Notturni’, del Gran Premio della Giuria al Festival di Venezia 2016, un riconoscimento importante per un cineasta alla sua seconda prova, dopo l’esordio con il multi premiato ‘A single man’ del 2009. Anche in questa seconda avventura, che forse condurrà i suoi attori protagonisti Amy Adams e Jake Gyllenhaal a vincere gli Oscar come migliori attori protagonisti, Ford ha voluto avvalersi della costumista Arianne Phillips, che ha collaborato spesso con Madonna e ha firmato già il guardaroba dei protagonisti di Kingsman con Colin Firth, tutto incentrato sulla sartorialità inglese di Savile Row. Il sequel sarà svelato nelle sale nel 2017 e prevede ancora i costumi della Phillips sul set. In ‘Animali notturni’, ambientato nel Texas e a Los Angeles, un film in cui la stessa idea di mascolinità si trova messa in discussione attraverso la visuale del protagonista, come osserva la Phillips, “Tom capisce che c’è un rapporto tra quello che indossiamo e la nostra identità”. E così gli abiti di scena diventano una seconda pelle alimentando una sorta di spirito di emulazione nello spettatore, incantato dalla visione estetizzante del regista, molto apprezzata in ‘The single man’ dove l’elegantissimo Colin Firth appariva un dandy anni ’60. Due film molto romantici e ambientati negli anni ’30, ‘Genius‘ di Michael Grandage e ‘Café Society‘ di Woody Allen, rinnovano l’alchimia fra cinema e moda maschile esaltando il ruolo del passato come guida e chiave di lettura del presente. Nel primo film i cappelli Borsalino anni ’30 e i cappotti doppiopetto con i revers a lancia di Colin Firth fanno da contrappunto agli abiti elegantemente sciatti e quasi logori di Jude Law nel ruolo di Thomas Wolfe, mentre in Café Society si descrive la mondana frivolezza della società dell’epoca jazz. Il film, che si svolge fra New York e Los Angeles, presenta il protagonista Jesse Eisenberg infilato in giacche da smoking immacolate, pantaloni a vita alta e con al collo cravatte ampie nel segno di un’esibita ed edonistica ricercatezza tipica di un’epoca dominata dallo charme del playboy da silver screen. E per chiudere il cerchio, non è raro vedere casi di attori che anche al di fuori dal set scelgono i canoni di un’eleganza un po’ vintage, ma in fondo senza tempo. Benedict Cumberbatch che sul set di ‘Doctor Strange‘ sfoggia un ampio mantello rosso molto costruito e icastico per far sognare le platee, sul tappeto (sempre rosso) sa interpretare abilmente la modernità di un completo blu scuro di Giorgio Armani Made to Measure che agli anni ’30 si ispira da sempre.

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Cinecult: Roberto Bolle l’arte della danza di Francesca Pedroni

Ha danzato davanti alla Regina Elisabetta II d’Inghilterra e a Papa Giovanni Paolo II. Appassionato, carismatico e apollineo, Roberto Bolle è considerato l’artista che ha regalato all’arte della danza l’entusiasmo riservato finora alle star del pop. In questo docu-film di Francesca Pedroni ‘Roberto Bolle l’arte della danza’ presentato in anteprima al 34esimo Torino Film Festival, distribuito da Nexo Digital e nelle sale italiane fino al 23 novembre, l’étoile del balletto si racconta fra realtà e intimismo rivelando aspetti inediti di quella che è a oggi una grande star della danza internazionale, ambasciatore dello stile italiano nell’arte della performance del balletto in tutto il mondo. Il film è impostato come un tour che documenta le tappe dell’itinerario artistico di Bolle sullo sfondo di tre location d’eccezione: l’Arena di Verona, il Teatro Grande di Pompei, le Terme di Caracalla a Roma. Un tour rappresentato attraverso immagini esclusive tratte dal palcoscenico come dal backstage degli spettacoli. Il film è anche un ritratto dell’uomo e dell’artista Bolle attraverso il suo galà ‘Roberto Bolle & Friends’ che associa l’étoile a dieci eccezionali danzatori di tutto il mondo scelti dallo stesso Bolle per avvicinare la danza a un pubblico di migliaia di spettatori: Nicoletta Manni, del Teatro alla Scala, Melissa Hamilton, Eric Underwood, Matthew Golding del Royal Ballet di Londra, i gemelli Jiři e Otto Bubeníček, rispettivamente del Semperoper Ballet di Dresda e dell’Hamburg Ballett, Anna Tsygankova del Dutch National Ballet di Amsterdam, Maria Kochetkova e Joan Boada del San Francisco Ballet, Alexandre Riabko dell’Hamburg Ballett. Ad arricchire il film interviste, riprese delle varie fasi di lavoro, spettacoli, riflessioni personali dell’artista, nel tentativo di approfondire il tema del rapporto totalizzante tra un uomo e la sua arte. Perché Bolle, stakanovista della disciplina, si affida alla danza accettando fino in fondo ciò che impone al corpo e allo stile di vita. Il film ci introduce quindi in un percorso che alla scoperta di emozioni vere alterna la preparazione atletica alle prove dello spettacolo, l’organizzazione del tour alla scelta degli artisti e dei brani degli spettacoli. Per usare le parole dello stesso Bolle : “La danza è il fuoco che ho dentro. Mi ha formato, mi ha dato un’identità.
L’uomo che sono ora lo devo alla danza”. Elegante e smart Bolle è stato anche scelto da varie maison di moda per interpretarne lo spirito. Un modello da seguire e da emulare per chi voglia essere gentleman in town.

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Cinecult: Animali notturni di Tom Ford

ph. merrick morton-universal pictures international 

Vivamente consigliato ai lettori e agli utenti del nostro portale dedicato allo stile di un uomo in tutti gli aspetti della vita, questo film, ‘Animali notturni’ può essere tranquillamente definito un autentico capolavoro e sicuramente la pellicola che segna la maturazione nell’olimpo di Hollywood e nella tecnica cinematografica di Tom Ford, noto al mondo come uno stilista sensibile e visionario e un cineasta di successo alla sua seconda, pregevole prova dopo il pluripremiato ‘A single man’. Il film, distribuito da Universal Pictures, insignito del Gran Premio della Giuria all’ultimo Festival di Venezia descrive nella forma di un thriller romantico l’evoluzione del legame d’amore di una coppia divorziata che si trova a scoprire verità inattese dopo tanti anni di distanza. La gallerista d’arte Susan Morrow (Amy Adams) riceve dall’ex marito Edward Sheffield (Jake Gyllenhall), romanziere sensibile e tormentato, una prima copia del manoscritto che racconta la tragica e violenta storia di un padre di famiglia Tony Hastings (sempre interpretato da Gyllenhaal) che sulla strada per una vacanza perde la moglie e la figlia in seguito all’incontro-scontro con una gang di delinquenti on the road che sequestrano, stuprano e uccidono le due donne. Tony inseguirà gli assassini con l’aiuto del laconico tenente Bobby Andes (il candidato all’Oscar Michael Shannon) che cercherà la via più illegale e eterodossa per ottenere vendetta. Il romanzo si chiama ‘Animali Notturni’ ed è ispirato in modo latente alla figura di Susan che, quando erano insieme Edward era solito chiamare appunto ‘animale notturno’ perché irrequieta e incline all’insonnia. Il film sovrappone con sottile maestria due livelli narrativi apparentemente inconciliabili, il romanzo e la realtà e cioè rispettivamente il pathos e la suspence da un lato e la complessa trama delle relazioni umane e sentimentali. Le due dimensioni drammaturgiche sono legate dal tema della vendetta dello scrittore verso la sua ex moglie che lo ha abbandonato per condurre una vita tranquilla, solida ma borghese e noiosa accanto al marito Hutton che le è infedele, un uomo d’affari playboy interpretato dall’avvenente Armie Hammer. Il film ricco di suggestioni visive e costruito in modo impeccabile sia nella sceneggiatura sia nei bei dialoghi rivela tutto il talento espressivo di Ford che convoglia nel cinema la sua sensibilità estetica, evidente nella fotografia ricercata e nei costumi, e lo sviluppo di una concezione della mascolinità fragile, precaria e vulnerabile che insegue sia Edward che Tony e che ha molto toccato nel profondo Gyllenhall, candidato all’Oscar per questo film insieme a Amy Adams, dalle indimenticabili chiome fulve. Del film ricorderemo in particolare una battuta: “chi scrive ha il compito di tenere vive le cose perché grazie alla scrittura possano sopravvivere e durare per sempre”, efficace, realistica e romantica come questo magnifico film da vedere e rivedere.

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Cinecult: Knight of Cups di Terrence Malick

Film difficile ma ispirato, pervaso di mestizia e di grande cultura visiva che il regista filosofo Terrence Malick, lo stesso di ‘The Three of life’ e ‘La sottile linea rossa’ sembra assorbire come una spugna e distillare con maestria: tutto questo in ‘Knight of cups’. Distribuito da Adler Entertainment, il film è la narrazione di un viaggio, un’odissea spirituale ed esistenziale di un uomo alla ricerca di un senso, ma per lo spettatore profano resta soprattutto una grandiosa e magniloquente epopea espressiva e poetica fra l’arte, la moda, la fotografia, i nuovi linguaggi figurativi più altisonanti e icastici e l’amore per il cinema puro costruito con perizia tecnica e senso artistico pregnante e sopra le righe. Christian Bale è Rick, autore di commedie che vive a Santa Monica, un uomo irrequieto che desidera qualcosa che vada oltre la vita che conosce ma non sa cosa sia né come trovarlo. Ha rapporti problematici con il padre Joseph (un portentoso Brian Dennehy) e con il fratello Barry (Wes Bentley), legami familiari che si complicano anche a causa della perdita dell’altro fratello Billy. Interessante il ruolo che il regista affida alle figure femminili tutte interpretate da attrici di glamour e notorietà globali in ruolo tuttaltro che accessori: la sfuggente Nancy (Cate Blanchett), la conturbante Helen (Freida Pinto), la sensibile Elizabeth (Natalie Portman), la spogliarellista Karen (Teresa Palmer) che nel film interpreta la metafora della papessa, ma intrigante e un po’ perversa. Nulla sembra soddisfare Rick, né le droghe, né le feste in atmosfere neo-barocche e neppure la carriera. Ma ogni personaggio che incontra lungo il suo cammino, fino al sacerdote cattolico che parla di sommo bene e infelicità come segno della benevolenza divina, sembra servirgli da messaggero o guida. L’azione che si dipana fra le città più estreme d’America, Los Angeles e Las Vegas, fino al deserto è un delirio di immagini, accompagnate da frasi sibilline, una vertigine estetica costruita intorno a una teoria del caos, con impennate apocalittiche ( i disastri ecologici come il terremoto) e la mente concepita come teatro carico di simboli e riferimenti allegorici.
Film visionario e complesso, di notevole spessore.

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Cinecult: Ouija Le origini del male di Mike Flanagan

Promette di aggiudicarsi una buona posizione anche nei box office italiani ‘Ouija le origini del male’ diretto da Mike Flanagan e distribuito da Universal Pictures. La storia, che precede quella raccontata nel film Ouija del 2014 è ambientata nella Los Angeles del 1967 e descrive gli esperimenti di Alice Zander (Elizabeth Reaser, la ricordiamo tutti per Twilight) che, figlia di una chiromante e vedova del giovane marito, per sbarcare il lunario e mantenere le figlie si reinventa nel ruolo di medium procacciando sedute spiritiche totalmente taroccate a concittadini creduloni e bisognosi di un rapporto con le anime dei loro cari defunti. Ma lei è intimamente convinta di fare del bene a queste persone. Complici negli inganni di Alice sono le due figlie, la primogenita Paulina detta Lina (Annalise Basso) e la piccola Doris (Lulu Wilson). Ma la situazione prende una brutta piega e dall’inganno si passa all’evocazione del maligno quando Alice decide di comprare una tavoletta Ouija, la cosiddetta ‘tavola parlante’ che consente, grazie a una lente incastonata in una sorta di triangolo di legno, di instaurare un dialogo con uno spirito specialmente quando la si usa da soli. Così nel tranello del diabolico strumento di matrice ancestrale (è nato nell’Ottocento) cade per prima la piccola Doris che viene posseduta da un demone che a sua volta è l’anima di una delle vittime di un medico tedesco di fede nazista. Doris inizia a manifestare atteggiamenti sospetti tanto da suscitare la preoccupazione del Preside della Scuola delle due figlie di Alice, Padre Tom (Henry Thomas già visto in ‘Gangs of New York’) reso volutamente affascinante che, avendo preso i voti dopo la morte della moglie, inizia a indagare sul caso scoprendo che gli spiriti ai quali Doris ha aperto le porte della casa non hanno alcuna intenzione di lasciarla. Questo film, che racconta le difficoltà economiche realistiche di una famiglia americana in crisi guidata da una vedova con qualche nozione di occultismo, combina elementi sovrannaturali e momenti più terreni e drammatici che possono attrarre un pubblico diverso da quello che di solito frequenta il genere Horror. Il film presenta momenti terrificanti dove la tensione e la paura non sono affatto prevedibili senza indulgere in eccessi e in impennate tipiche dei film di genere. “La paura in questo film è più spontanea proprio come la musica jazz”, sottolinea il regista. Pregevole la ricostruzione dello spirito misticheggiante e dei costumi dell’epoca. Se avete apprezzato il primo film questa pellicola non vi deluderà. E occhio a non perdere i titoli di coda.

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Cinecult: Il sogno di Francesco di Renaud Fely e Arnaud Louvet

Francesco è stato portato sullo schermo da più registi e a più riprese: da Liliana Cavani a Roberto Rossellini fino a Franco Zeffirelli e Michele Soavi solo per citarne alcuni. Questa volta con ‘Il sogno di Francesco’ distribuito da Parthénos ci provano due registi francesi, Renaud Fely e Arnaud Louvet che reinventano in chiave rivoluzionaria ma elegiaca la magnifica figura di questo santo anarchico che parlava con gli animali e si spogliò di tutti i suoi averi in nome della pace e della fratellanza per riformare un mondo dilaniato dai conflitti e dalla sete di potere. Ciò per il suo coraggio in un certo senso lo rende davvero attuale e necessario oltre che vicino al mondo in cui siamo immersi. Novità e sorprese nel dipanarsi dell’opera: oltre ad Alba Rohrwacher scelta per il ruolo di Santa Chiara (le calza a pennello) che nel film sostiene che “L’amore di Francesco protegge i suoi fratelli” ampio spazio nel film è riservato alla figura di Elia da Cortona che in realtà non condivideva il totale pauperismo e il radicale sogno di libertà e fratellanza che per Francesco doveva legare i suoi confratelli. Così il film prende le mosse dal 1209 quando Papa Innocenzo III rifiutò la prima versione della Regola francescana. Molta importanza più che alla figura di Francesco stesso, circondato da una sacra e mistica aureola, pur essendo vicino a noi ma intransigente (indimenticabili le sequenze del giullare di Dio nella neve e quella fra le prime del film in cui S. Francesco/ Elio Germano accarezza gli uccellini), è l’entourage del santo, la sua comunità e i sentimenti che vi aleggiavano. Quando Elia da Cortona tenta il suicidio si coglie tutta la tensione interiore di un uomo diviso fra spirituale eticità e interessi mondani, fra pathos e serenità, in un perpetuo intimo dissidio. Elio Germano convince con il ritmo stesso della sua recitazione scandito da una singolare tecnica che alterna sapientemente le parole e le pause e rivela anche la bravura dei due registi oltre all’ormai incontrovertibile eccellenza dell’attore, anche se appare anticonvenzionale e comunque interessante la scelta di descrivere bene i vari confratelli dell’ordine: da Elia (Jérémie Renier) a Domenico (Yannick Renier) fino al giovane Stefano interpretato da Thomas Doret.

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Cinecult: Io, Daniel Blake di Ken Loach

Ken Loach regista di film di denuncia a sfondo politico-sociale ma anche densi di romanticismo come ‘Riff Raff’, ‘Piovono Pietre’, ‘Ladybird Ladybird’, ‘Il vento che accarezza l’erba’ film quest’ultimo per il quale si è aggiudicato il suo primo Palmarès, è uno che parla diretto alla testa e al cuore del suo spettatore. E lo dimostra egregiamente con il suo ultimo meritatissimo Palmarès, ‘Io, Daniel Blake’, distribuito da ‘Cinema’ di Valerio De Paolis. E’ la storia tragica e malinconica di un maturo falegname in crisi per aver perso il lavoro e immerso repentinamente in una burocrazia farraginosa e perversa che è palesemente contraria allo Stato Sociale e ai diritti dei lavoratori. In uno degli uffici per l’impiego dove è solito protestare e ricevere quotidianamente ‘ceffoni’ da burocrati insensibili ai suoi problemi che non fanno che complicare la sua già durissima vita, Daniel s’imbatte in Katie, una giovane disoccupata come lui ma con due figli a carico che a un certo punto medita di prostituirsi pur di sbarcare il lunario lontano da Londra. Paragonato da acuti critici alla filmografia di Vittorio De Sica, questo è un film molto vero come dimostra la battuta preferita del regista (e di Daniel) : “Io non sono un cane, sono un uomo” quasi a voler enfatizzare la sua condizione frutto di una burocrazia di destra ipertrofica e arrogante. “Stiamo perdendo il valore del termine cittadino-ha detto Ken Loach quando ha presentato il film a Roma-i governi sono schierati col capitale e i posti di lavoro o non ci sono, o sono insicuri o non garantiscono la dignità e un adeguato tenore di vita ai lavoratori; sono stato paragonato a De Sica: ebbene nei suoi film mancava la solidarietà civica e operaia mentre oggi in Inghilterra i lavoratori si sostengono molto l’un l’altro” dice il cineasta britannico. E aggiunge: “La complessità del governo che sa ciò che fa nasce per intrappolarci. Ogni settimana, come si vede nel film, vengono applicate delle sanzioni ai disoccupati: ebbene tutti coloro che hanno accettato di recitare dietro la scrivania come impiegati del governo nelle scene del mio film ambientate nei Job center sono ex dipendenti che mal tolleravano la crudeltà del sistema sanzionatorio. Pensi che durante il film mi raccontavano storie di vessazioni e ingiustizie vissute analoghe a quelle replicate durante il film”. Un grandissimo film da vedere e tenere gelosamente in videoteca.

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Chiude con stile fra la Streep e Benigni la Festa del Cinema di Roma

Ciak si vota. Così la giuria popolare si è espressa pronunciandosi a favore di ‘Captain Fantastic’ film singolare e scanzonato presentato fuori dalla selezione ufficiale durante ‘Alice nella città’. La pellicola, distribuita da Good Films, diretta da Matt Ross propone un Viggo Mortensen in gran forma sia nel film che nell’incontro con il pubblico nella capitale. L’attore si cala nei panni di un educatore sensibile e anticonformista, capo illuminato di una famiglia che conquista e commuove il pubblico di questa undicesima edizione della Festa del cinema di Roma. E accanto all’assegnazione popolare a ‘Captain Fantastic’ del premio BNL People’s Choice Award c’è stata la vittoria del film più bello e profondo della sezione Young Adult di ‘Alice nella città’ che quest’anno è andato a ‘Kicks’ diretto da Justin Tipping, selezionato da un’autorevole giuria presieduta da Matt Dillon. Ma veniamo ai protagonisti di questa undicesima edizione: la parte del Leone ovviamente è spettata al 3 volte Premio Oscar Meryl Streep che si è pronunciata a favore di Hillary Clinton e ha definito Alba Rohrwacher, insieme a Silvana Mangano e a Anna Magnani, l’attrice più interessante che abbia mai visto. “Recitare è la mia passione: significa calarsi nei panni di qualcun altro come quando da bambina fingevo di essere mia nonna, è questo quello che ho sempre sognato di fare anche se ho preso lezioni di canto dai 12 ai 14 anni”, ha detto la diva hollywoodiana, generosa ed entusiasta di fronte a un pubblico che ha mandato in visibilio. A Roma ha presentato il film da lei interpretato ‘Florence Foster Jenkins’ diretto da Stephen Frears in cui, a differenza che nella vita, si esibisce in performance canore in cui è assolutamente stonata. Il film tratto dal romanzo ‘Florence’ di Nicholas Martin e Jasper Rees racconta infatti la storia di una ricca ereditiera che durante la seconda guerra mondiale approdò al Carnegie Hall di New York cantando senza armonia sommersa dalle risate del pubblico. “La gente potrà dire che non sapevo cantare ma non che non ho cantato”, soleva dire Florence. Il film distribuito da Lucky Red porta sullo schermo anche un eccezionale Hugh Grant nel ruolo del giovane marito e supporter della stravagante signora amica di Arturo Toscanini. Un film commovente e toccante come l’altra pellicola che la Lucky Red di Andrea Occhipinti ha portato alla Festa del Cinema di Roma : ‘Il Segreto-The Secret Scripture’ con una magnifica Vanessa Redgrave affiancata da Eric Bana, uno psichiatra alla ricerca della verità. E’ la storia vera di una donna accusata ingiustamente di infanticidio e perciò rinchiusa in manicomio per quasi tutta la vita. Il film con un finale a sorpresa è interpretato da una magnetica Rooney Mara, attrice molto richiesta a Hollywood che insieme a ‘Una’ di Benedict Andrews e ‘Lion’ di Garth Davis ha triplicato con ottimi risultati la sua presenza la Festival. Nel cast di ‘Lion’, storia vera di Saroo, un ragazzo indiano alla ricerca dei suoi veri genitori che ha smarrito a cinque anni rischiando di essere rapito e venduto nell’India degli anni’80 e interpretato da Dev Patel, attore già ammirato in pellicole di successo come ‘The Millionaire’ di Danny Boyle distribuito da Lucky Red, figura anche Nicole Kidman che è la madre adottiva di Saroo. L’attrice appare luminosa, vibrante e pensosa come in un altro film presentato a Roma, ‘Genius’ di Michael Grandage, distribuito da Eagles Pictures che prima dell’apertura della Festa ha presentato in anteprima a Roma ‘American Pastoral’ di e con Ewan McGregor, un personaggio dolente che a causa della condotta criminale della figlia interpretata da Dakota Fanning vede svanire lentamente nel nulla il suo ‘Sogno americano’ di uomo bello, ricco e di successo. In ‘Genius’ troviamo un Colin Firth in stato di grazia e un altrettanto emozionante Jude Law, attore davvero versatile nel ruolo di Thomas Wolfe che, insieme a Scott Fitzgerald e Hemingway Maxwell Perkins (Colin Firth) contribuì a lanciare con la casa editrice Scribner durante la crisi del 1929. Altra storia vera, stavolta sul tema straziante dell’Olocausto, è ‘Denial, la verità negata’ di Mick Jackson distribuito da Cinema di Valerio De Paolis e basato sul libro “Denial: Holocaust History on Trial” di Deborah E. Lipstadt, presente in sala alla proiezione del film a Roma. La pellicola ripercorre il duello legale a Londra fra la Lipstadt (che nel film è una interessante e intensa Premio Oscar Rachel Weisz) e il massimo assertore accademico e teorico dell’antisemitismo e del negazionismo dell’Olocausto, David Irving (Timothy Spall). Nel film esplode il conflitto fra la giustizia e la legalità, fra la morale umana e l’etica delle leggi, fra dialettica forense e rivendicazioni personali. Il cinema italiano, in netta minoranza a questa edizione, è stato degnamente rappresentato alla Festa del Cinema da ‘7’ di Michele Placido oltre che da ‘Sole, Cuore e Amore’. Molto buona la qualità degli eventi e soprattutto degli incontri da quello di Bertolucci a quello di David Mamet che ha espresso una grande verità : “Essere politically incorrect e dire la verità è la missione di noi drammaturghi e cineasti perché solo mettendosi in gioco guardando un’opera teatrale o un film gli spettatori per assumervi una parte, essi saranno finalmente liberati”.

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Spettacoli: Quando eravamo repressi di Pino Quartullo

In fondo bisognerebbe riflettere sul fatto che “Fare scambio di coppie a volte è il tentativo estremo di salvare un amore”. Lo si può desumere dalla commedia ‘Quando eravamo repressi’ di Pino Quartullo che dopo 25 anni torna finalmente a teatro a Roma. Quando appena si cominciava a parlare, agli inizi degli anni’90 di calo della libido e crisi dei rapporti di coppia il giovane architetto-drammaturgo, regista attore e doppiatore romano Pino Quartullo ebbe l’idea di riunire una coppia di amici, Alessandro Gassman e Francesca d’Aloya, per approfondire il tema sviluppandone i risvolti più intimi, provocatori e impensabili, letti dal suo punto di vista. Ne nacque un testo teatrale prodotto da Vittorio Gassman dal titolo emblematico,‘Quando eravamo repressi’, ricco di verve e colpi di scena in cui con la complicità e partecipazione di una bellissima Lucrezia Lante della Rovere si intrecciavano nelle camere comunicanti di un hotel confessioni e vere e proprie emozioni erotiche ad alto tasso di seduzione che oggi con un cast di attori tutto nuovo Quartullo ripropone in una nuova veste 3.0 al Teatro Ghione fino al 30 ottobre. “Quando Eravamo Repressi è di base un dramma-osserva Quartullo-esiste tuttora nell’epoca digitale un mondo sotterraneo, un’infinità di coppie composte da giovani belli e realizzati ma afflitti da noia da sesso”. Proprio come la coppia borghese del primo dramma-film che alla fine entrò in crisi e si ruppe definitivamente durante le repliche dello spettacolo, negli anni Novanta. “Nella mia commedia-prosegue Quartullo- si parla molto del sesso in maniera patologica e questo fa letteralmente esplodere di risate il pubblico: il corpo umano è presentata come una macchina misteriosa e bizzarra del piacere. Soprattutto ci tengo, che sotto sotto, dietro la carne e gli umori, esplodano i sentimenti, gli affetti, quelle cose non oggettivamente tangibili ma meravigliose e immense che appartengono all’anima degli esseri umani che non sono cambiati”. E’ per questo che i dialoghi pur affidati a personaggi e attori molto giovani e cioè Francesca Bellucci, Matteo Cirillo, Tiziano Floreani e Annabella Calabrese, che nel 1990 quando uscì la commedia erano in fasce, appaiono ancora attualissimi, perché alla fine non è cambiata la natura umana. “Carne e sentimenti sono sempre gli stessi” come dice Quartullo. Menzione speciale ai costumi e alle musiche dello spettacolo, aspetti curati da ex alunni dello IED (Istituto Europeo di Design) formatisi nella sede di Roma della scuola internazionale di creatività: Giuseppe d’Andrea utilizzando capi di altri allievi dell’Istituto Europeo di Design ha assemblato il guardaroba di scena mentre per il commento sonoro e le musiche dello spettacolo Quartullo si è avvalso del talento di altri due ex allievi dello IED di Roma, Federico de Feo e Simone De Feo. Brillante e sensuale, un’opera scanzonata da rivedere e da scoprire.

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Qualità, Varietà, grandi star: così la Festa del cinema accende Roma

Antonio Monda, zelante direttore artistico della Festa del Cinema di Roma, può dirsi soddisfatto: in una capitale ancora riscaldata dal tepore autunnale del vento di scirocco l’affluenza alla Festa del Cinema non è mai stata così buona. Merito anche della oculata selezione di proposte e dei numerosi appuntamenti di richiamo che il ricco menu della nuova edizione del Festival propone a un pubblico capitolino ma anche cosmopolita. Se i pilastri della Festa del Cinema sono ‘Qualità, varietà e internazionalità’ allora questa edizione della kermesse è partita con il piede giusto. Il ruolo di aprire il calendario ufficiale della Festa è spettato a una figura di primo piano della Settima Arte, Tom Hanks, vincitore di due premi Oscar, uno per Forrest Gump e l’altro per Philadelphia e interprete principale della saga di Dan Brown che quest’anno culmina con ‘Inferno’ della Warner Bros. Pictures, appena approdate nelle sale cinematografiche. Claudia Cardinale a sorpresa, elegantissima in un pigiama palazzo di velluto nero ha consegnato il premio alla carriera al grande attore, primo grande ospite d’onore della manifestazione, che si è concesso generosamente al pubblico con istrionismo e sagacia, raccontando la sua visione del cinema in cui l’arte, per usare le sue parole, “può catturare la vita ma anche affermarla”. “Mi sento un privilegiato perché faccio un lavoro che mi diverte molto. Sono stato anche regista di vari film e ho lavorato anche molto in teatro. Penso che ogni regista dovrebbe essere anche attore e il contrario così ognuno capirebbe meglio i rispettivi ruoli e si lavorerebbe al top”, ha detto Hanks a una platea incantata e divertita dai suoi successi da ‘Big’ fino a ‘Salvate il Soldato Ryan’ in cui commenta la situazione politica complessa e disperata di un’America sospesa per cinque anni di conflitto mondiale. Molto orientato sulla politica e sul ruolo dell’America nello scacchiere mondiale ma anche sulla vocazione americana all’aggressività e sulla rabbia del ceto medio che potrebbe decretare la vittoria di Trump è sicuramente la dimensione creativa e ideologica di Oliver Stone che a Roma ha presentato il suo film di denuncia ‘Snowden’. Vi si ripercorre la vicenda biografica drammatica del consulente esterno per il controspionaggio della CIA e della DIA Edward Snowden (interpretato nel film da Joseph Gordon-Levitt) che attualmente è costretto a vivere in Russia per aver tentato di smascherare un po’ come Wikileaks le tare del sistema americano di controllo segreto dei dati personali dei suoi cittadini. ‘La supremazia americana sta nel controllo economico e sociale: questo è il cuore del sistema di sorveglianza di massa”, dice Snowden nel film, “ Segretezza significa sicurezza e questa è vittoria perché gli americani più che liberi vogliono sentirsi al sicuro” dice come un dogma durante il film uno degli alti funzionari della CIA che ha sempre incoraggiato Snowden affidandogli alte cariche. C’è odore di Oscar anche negli altri film fra i primi a essere presentati in calendario: ‘Moonlight’ che ha aperto le danze raccontando l’evoluzione psicologica di un ragazzo di colore gay in un ghetto di Miami dominato dalla droga, cresciuto da un pusher affettuoso e da una madre tossicodipendente e psicolabile. Senza contare ‘The Birth of a Nation’ sempre a tema afro, ovvero la riscossa di un manipolo di schiavi ribelli contro il sistema di sfruttamento capitanati da Nathaniel Turner (Nate Parker), che dopo aver scoperto la reale situazione in cui vivono gli altri schiavi, molti anni prima dell’esplosione della Guerra di Secessione, decide di guidarli contro il potere schiavista massacrando una serie di bianchi. Arriva sul tappeto rosso anche Isabella Ragonese per presentare il primo film italiano della rassegna, ‘Sole cuore, amore’ di Daniele Vicari, film distribuito da Koch Media e Rai Cinema, dove con grande sensibilità si cala nei panni di una donna malata e sfruttata sul luogo di lavoro. Famiglia, società e politica attraversano anche il bel calendario di ‘Alice nella Città’ che quest’anno propone ‘Captain Fantastic’ con Viggo Mortensen, attesissimo e ‘3 generations-Una famiglia quasi perfetta’ con Naomi Watts e Susan Sarandon. E mentre Bernardo Bertolucci dà lezioni di cinema spiegando attraverso ‘Ultimo tango a Parigi’ e altri suoi capolavori come ‘L’ultimo Imperatore’ il segreto del bel cinema di spessore e d’autore che non muore mai, nell’aria c’è grande attesa per l’incontro con Meryl Streep, momento culminante di questa edizione del festival.

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Cinecult: Inferno di Ron Howard

Courtesy of Warner Bros. Pictures

Lasciate ogni speranza voi che entrate: si potrebbe iniziare così il racconto dell’ultimo capitolo della trilogia legata al ‘Codice da Vinci’ e ‘Angeli e Demoni’ e tratta dai romanzi di Dan Brown. Come nei precedenti film il protagonista è Tom Hanks alias Robert Langdom, studioso e colto enigmista che nel nuovo film ‘Inferno’ magistralmente diretto da Ron Howard e distribuito da Warner Bros. Pictures deve fare i conti non con la teologia ma con la realtà contemporanea. Qui lo scienziato dal pensiero veloce deve vedersela con la minaccia di esplosione di un virus letale progettato a tavolino da un folle miliardario, il bioingegnere Bertrand Zobrist (Ben Foster). Il personaggio vuole così risolvere il problema della sovrappopolazione mondiale che secondo lui è alla base di ogni male dimezzandola. Langdom si sveglia in una clinica di Firenze dove è ambientata una parte del film ed è inizialmente vittima di una temporanea amnesia trovandosi inseguito da uomini misteriosi che vogliono eliminarlo. Intanto inizia a collaborare con la dottoressa Sienna Brooks (Felicity Jones) che lo aiuta a recuperare la memoria. Il film prende le mosse dalla decifrazione di una rappresentazione di Botticelli de l’Inferno di Dante che per Langdom è sia uno stato mentale che fisico dato che è tormentato da un mal di testa di cui non comprende l’origine. Il plot sviluppato egregiamente e diretto da Ron Howard è un susseguirsi appassionante di inseguimenti attraverso i cunicoli di Palazzo Vecchio a Firenze, la Basilica di S. Marco a Venezia e Santa Sofia a Istanbul dove si conclude la saga emozionante del filosofo dalle mille risorse che deve salvare il mondo dalla pandemia. Il film che sembra girato come se i protagonisti percorressero davvero dei gironi infernali, è diviso in due parti ben precise: un primo tempo più raccapricciante e tendente quasi al macabro con scene truculente ma sicuramente ben realizzate che hanno determinato gli strali della censura, e una seconda parte più dinamica da cardiopalma in cui in una vertigine di sequenze da action movie e spy story da brivido il protagonista capisce chi sono i suoi veri alleati e per contro gli artefici della predisposizione del virus Inferno. E quindi ritrova al suo fianco nell’Organizzazione Mondiale della Sanità perfino un alto dirigente che è stata una sua vecchia fiamma, la Dottoressa Elizabeth Sinsky interpretata da Sidse Babett Knudsen. Decisamente pirotecnica l’interpretazione di Omar Sy nel ruolo di Christoph Brouchard che ha permesso al brillante attore francese di calarsi nei panni di un ‘tipo tosto’ come lui stesso lo ha definito. Una nuova tappa nel racconto dell’eterna lotta fra Bene e Male dove stavolta le carte sono ancora più confuse e il pubblico è sottoposto ad angoscianti dilemmi oltre che a una bufera di emozioni. Godetevelo tutto d’un fiato.

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Con una nuova mostra Giorgio Armani rende omaggio ai grandi atleti

“Lo sport è da sempre una delle mie passioni. Credo che rappresenti quelle qualità che ci permettono di migliorarci: dedizione, spirito di sacrificio, perseveranza e forza di volontà. Lo sport fa bene al corpo ma anche allo spirito e dimostra che il successo non si raggiunge senza impegno”.
Così Giorgio Armani ha commentato le ragioni e lo spirito che animano l’esposizione “Emotions of the Athletic body”. Aperta al pubblico fino al 27 novembre nel nuovo Armani/Silos un grande spazio una volta adibito al deposito e serbatoio di cereali e foraggi, ristrutturato da Armani e inaugurato come archivio e spazio culturale nell’aprile del 2015 per i 40 anni di Giorgio Armani, la mostra presenta gli sportivi di tutte le discipline atletiche, uomini e donne, non sono solo come modelli di comportamento, ma anche come affascinanti soggetti fotografici perché all’apice della condizione fisica e della vibrante energia dello slancio fisico. E così gli sportivi diventano quasi degli eroi immortalati da maghi dell’obbiettivo come Aldo Fallai, Howard Schatz, Mert Alas e Marcus Piggott, Serge Guerand, Cliff Watts, Eric Nehr, Vangelis Kyris, Tom Munro, Richard Phibbs, Antoine Passerat, ma anche rappresentati con video istallazioni con filmati inediti, oltre a una selezione mai vista di Kurt e Weston Marcus. Oltre agli italiani Luca Dotto, Davide Zongoli, Angelo Bonsignore e Francesco Totti in mostra sono di scena i ritratti dei nerboruti e armoniosi corpi di David Beckham, Jason Morgan, Terrell Owens, Sean Townsend e molti altri ancora, senza dimenticare le campionesse del gentil sesso. La suggestiva raccolta di scatti, dal 1985 fino a oggi, occupa l’intero piano terra dell’Armani/Silos. Il design dello spazio è stato completamente ridefinito dallo stilista per dare il massimo risalto al tema: le immagini in bianco e nero sono stampate su enormi lastre rifinite a cemento, come le pareti dell’edificio, mentre i pavimenti sono rivestiti nello stesso materiale di colore rosso di cui sono ricoperte le piste di atletica. Nell’atrio, il visitatore viene accolto da un’enorme statua che riproduce a grandezza naturale un atleta in equilibrio su un globo di pietra. Ai primati e alle eccellenze raggiunte da questi campioni in campo atletico viene dedicata la quarta rassegna dell’Armani/Silos Film series che da ottobre presenta al pubblico una selezione di film legati al tema dello sport. “Attraverso la moda ho cercato di interpretare il senso dell’agonismo vestendo gli sportivi per le mie campagne pubblicitarie, scegliendoli tra gli atleti di fama mondiale, ma anche tra coloro che ancora aspirano alla gloria.” conclude Giorgio Armani.

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Cinecult: Blair Witch di Adam Wingard

La stregoneria nell’era 3.0, dei droni e delle videocamere, è concepibile e può ancora essere temuta come una realtà soprasensibile e paranormale oppure è solo un mucchio di false credenze buona per superstiziosi e maniaci? Scopritelo nel sequel di “The Blair Witch Project. Il mistero della strega di Blair”, l’horror che ha segnato la storia del genere negli anni’90. Il film ‘Blair Wich’ diretto da Adam Wingard e distribuito da Eagle Pictures prende le mosse proprio lì dove abbiamo lasciato gli sventurati ragazzi vittime della demoniaca creatura (allora ripresi su un supporto VHS). Una chicca: uno dei produttori, Steven Schneider, si è occupato di ‘Paranormal activity’. James (James Allen McCune) fratello della protagonista del film precedente, si mette sulle tracce della strega per gettare luce sul mistero della foresta incantata di Black Hills nel Maryland arruolando gli amici Peter (Brandon Scott), Ashley (Corbin Reid), e la cinefila Lisa (Callie Hernandez). I ragazzi armati di strumenti di ripresa digitali e di strutture da camping penetrano nel bosco, uno dei simboli più cari alla civiltà americana che il film tende a dissacrare rendendolo sempre più torbido. A un certo punto si imbattono in una coppia di ragazzi dall’aria un po’ bizzarra: Lane (Wes Robinson) e Talia (Valorie Curry) che si propongono come guide. Ma ben presto iniziano a comparire totem inquietanti e feticci che rendono tutto gotico e torbido e una delle ragazze della spedizione alla ricerca della strega si ferisce a una gamba. La struttura del film che come è ovvio aspettarsi ha tutti i pregi e i difetti di un sequel, mostra un genere diverso di terrore: mentre la paura nel prequel scaturiva proprio dal non percepito, stavolta sono le creature, le scene di suspence e gli effetti speciali creati grazie a nuove telecamere e meccanismi 3.0 a rendere tutto più spaventoso. Come si legge nelle note del film tutto ciò “eccita i fan più accaniti rivelando qualcosa in più di ciò che si nasconde nel buio”. Il regista parla di ‘implacabile intensità’ e di ‘scenario spaventoso’ dal quale si è sempre in fuga. Al pubblico l’ardua sentenza sul film, comunque da vedere per i patiti del terrore.

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Cinecult: Trafficanti di Todd Phillips

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Prendi due ragazzi di Miami, appena ventenni e dediti alle droghe leggere. Il primo è un giovane di belle speranze che massaggia l’alta società e ha un discreto successo con le donne ma in odore di matrimonio e poi accoppialo a un giovane uomo d’affari senza scrupoli, suo compagno di liceo pronto a giocare sporco pur di accaparrarsi la sua fetta di sogno americano. Da questa strana coppia nasce la vera storia di due trafficanti d’armi protagonisti dell’ultima fatica cinematografica di Todd Phillips, ‘Trafficanti’ distribuito da Warner Bros. Pictures e interpretato dal candidato al Premio Oscar Jonah Hill nel ruolo di Efraim il più spregiudicato dei 2 e poi da Miles Teller che ha il ruolo di David, che invece sembra avere una maggiore percezione della legalità e di una coscienza morale. Il primo durante la prima guerra in Iraq mette su un business di traffico d’armi sfruttando i tabulati del Pentagono che pubblicavano anche le commesse di fornitura di armamenti che gli altri rifiutavano. “Bisogna fare i soldi fra le righe” dice Efraim. E all’inizio le cose funzionano fino a quando i due accettano un appalto per la fornitura di pistole Beretta che però per via di un embargo non possono arrivare in Iraq e sono ferme in Giordania: per sbloccare la situazione i due si recano sul posto e ottengono il risultato desiderato. Ma la situazione precipita quando incontrano Bradley Cooper che nel film interpreta un tipo losco, coinvolto in attività terroristiche contro gli Stati Uniti che crea un contatto fra i due ragazzi e gli arsenali albanesi pieni di armi dei depositi dell’ex Unione Sovietica. A quel punto qualcosa va storto e il sodalizio di affari e amicizia fra David e Efraim va in frantumi. Il film, ben girato e diviso in vari capitoli, scorre bene e come tutti i film incentrati su una visione troppo estrema del Sogno Americano stigmatizza forse in chiave un po’ troppo moralistica l’avidità dei due protagonisti che peraltro sono ben assortiti come coppia sul grande schermo. E’ interessante notare come il mito di Efraim/Hill sia Tony Montana di Scarface: ciò ha convinto il costumista Michael Kaplan a creare un guardaroba griffato ed esibizionista tipico di chi vuole arrivare a ogni costo ed è pronto all’ascesa sociale: in certi momenti Hill assume atteggiamenti da gangster per calarsi meglio nel personaggio. Una storia avvincente che merita 8 a tutti i livelli.

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Cinecult: Café Society di Woody Allen

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Non è la prima volta che Woody Allen porta sullo schermo film nostalgici dal sapore rétro e ambientati nel passato: si pensi a ‘Radio Days’ e a ‘La rosa purpurea del Cairo’. Ma qui il regista sembra aver superato sé stesso. In ‘Café society’ scritto e diretto dal grande cineasta americano, distribuito dalla Warner Bros. Pictures, Woody Allen ha portato un romanzo sul grande schermo, la storia di Bobby (il geniale Jesse Eisenberg) che dal Bronx vola nella Los Angeles degli anni’30 per trovare un lavoro grazie a suo zio Phil (un sempre sorprendente Steve Carell) che lo introduce nello star system ma troverà invece l’amore, intrecciando una relazione tormentata con Vonnie (Kristen Stewart) segretaria dello zio che ridurrà il suo cuore in frantumi rifiutando la sua proposta di matrimonio. Il ragazzo di belle speranze trasloca allora a New York da cui è venuto e aiuta il fratello malavitoso Ben (Corey Stoll) a dare vita a uno dei locali più alla moda della metropoli dove incontra la splendida Veronica (Blake Lively) con cui convola a nozze ma non smetterà mai di pensare a Vonnie perché come gli fa dire il regista nel film:“Le emozioni non muoiono mai”. Il film, la cui superba sceneggiatura ricorda molto vagamente e in modo molto più intimistico ‘Il grande Gatsby’, è straordinario e andrebbe visto più volte: anzitutto per la fotografia di Vittorio Storaro che per la prima volta ha collaborato con Woody Allen producendo acuti di stile e avvalendosi di effetti digitali. “New York dipinge la sua luce sui suoi palazzi” dice Bobby a Vonnie durante un incontro galante o altrove si parla di una città avvolta nella morbida luce del crepuscolo. Poi ci sono i formidabili costumi di Suzy Benzine che, dal glamour modernista ed effimero di Los Angeles dove le star del cinema si vestono solo per andare alle prime, vira bene alla Café society di New York composta dai circoli dei nababbi e dei signori di rango della Grande Mela che rievocano l’epoca Jazz con abiti di taglio sartoriale molto sofisticati ed eleganti soprattutto per le signore perché ispirati al gusto parigino dei grandi atelier. Elegantissimi à la Vionnet i lunghi abiti a sirena di una innocente e vulnerabile Blake Lively ammaliata dal fascino di Bobby “Voi ebrei siete esotici e misteriosi e talvolta avete una gran faccia tosta” dice al protagonista mentre costui è intento a sedurla. Alcuni personaggi come i genitori e il cognato di Bobby incarnano la sapienza filosofica di Woody Allen che cita Socrate quando dice che ‘La vita merita di essere analizzata ma analizzarla poi alla fine non è poi un grande affare”. Difficile dargli torto. Ottima prova.

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Cinecult : Bridget Jones’s Baby di Sharon Maguire

credit cover GILES KEYTE

Bridget ha 44 anni, ha rotto con il fiero avvocato Mark Darcy e ha perso svariati chili di troppo e il vizio del fumo ma non il cattivo gusto nel vestire e la vocazione a combinare guai senza risparmiare né il lavoro né la vita amorosa. E per un’inguaribile romantica come Bridget Jones, interpretata ormai per la terza volta con successo e simpatia da Renée Zellweger, (premio Oscar peraltro per ‘Chicago’), qui ancora cronista maldestra attualmente al servizio della nuova informazione ‘all by myselfie’ dell’era 3.0 sicuramente due è meglio di uno, specialmente quando si tratta di scegliere il papà giusto per il suo bambino. E’ tutto nel nuovo film ‘Bridget Jones’s Baby’ diretto da Sharon Maguire e distribuito da Universal Pictures. Tutti i suoi amici, perfino Tom (James Callis), il gay della pazza comitiva di ‘fratelloni di sventura’, hanno messo la testa a posto mettendo su famiglia. Per cui è arrivato anche il momento della svolta di Bridget che, pur dedita a fantastiche avventure nel talamo con tipi molto appetibili almeno sulla carta come il bel Jack Qwant (Patrick Dempsey), un principe azzurro alla rovescia che estrae dal fango la mitica scarpetta della favola, non riesce a dimenticare il suo amore di sempre, l’ingessato e tenero Mark Darcy (Colin Firth premio Oscar fra gli altri per ‘Il discorso del re’), parruccone molto sexy (non sulla carta però). Magari si sente un po’ la mancanza di Hugh Grant alias Daniel Cleaver ad animare e dare pepe alla storia ma non tutto è perduto (dobbiamo aspettare un sequel?) perché l’esilarante anti-eroina creata da Helen Fielding, suo malgrado esplora il mondo del web e quello della relazionalità ‘poliamorosa’ vissuta da molte donne quarantenni di oggi ampliando i suoi orizzonti. Dopo due incandescenti incontri galanti, Bridget resta incinta così per caso senza pensarci imbattendosi in una ginecologa un po’ sui generis (una convincente Emma Thompson premio Oscar per la serie ‘Tata Matilda’), paleo-femminista ed ex ragazza madre che dona un tocco di sapido sarcasmo in più a tutta la vicenda. Ma sul futuro di Bridget, illuminato da un matrimonio regale da romanzo d’appendice in versione parodistica (indovinate con chi?) pesa ancora una diabolica incognita che potrebbe cambiare di nuovo il suo destino. Il film gode di ottime musiche, belle ambientazioni, situazioni esilaranti come il maxi concerto allestito nel week-end festival, dialoghi esuberanti e un’interessante visione del problema dell’informazione e del ‘ ritorno dell’integrità e della democrazia nel mondo mediatico’ per usare le retoriche ma pregnanti parole di Bridget. L’abbiamo amata nei primi 2 capitoli e continueremo ad amarla anche qui con quei ‘ritocchini’ per i quali la diva vincitrice di un Golden Globe per ‘Betty Love’ ha rivendicato il suo sacrosanto diritto. Il tutto senza magari nutrire troppe aspettative su una commedia che, pur in qualche lacuna di sense of humour e la mancanza delle scoppiettanti gag dei primi 2 episodi, riesce a far trascorrere piacevoli momenti davanti al grande schermo risvegliando positività e romanticismo ormai dati per dispersi nel filone della commedia brillante, agrodolce e vagamente demenziale oggi in auge nelle sale.

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Cinecult: Il disagio femminile trionfa sul red carpet del cinema di Venezia N° 73

Si è aperto con le scene danzanti di un musical rutilante, ‘La La Land’ con Ryan Gosling ed Emma Stone e si è chiuso con la cavalcata trionfante dell’epico kolossal western fuori concorso ‘I magnifici sette’ remake dell’originale con Denzel Washington e attualmente distribuito da Warner Bros questo 73° Festival del Cinema di Venezia. Il Leone d’Oro non è andato a un film tricolore né tantomeno all’osannato Sorrentino che ha presentato in pompa magna il suo ‘The Young pope’, miniserie televisiva scritta e diretta dall’amato regista ed esponente in parte del filone ieratico del festival, né ad altri autori italiani che secondo alcuni critici poco benevoli hanno bruciato un’occasione in più.
La femminilità prostrata della protagonista dell’interminabile film del filippino Lav Diaz ‘The woman who left’ ha trionfato con il suo bianco e nero sul corpo parlante e ubertoso di una matura e bellissima Monica Bellucci, immortalata senza veli da Paris Match che ha recitato nell’ultimo film di Emir Kusturica nella pellicola ‘On the milky road’. Chi si aspettava scandali, oscenità, drammi ad animare la kermesse della Serenissima è rimasto cocentemente deluso: la Biennale celebrata in laguna sotto lo sguardo di una giuria di prestigio capitanata da Sam Mendes, cineasta raffinato, e composta fra gli altri da Giancarlo De Cataldo, Chiara Mastroianni, Lorenzo Vigas e Laurie Anderson ha premiato alcuni buoni titoli che presto vedremo sui nostri grandi schermi. A cominciare da ‘Animali Notturni’ gran premio della giuria di questa edizione del festival, un film scritto e diretto da Tom Ford, stilista e regista di talento che torna dietro la macchina da presa dopo ‘A single man’ con una storia convincente che concilia il thriller e la suspence con la sua mania estetizzante che lo ha reso giustamente famoso. Nel film giganteggia ancora una figura femminile bella e ricca interpretata da Amy Adams che deve fare i conti con un amore del passato torrido, affascinante e squattrinato come Jake Gyllenhaal fra eros e vendetta.
Le altre dame del Festival hanno suscitato l’ammirazione del pubblico e dei fan ma senza troppo glitter e glamour, usando semplicemente l’arma della seduzione verbale: si va da Emma Stone, la musa di Woody Allen che ha sfilato nel suo scintillante modello di Atelier Versace (marchio apprezzato anche da Rania di Giordania), conquistandosi l’ambita Coppa Volpi per ‘La La Land’ fino a Natalie Portman, anch’essa favorita per la prestigiosa Coppa per il film ‘Jackie’. Il biopic di Pablo Larrain sull’icona americana andata sposa in seconde nozze a Onassis e interpretato con grazia e intensità dalla Portman ha comunque portato a casa un premio alla sceneggiatura per Noah Oppenheim.
Ha fatto un po’ discutere critici e pubblico del festival il Leone d’Argento ex aequo andato a due film radicalmente diversi: il poetico Paradise del formidabile russo Andrei Konchalovsky che ha affrontato il tema dell’Olocausto, e ‘La Region Salvaje’ del messicano Amat Escalante un po’ surreale e poco comprensibile in verità. Fra gli altri riconoscimenti spicca il premio di migliore attore a Oscar Martinez, interprete di ‘El ciudadano illustre’ diretto da Cohn e Duprat, un bel film di sceneggiatura come l’ha definito Emiliano Morreale su ‘La Repubblica’ e quello a Paula Beer per il film ‘Frantz’ di François Ozon che affronta il nazismo da un punto di vista teutonico. Truculento ma lussuoso e sicuramente da vedere il film ‘The bad batch’ un ‘western psichedelico’ firmato dalla regista Ana Lily Amirpour che intreccia tensione drammaturgica e cannibalismo premiato con il premio speciale della giuria. Ha sedotto un’ampia fetta di critici Stehane Brizé con il suo ‘Une vie’ che si rifà all’Ottocento nostalgico e languido di Maupassant. Interessante il gradevole ‘Tommaso’ con Kim Rossi Stuart che con grazia e senza banalità porta sul grande schermo la crisi d’identità del maschio moderno. Ha diviso la platea e il pubblico in sala il film ‘Piuma’ della pisana Roan Johnson distribuito da Lucky Red uno dei film italiani più sorprendenti ma trascurati dalla giuria non giustamente: esorcizza la paura diffusa di fare un figlio con spirito, ottimismo e ironia. Fra gli altri ci sono anche ‘Spira Mirabilis’ e ‘Questi giorni’ di Giuseppe Piccioni con un cammeo di Margherita Buy. Premio di consolazione al documentario sugli esorcismi ‘Liberami’ di Federica Di Giacomo vincitore della sezione Orizzonti.. E sono proprio i documentari quelli che ricorderemo forse di più di quest’ultima edizione n°73 del Festival: da quello, distribuito da BIM sulla vita di Rocco Tano, alias Rocco Siffredi realizzato da Thierry Demaizière e Alban Teurlai e presentato alle Giornate degli Autori fino a due docufilm sulla moda. Il primo diretto da Dario Carrarini, ‘L’eleganza del cibo’ che è l’evoluzione cinematografica di una mostra approdata perfino a New York con i suoi addentellati fra food e fashion mentre il secondo, dedicato alla direttrice di Vogue Italia Franca Sozzani, ‘Franca, Chaos and creation’ girato dal figlio fotografo Francesco Carrozzini penetra nell’intimo di una delle donne più potenti e temute del fashion system scavandone l’anima.

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Cinecult: Il Clan di Pablo Trapero

Cover Courtesy of Fox Universal Productions 

Una storia da brivido, quella del clan dei Puccio ambientata nel paesino di San Isidro sconvolse l’Argentina all’inizio degli anni ’80 ispirando oggi il regista Pablo Trapero per la realizzazione de ‘Il clan’, film presentato con successo a Venezia lo scorso settembre dalla Fox International Productions e attualmente distribuito da 01 Distribution Rai Cinema. All’apparenza una famiglia normale, quella dei Puccio era in realtà una cosca intrisa di cospirazioni che si era arricchita dopo la caduta della dittatura in Argentina con i proventi del riscatto dei sequestri di persona di rampolli ed esponenti dell’alta società argentina. Il capo clan o boss Arquimedes (Guillermo Francella) che era inizialmente protetto dai servizi segreti e dalla polizia corrotta del regime di cui aveva fatto parte collaborando nel servizio di spionaggio militare fu definitivamente scoperto e arrestato con l’avvento della democrazia. All’epoca in cui lo scandalo scoppiò lasciando una traccia indelebile nella cronaca nera del paese il regista era appena quattordicenne ma la sua memoria rimase molto colpita dalla ferocia programmatica con cui venivano realizzati i crimini, coperti dalla moglie del patriarca con la connivenza e la partecipazione attiva del figlio campione di rugby Alejandro, il primogenito (Peter Lanzani) che era in stretti rapporti con molte delle vittime prescelte per i rapimenti. Nel film, realizzato fra fiction e documentario con grande lucidità e un pathos stemperato nella ricostruzione storica molto ben riuscita, spicca lo sguardo glaciale del protagonista Guillermo Francella che ostenta una impassibilità impressionante, con una ferrea volontà tipica degli assassini a sangue freddo. I personaggi sono spesso tagliati dalla macchina da presa con primi piani taglienti e asciutti come lame affilate di coltello. Interessante la dialettica psicologica fra la figura del padre Arquìmedes mandante ed esecutore dei rapimenti e la visione un po’ distorta del figlio Alejandro che dopo aver idealizzato il padre come un eroe in realtà deve fare i conti con la sua posizione di ‘scudo’ dei misfatti paterni. Per citare le note sul film : “La storia della famiglia Puccio rappresenta un doloroso avvertimento per l’Argentina appena uscita dalla dittatura, delle cose atroci che le persone ‘normali’ sono capaci di fare”. Un ottimo motivo per andare al cinema a vedere questo film-verità.

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Cinecult: Suicide Squad di David Ayer

Cover Courtesy of Warner Bros Pictures 

Come si suol dire, quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare! E nel caso di ‘Suicide Squad’, la nuova pellicola di David Ayer distribuita dalla Warner Bros Pictures sono proprio i cosiddetti ‘cattivi’ stavolta a scendere in pista per sgominare il male proveniente dai poteri esoterici scatenati da una strega. La rappresentante del governo Amanda Waller (Viola Davis) arruola una ‘squadra suicida’, una task force di pessimi soggetti votati al bene comune stavolta che, armata fino ai denti, deve fare i conti con dei mostri efferati e minacciosi che nemmeno i meta umani super eroi della Marvel, da Batman a Superman riescono a sconfiggere. Nel film incontriamo il sicario dalle straordinarie abilità Deadshot, interpretato da Will Smith, con la sua lucente corazza rossa e nera e un imprevedibile lato paterno molto tenero, la seducente Margot Robbie, già vista nei panni di Jane nell’ultima versione di ‘Tarzan’ ora calata nei panni di Harleen Quinzel, una pericolosissima pupattola dai capelli decolorati e dalle mini inguinali da Cheerleader un po’ punk che stravede per Joker, proposto ora in un’altra incredibile metamorfosi cinematografica del premio Oscar Jared Leto. Suicide Squad è il suo nuovo film dai tempi di ‘Dallas Buyers Club’ perché l’attore è molto selettivo nei ruoli e anche un po’ provocatore e il ruolo del malvagio dissociato e un po’ sadico deve averlo catturato. Fra i debutti spicca quello della spadaccina asiatica Karen Fukuhara e fra le sorprese svetta Cara Delevingne, ninfa egeria di Karl Lagerfeld prestata al grande schermo: nel film è la reincarnazione di una strega potente e dai costumi magniloquenti opera di Kate Howley che per la top model si è forse ispirata agli abiti déco e ai costumi di ‘Intolerance’ di David Griffith. Gran ricchezza nella profusione di effetti speciali da kolossal che sicuramente non deluderanno il pubblico amante del genere. Interessante il discrimine che il regista, liberamente ispiratosi ai personaggi della DC Comics, ha voluto tracciare fra l’essere cattivo e la malvagità vera che non offre alcun riscatto e mina irreversibilmente le basi della società. Da segnalare che il successo del film sugli schermi italiani è stato stellare: l’incasso del primo giorno di programmazione ammonta a 1.200.000 euro. Niente male!

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Cinecult: La famiglia Fang di Jason Bateman

Vi siete mai chiesti come potrebbe essere la vostra vita se invece di avere genitori comuni tutti casa e famiglia aveste dei singolari artisti dell’affabulazione e della finzione? Beh grazie al film ‘La famiglia Fang’ tratto dal romanzo omonimo di Kevin Wilson potreste sciogliere il dubbio. La pellicola diretta da Jason Bateman interpretata da quest’ultimo e da una magistrale Nicole Kidman nei panni rispettivamente dei due fratelli Fang, Baxter e Annie, parla di una vera e propria crisi d’identità dei due protagonisti cresciuti fra le mille invenzioni e le finzioni messe in scena dai due genitori che nel film sono impersonati da Christopher Walken e da Maryann Plunkett. Annie è un’attrice e Baxter uno scrittore e ripercorrendo qua e là la loro infanzia fatta di performance e falsi incidenti o di colpi di scena fatti per promuovere la reputazione di artisti dei genitori, si trovano a dover ritornare sulle tracce del padre e della madre riapparsi dopo molti anni ormai anziani che ormai vivono vite parallele facendo credere loro di essere ancora conviventi. In un climax di gag e riflessioni esistenziali il film parte e ritorna all’assunto che ogni cambio d’identità possa essere l’atto estremo necessario per rinascere e che l’arte vera serve solo a sovvertire le nostre certezze per indurre la gente, imbambolata dai luoghi comuni, a una vera e propria palingenesi. In questo la pellicola, ricca di spunti e di dialoghi costruiti con ironia e perizia si rivela illuminante e fa meditare sui nostri atavici pregiudizi sull’oggettività dell’arte e sulla visione della realtà, fra filosofia e romanticismo. Da vedere per chi non ha avuto genitori ortodossi e per i fan del buon cinema.

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Il libro dell’estate: Il gentiluomo senza cappello di Mario Dell’Oglio

Copertina del ibro il Gentiluomo senza cappello

“Se si vuole essere anarchici bisogna conoscere le regole” parola di Mario Dell’Oglio, presidente della Camera dei Buyer italiana, autore del bel libro ‘Il gentiluomo senza cappello’ pubblicato da Edizioni Leima, nonché titolare di alcuni dei più bei negozi d’abbigliamento di Palermo. Nel suo libro, nato da una conferenza del 2012 si rivela testimone acuto di una raffinata sicilianità nella ricerca del look perfetto in quanto espressivo di un vero e proprio modo di essere. “Gli uomini indulgono al culto della divisa: per questo in un’ampia parte del mio libro tendo a demolirne il cliché cercando di dimostrare che chi si adagia sugli allori e non cambia mai la sua immagine perché rispondente a certi canoni diventa databile e quindi datato”, prosegue l’autore.
Gli abiti quindi possono avvicinarci ai nostri desideri, sono la nostra proiezione nel futuro e sono una dinamica concreta per scardinare le nostre abitudini. In queste pagine non si troveranno consigli, ma un vero e proprio metodo da acquisire per migliorare con divertimento, il gioco sottile del confronto con noi stessi davanti allo specchio, l’immagine profonda di noi. Ma quanto c’è di spirito siciliano nell’eleganza del gentleman ideale descritto in questo libro anche se il suo autore viaggia moltissimo per lavoro e ha una vocazione cosmopolita? “Sicuramente un vero siciliano provvede ad attuare l’allineamento fra l’abbigliamento e la consapevolezza di sé che è anche sinonimo di una certa fierezza”. L’autore, gentile e garbato ma anche easygoing, si compiace inoltre del favore riscosso dal suo libro presso il pubblico femminile che ha gradito e spesso condiziona le scelte in tema di stile del proprio partner. “Parlo di un gentleman senza cappello perché mi rivolgo ai signori di oggi, sempre connessi che portano il cappello distrattamente e hanno perso quella cultura del cappello che si cambiava anche più volte al giorno in funzione dell’abito che si indossava ed era realizzato per lo più su misura”. Da segnalare la tavola sinottica sulle scelte di stile sviluppata in termini di formalità/informalità che vanno contaminati per poter raccontare un look che abbia profondi addentellati con il proprio gusto e quindi la propria interiorità, perché definisca il nostro più profondo carattere.

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Cinecult: Jason Bourne di Paul Greengrass

Cover_Credit Universal Pictures 

Metti un eroe, un cane sciolto della CIA alla ricerca della verità sul destino della sua famiglia come Jason Bourne (Matt Damon), due donne una (Alicia Vikander) complice del sistema americano e dei suoi giochi di potere e l’altra (Julia Stiles) dedita all’hackeraggio degli archivi segreti dell’Intelligence americana e un direttore dei servizi segreti machiavellico e spregiudicato (Tommy Lee Jones) che usa Vincent Cassel come cecchino.
Nuovi tasselli si aggiungono nel film ‘Jason Bourne’ diretto da Paul Greengrass e distribuito da Universal Pictures, l’ultimo della saga sulla scheggia impazzita della CIA, alla ricostruzione della storia dell’ex agente segreto descritto nei romanzi di Robert Ludlum. Che tornando sui suoi passi e grazie alle informazioni fornitegli dalla sua hacker bionda scopre la grande mistificazione ordita alle sue spalle dalla Central Intelligence: il padre, egli stesso al servizio della CIA, non è stato ucciso dai terroristi islamici ma da un killer della CIA per convincere Jason Bourne ad aderire alla causa della difesa del suo paese. La trama, sviluppata in location affascinanti come la Grecia e Las Vegas, si complica con le nuove macchinazioni e gli intrighi che il direttore della CIA ordisce complice un giovane magnate indiano dei social media che ha promesso sottobanco il suo supporto alla CIA. Da segnalare il dispiegamento di stuntmen senza precedenti coinvolti nelle scene e nelle sequenze action più rocambolesche di inseguimenti di moto e auto, il massimo per i patiti dell’action movie. Molto interessante l’interpretazione della svedese Alicia Vikander, già ammirata nel suo ruolo in ‘The danish girl’ che nel 2016 le ha valso l’Oscar come miglior attrice non protagonista: nel film si rivela ambigua e molto sensibile ai giochi di Real Politik che eredita dalla gestione del suo precedente direttore della CIA, Tommy Lee Jones che non delude e si cala perfettamente nei panni della ‘eminenza grigia’ di questo episodio che sarà comunque gravido di conseguenze, aspettando fervidamente il sequel.

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Cinecult: La notte del giudizio. Election Year di James DeMonaco

Ammettiamo pure che sia un caso e concediamo pure al regista James DeMonaco della saga della ‘Notte del giudizio’ il beneficio del dubbio. Tutto sommato però il legame fra il film horror sci-fi ‘La notte del giudizio. Election Year’ distribuito da Universal Pictures e la realtà delirante di violenza e svolte epocali che l’America sta vivendo sembra inequivocabile. Difficile non riconoscere nella senatrice Charlie Roan (interpretata da Elizabeth Mitchell che nella trama del film ha perso l’intera famiglia durante la truculenta notte dello sfogo) una militante Hillary Clinton e nel grande Pastore, il suo contraltare politico dei Nuovi Padri Fondatori legati alla plutocrazia dell’establishment repubblicano un arrogante Donald Trump, ma tant’è. La finzione qui vuole superare la realtà di un’America travolta dalla paura del terrorismo e con il fiato sospeso per gli esiti della prossima consultazione elettorale decisiva per le sue sorti: e bisogna dire che ce la mette tutta. L’eroe di turno dal secondo film della saga in poi, Leo Barnes (un super macho Frank Grillo) dovrà proteggere la pia e giusta senatrice dagli attacchi ultraviolenti di chi, mascherandosi come in una futuribile notte di Halloween votata all’omicidio e ai sacrifici umani, usa tutte le armi a sua disposizione per mettere in atto i propri piani scellerati. In gioco c’è il destino dell’America e soprattutto degli strati sociali più deboli e meno abbienti perché la coraggiosa senatrice vorrebbe abolire la regola che consente una volta all’anno per 12 ore agli americani di dare libero sfogo ai loro repressi istinti sanguinari, una norma che in realtà di fatto consente ai ricchi di eliminare i poveri, risparmiando sui costi del bilancio del welfare. E’ fantascienza ma fidatevi, tutto può accadere. I personaggi che danno colore e sapore alla scena del film, molto action movie e thriller sapientemente orchestrato fra vari generi, sono alcuni attori black come Mikelty Williamson nei panni del droghiere Joe, il suo assistente Joseph Julian Soria nel ruolo di Marcos e in quello di Laney, la ragazza tosta che fornisce soccorso col suo furgone durante la notte dello sfogo, possiamo apprezzare il talento e l’intensità dell’attrice Betty Gabriel.
Ambientato in una Washington surreale, il film contamina con esiti felici vari generi cinematografici riportandoci in parte al filone apocalittico capitanato da ‘1997 fuga da New York’ e ‘La notte dei morti viventi’ suscitando interessanti riflessioni sulla natura umana e sull’origine della violenza e della rabbia sociale di oggi.

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Credit Cover Universal Pictures 

Cinecult: Mr. Cobbler e la bottega magica di Tom McCarthy

Avete mai provato a immaginare di cambiare completamente la vostra vita calzando le scarpe di qualcun altro? Beh Max Simkin (impersonato dall’esilarante Adam Sandler), calzolaio annoiato e un po’ bolso del Lower East Side di Manhattan sì. E infatti, riparando le scarpe dei suoi clienti con una vecchia macchina per ricucire le suole ereditata dal nonno ebreo purosangue e infilandosi le scarpe così ricostruite gli succede di tutto, quanto basta per mettere pepe e dare sapore alla rocambolesca commedia di Tom McCarty, meglio noto fra i cinefili per la regia da premio Oscar de ‘Il caso Spotlight’.
Nel cast fa capolino sul grande schermo dopo un po’ di assenza dalle scene la bionda Ellen Barkin, che sembra quasi la caricatura della torbida virago interpretata da Cameron Diaz in ‘The Counselor’ di Ridley Scott. Il quartiere del Lower East Side è in subbuglio perché la malavitosa Elaine Greenawalt vuole radere al suolo gli edifici storici e i negozi più popolari della zona per perseguire i suoi loschi affari speculativi. Ma in un modo o nell’altro Max, che si intrufola nelle vite dei suoi clienti talora goffamente talora con spassosa disinvoltura, gli renderà la vita assai difficile, finché farà delle scoperte molto curiose sul padre scomparso. Nel film, graziato da un ottimo cast in cui primeggia un apprezzabile Steve Buscemi, uno dei re della commedia Hollywoodiana, per non parlare del cammeo tutto da scoprire di Dustin Hoffman, la componente magica domina la scena dando vita a una serie di gag scoppiettanti in cui Adam Sandler diventa una sorta di super eroe. Ma come giustamente gli dirà Dustin Hoffan: “Noi siamo guardiani di anime: indossare i panni altrui è un privilegio ma anche una grande responsabilità”. Da non perdere la scena in cui il trans dal tacco assassino (letteralmente!) si infila nell’appartamento del killer gangsta’s chic che sembra uscito da un video di Puff Diddy con le sue scarpe di lucertola. Alla fine la lezione è che spesso anche un accessorio apparentemente insignificante come le nostre scarpe può cambiare la nostra identità e il nostro destino. Fino a redimere i malfattori come il sicario Cliff ‘Method man’ Smith (Leon Ludlow) un rapper che ha vinto un Grammy duettando con Mary J. Blige. Non perdete questo film se cercate una commedia intelligente.

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Cinecult: Cell di Tod Williams

Dopo il successo di 1408 tornano insieme sul grande schermo John Cusack, Samuel L. Jackson e Stephen King in una Boston apocalittica falcidiata da una strana epidemia che annichilisce le facoltà mentali di chi usa il cellulare.

Può lo strapotere dei cellulari e l’uso indiscriminato della tecnologia e della cibernetica opporsi all’istinto di autoconservazione fino a mettere in pericolo la nostra sopravvivenza? Nel film ‘Cell’ di Tod Williams distribuito in Italia da Notorious Pictures e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King del 2006 che doveva essere portato al cinema da Eli Roth, altro cultore del genere Horror, si cerca di dare una risposta drammaturgica ed esistenziale a questo cruciale quesito. Siamo completamente condizionati dall’uso dei dispositivi cellulari tanto da non poterne mai fare a meno, specialmente in luoghi affollati come metropolitane o aeroporti. Ed é nell’aeroporto di Boston per l’appunto che ha inizio questo fanta horror apocalittico dove il graphic novelist Clay Riddell (John Cusack) si trova improvvisamente circondato da tele-pazzi la cui razionalità è annientata nello stesso momento dagli squilli dei cellulari, che, ribattezzati nel film ‘citofoni del diavolo’ hanno annichilito le loro facoltà mentali facendone degli esseri voraci vittime dei loro istinti primordiali proprio come una massa di zombie. Nella sua disperata fuga alla ricerca della sua famiglia, l’ex moglie Sharon e il figlio Johnny, Clay si imbatte in un conducente di treni della metropolitana (un formidabile e molto sagace Samuel L. Jackson simile nel temperamento molto razionale a un vero scienziato) e in una ragazza Alice (Isabelle Fuhrman, già vista in ‘Orphan’ e protagonista di ‘Hellbent’ e ‘Hounddog’) che cercando di sopravvivere alla crisi della madre l’ha dovuta sopprimere. Interessante la lettura di questa deriva fantascientifica della società digitale avvalorata da scene eloquenti come la pila dei telefoni cellulari carbonizzati che squillano a vuoto e la distesa di corpi di tele pazzi addormentati ai quali un intrepido Stacey Keach che nel film dichiara : “il progresso non si può fermare ma non si è mai troppo vecchi per combatterlo” dà fuoco in modo scenografico. Carico di pathos e di tensione ma anche di una forte dose di suspence questo film mostra le reazioni e i comportamenti dei tele-pazzi che si muovono in gruppo come una strana community dominata da uno spirito di condivisione simile a quello di una colonia di insetti o di un alveare. Il film parla di una guerra fra la collettività e l’individuo dagli inquietanti e a tratti tragici risvolti, una guerra cibernetica oltre ogni immaginazione in cui non ci sono né vincitori né vinti. Il tutto rappresentato dalla vena gotica e dall’inventiva chiaroscurale di un genio del brivido come Stephen King.

Cinecult : Tom à la ferme di Xavier Dolan

Dal mélo al thriller rurale, dalle metropoli canadesi a una fattoria che somiglia tanto al motel di Psycho riecheggiato dalla colonna sonora.
Il film ‘Tom à la ferme’ di Xavier Dolan, presentato al Festival di Venezia del 2013, e attualmente nelle sale italiane, è quello che precede direttamente l’epico dramma ‘Mommy’, davvero indimenticabile. Questo film interpretato da un Dolan dai capelli platinati nel ruolo di Tom un pubblicitario rimasto privo del suo compagno Guillaume, apre la finestra su una nuova, inquietante dimensione dell’immaginario queer del visionario cineasta canadese che insinua nella trama enigmatica delle sfumature surreali e con un plot sorprendente racconta i segreti di una fattoria dove tutto è ambiguo e ancestrale. Tom si reca in campagna a conoscere la bizzarra madre Agathe e il fratello Francis, macho e manesco, del suo compagno Guillaume. Ma scopre sconcertato che la mamma del suo defunto ragazzo è convinta che il figlio fosse legato a una ragazza, la sbarazzina Sarah che s’introduce nella trama del racconto quasi rompendo gli schemi di un ordine sociale dove la parola ‘omosessualità’ deve essere categoricamente bandita. Divertente la scena del tango fra Francis e Tom fra i quali nasce uno strano rapporto descritto in un climax di tensione e di violenza, fra l’aggressività di Francis e il carattere indeciso, vulnerabile di Tom, plagiato dal seducente bifolco che lo insegue nei campi di granoturco. Sicuramente una digressione di suspence e di giallo nella cinematografia del prolifico regista classe 1989. Non ha la carica e il pathos di ‘Mommy’ né l’ironia folgorante di ‘J’ai tué ma mère’ ma è senz’altro una pellicola interessante, con risvolti singolari e scene secche e forti cifra ormai distintiva di Dolan.

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Cinecult: L’identità queer si racconta al festival Mix Milano

cover tratta dal film Ville Marie

Cala il sipario in questi giorni sulla 30° edizione di Festival Mix Milano, la manifestazione milanese di cinema e musica ideata e diretta da Giampaolo Marzi e votata a raccontare con un respiro internazionale le ultime evoluzioni della sensibilità gay e lesbica nel mondo della settima arte. Una vetrina affacciata sulla realtà di oggi sempre più problematica e inquietante in cui una volta di più si torna a interrogarsi sui vari risvolti dell’identità di genere e sulle accezioni che assume nel villaggio globale la parola diversità. Organizzato da Associazione Culturale MIX Milano, in collaborazione con Immaginaria, storico Festival Internazionale del Cinema delle Donne, Ribelli, Lesbiche, Eccentriche, in collaborazione con Milano Film Network, la rete dei festival di cinema milanesi il festival di quest’anno ha decretato fra i lungometraggi la vittoria di Barash di Michal Vinik, un pregevole film israeliano che narra la storia di una diciassettenne lesbica con una passione per alcol e droghe in netta antitesi all’atmosfera sessista del suo ambiente familiare. Secondo la motivazione della giuria “E’ un film che, grazie a una certa ricerca e attenzione al dettaglio incontra e rappresenta al meglio le nuove generazioni. La pellicola unisce a una narrativa di puro intrattenimento temi forti come il “confine”, interiorizzato o esteriorizzato, e il dialogo con ciò che vive al di là del muro, comunque si percepisca tale muro”. Molto apprezzati tanto da aggiudicarsi gli ambiti riconoscimenti della giuria dei lungometraggi anche ‘La belle saison’ di Catherine Corsini che innesta una love story saffica francese di rara poesia e bellezza nella cornice tumultuosa delle rivendicazioni femministe degli anni’70, senza parlare del filosofico ‘Liebmann’ di Jules Herman in cui un uomo decide di lasciarsi alle spalle la sua vita in Germania per trasferirsi nel nord della Francia dove incontrerà l’amore, ma prima di gustarsi la nuova vita dovrà fare i conti con i fantasmi del passato, e ‘Jason and Shirley’ di Stephen Winter, in concorso ufficiale all’ultimo BFI Flare London LGBT Film Festival. Il film immagina l’elettrizzante e complicato dietro le quinte della notte in cui venne girato il documentario ‘Portrait of Jason’, un classico del cinema queer, ad opera della filmmaker ebrea premio Oscar Shirley Clarke nel 1967. Fra i vari film da segnalare oltre a quelli insigniti dei premi delle varie giurie merita una menzione speciale ‘Theo et Hugo dans le même bateau’ di Olivier Ducastel e Jacques Martineau che ha aperto il programma del festival, insieme a ‘Ville Marie’ con una sensuale Monica Bellucci nel ruolo di Sophie, una grande diva che dopo anni incontra il figlio gay afflitto da varie problematiche affettive ed esistenziali e ossessionato dalla ricerca del padre che non ha mai conosciuto. Notevoli anche alcuni documentari imperniati sull’identità; fra i vari docu-film in concorso la giuria del festival ha premiato ‘Coming out’ di Alden Peters in quanto la rivelazione privata di un ragazzo gay diventa espressione di una storia universale che affronta in modo istintivo ed efficace temi come l’omofobia e il bullismo.

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Torna in auge il grande connubio Versace Bruce Weber

Per la campagna pubblicitaria autunno-inverno 2016-17 la maison della Medusa e Bruce Weber propongono al pubblico social e a tutti i loro fan una grande fashion reunion ispirata alla vita vissuta e al mondo glamour che ruota attorno a Chicago. Si chiama infatti ‘Chicago is my beat’ il video realizzato da Bruce Weber e svelato a Milano pochi giorni fa in occasione della fashion week del menswear milanese. Il video accompagna la presentazione delle foto che chiosano le collezioni di prêt-à-porter Versace uomo e Versace donna per il prossimo inverno. Bruce Weber ha cominciato a collaborare con Gianni Versace per le sue campagne di advertising già intorno al 1983 proprio quando il suo astro e quello della maison cominciavano ad assurgere insieme ai livelli più alti del firmamento della moda per poi collaborare a stretto contatto con Donatella nel 1990. E oggi la bionda stilista musa della maison torna ad arruolare il grande maestro americano, padre dello street casting e di una poetica romantica e sensuale che dal quotidiano vira all’erotismo pop, affidandogli la lettura delle nuove collezioni del marchio di via Gesù. Protagoniste sia del video che degli scatti estemporanei e carichi di languida voluttà dedicati alla nuova anima di Versace sono le modelle Karlie Kloss, Gigi Hadid e Dilone, ritratte in momenti di vita vera che si trasfigurano poi in rappresentazioni oniriche. “Appena ho detto a Donatella di scattare a Chicago lei mi ha semplicemente risposto si, andiamoci subito!” ha dichiarato Bruce Weber. E ha aggiunto: “Donatella è sempre stata un’avventuriera. Non solo mi tratta come un principe ma anche come un membro della famiglia e il sentimento è reciproco. La cosa più importante, dopo tutti questi anni, è che ridiamo sempre quando stiamo insieme”. L’energia e il calore di una vera famiglia pervadono il cortometraggio ‘Chicago is my beat’ animato dalla presenza di persone reali estrapolate dalla vita vera della metropoli come un bodyguard, un cantante e un gruppo di ballerini che affiancano i modelli Charlie Kennedy, Trevor Signorino e Marcus Watts. Per citare Bruce Weber : “Robert Mitchum una volta mi ha detto “appena arrivi in una nuova città, fai sempre amicizia con una bionda”. Quando sono arrivato a Chicago, ho trovato quella bionda in te, Donatella. Volevo visitare questa città insieme a te, per conoscere la sua storia e sentire l’amore e l’armonia della sua musica. Chicago sta attraversando un periodo difficile e ha bisogno di un pò di incoraggiamento- come ne abbiamo bisogno tutti noi una volta ogni tanto. La gentilezza delle sue persone mi ha aiutato a creare queste fotografie e ora posso dire che “Chicago is my beat”. Il direttore creativo della maison Donatella Versace ha così commentato il rinnovamento di questa speciale iniziativa di sodalizio creativo con il grande fotografo: “Bruce Weber è il vero maestro dei nostri tempi. La sua fotografia è profondamente personale e ricca, una riflessione sul mondo come lui lo vede. È stato un piacere entrare ancora una volta in quel mondo per questa campagna Versace. Con questa campagna Bruce mi riconsegna una parte della mia storia”. Le immagini della nuova campagna sono distribuite sia offline che online, tramite i social media e i canali ufficiali di Versace. La campagna sarà accompagnata da una serie di video diretti dal grande Bruce Weber.

it.versace.com

www.bruceweber.com

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Cinecult: Sexxx di Davide Ferrario

Corpi semi nudi che si intrecciano, flirtano, si abbandonano a languide pose simulando torridi amplessi per una messinscena cinematografica inedita del linguaggio della danza d’avanguardia. Tutto questo e altro è ‘Sexxx’ diretto da Davide Ferrario, il film che ha sedotto Madonna, sugli schermi italiani solo il 4 e il 5 luglio. Tutto è nato quando il cineasta a novembre dello scorso anno è andato a Collegno (Torino) a vedere lo spettacolo di danza sensuale del coreografo Matteo Levaggi, uno di quelli che sa il fatto suo e ha dato un bello scossone al mondo sclerotizzato della danza contemporanea e del balletto. E così folgorato da quanto aveva appena visto, una serie di performance messe in scena dal Balletto del Teatro di Torino, Ferrario ha cominciato a lavorare su un ipotetico film-documentario studiando il modo migliore con il quale tradurre per il Grande Schermo le suggestioni visive di un balletto molto speciale, che sfida le regole e i tabù della nudità e della danza classica per aprire nuove prospettive sul body language. Il film mette in forma di racconto i vari quadri della coreografia di Levaggi ispirandosi alle forme espressive della pittura rinascimentale come ai set dei film per adulti, con l’intervallo di un cortometraggio piccante in forma di fiction ambientato in una stanza d’albergo. Arricchito dalle colonne sonore di David Bowie, degli Ultravox, di Massimo Zamboni-la musica originale del balletto è di Bruno Raco-il film come pure lo spettacolo è “un’istantanea sul contemporaneo, sul corpo abusato del ballerino, che ricerca sempre più potenza fisica, tecnica, costruendosi un ideale di perfezione che forse finisce per non trasmettere più emozioni: La sessualità in SEXXX è racchiusa nel titolo: è un pensiero della danza sepolto nel più profondo anfratto dellamente, quel pensiero audace che emerge dai corpi seminudi ed esposti.”
Lasciatevi guidare in un viaggio intimo alla scoperta dei nuovi linguaggi poetici e sensuali del corpo, senza falsi pudori.

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Cinecult: Lawrence Anyways eil desiderio di una donna di Xavier Dolan

Un vero mélo in piena regola, tempestoso, carnale, sanguigno come si conviene alla migliore e più nobile French Attitude al cinema. Presentato al Festival di Cannes nella sezione ‘Un certain regard’, distribuito da Movies Inspired e realizzato nel 2012 dal golden boy canadese della scena cinematografica internazionale Xavier Dolan, regista di film come ‘Mommy’ e ‘Juste la fin du monde’ approda sugli schermi italiani ‘Lawrence Anyways’ tornando a sollevare dubbi, interrogativi e riflessioni sul tema dell’identità di genere, in un dramma romantico ambientato negli anni’80/90. “Sono gli anni in cui l’omosessualità e l’ambiguità cominciano a infrangere le barriere e a superare la crisi dell’AIDS, un’epoca ideale quindi in cui ambientare questa storia”. Una storia epica e miracolosa di una ‘transizione’ da un sesso all’altro, esperienza struggente e romantica di uno scrittore e professore di letteratura, Laurence Alia (un grandioso Melvil Poupaud) legato sentimentalmente a Frederique-Fred Belair (un’intensa e viscerale Suzanne Clément già vista in un altro film di Dolan ‘J’ai tué ma mère’). Quando a trent’anni appena compiuti Lawrence le rivela la sua volontà di cambiare identità sessuale, inizialmente Fred è travolta da mille dubbi, ansie e pensieri, si sente persa, poi scioccata e infine instaura un dialogo nuovo con il nuovo Lawrence che nel frattempo, vittima dei pregiudizi perde il lavoro di insegnante e viene rifiutato dalla società e dalla famiglia, persino brutalmente picchiato nei bar. La madre di Lawrence Julienne (Nathalie Baye) fatica molto ad accettare la diversità del figlio, cerca di razionalizzare, a tratti è lucida e spietata e a tratti lo riconduce a sé. Amore e odio dividono Lawrence, Fred e sua sorella Stéphanie (Monia Chokri), personalità forte e onnipresente nel film che fra inquadrature perfette e un gusto estetico di rarefatta eleganza lascia un segno e scandaglia l’intimità dei personaggi fino alle viscere. Preziosa la palette dei colori pastello che assume una valenza simbolica anche per i protagonisti del film. Suggestiva la scena del gran ballo in cui Fred si presenta avvolta in una cappa Haute Couture di Yves Saint Laurent, per rivelare un rutilante fourreau gioiello. ‘Lawrence mi ricorda la mia infanzia ma non certo nel senso che ero o sono insoddisfatto della mia identità-osserva il regista-mi ricorda l’epoca in cui prima di diventare un regista dovevo diventare un uomo ed è un omaggio alla storia di un amore impossibile, ambizioso, sconfinato che solo il cinema e i libri sanno mostrare”.

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Cinecult: The neon demon di Nicolas Winding Refn

“La bellezza è il valore più importante e universale, senza la bellezza non siamo niente” e ancora: “Perché perdere tempo con la carne scaduta quando puoi avere carne fresca?”. Sono solo alcune delle ‘perle di saggezza’ estetizzante e modaiola che si possono estrapolare dall’ultima, riuscitissima fatica cinematografica del danese Nicolas Winding Refn ‘The neon demon’, distribuito da Koch Media. Il regista di ‘Drive’ e di ‘Solo Dio perdona’ costruisce abilmente un horror ambientato nel mondo della moda con un impatto visivo formidabile fatto di un mix di colori densi e acrilici e di atmosfere ipnotiche e notturne. Il regista che alla nouvelle Vague preferisce gli horror genere ‘Non aprite quella porta’ ha una cultura del cinema e dell’immagine molto ricca e raffinata. Nel film che racconta l’esperienza di Jesse, giovane aspirante modella in una Los Angeles corrotta ed efferata ma ‘dal cielo immenso che ti fa sentire piccolo’, si possono leggere riferimenti a pellicole cult di Dario Argento come ‘Suspiria’ e ‘Phenomena’ e ‘gli occhi di Laura Mars’ ma anche il tema del film di Julie Delpy ‘La contessa’ che si nutriva del sangue delle vergini come elisir di giovinezza, anche se il regista ha smentito quest’ultimo riferimento. Lo spietato mondo dell’alta moda viene radiografato con i toni di un thriller ricco di scene ad alto tasso di tensione e di bellezza, perché la bellezza naturale, quella di Elle Fanning protagonista assoluta, molto somigliante alla Brooke Shields degli esordi (Pretty Baby dirà qualcosa ai cinefili) viene intesa come potere assoluto e pericoloso dove il diavolo si cala in elegantissime vesti femminili. Notevole la prima scena in cui la Fanning, sorella dell’altrettanto celebre Dakota, indossa un top metallizzato con mini abbinata, un look firmato Emporio Armani su un set molto gotico ma di design e in una posa che sembra rubata a uno scatto di Guy Bourdin, la cui influenza estetica pervade varie scene della pellicola. Giorgio Armani è fra gli stilisti che hanno collaborato con la costumista Erin Benach anche per la bellissima scena della sfilata intrisa di simbolismi esoterici e di linguaggi gotici e stregoneschi legati alla mistica del triangolo. Completano il quadro suggestivo dell’insieme le musiche di Cliff Martinez che si è ispirato al potente e inquietante sound elettronico di Giorgio Moroder anni’80. Film, potente e ipervisivo, molto crudele.

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Cinecult: The nice guys di Shane Black

Metti due tipi schizzati e spassosi, due adorabili idioti completamente agli antipodi nella Los Angeles viziosa e opulenta degli anni’70, aggiungi una ragazzina ficcanaso ma molto più saggia dei due emuli di Starsky e Hutch, metti pure uno scorcio ironico e scanzonato sul mondo della pornografia americana anni’70 visto come un racconto in chiave satirica ispirato in parte al film ‘Boogie nights’, shakera tutto sapientemente con colori, luci strobo e tante risate e avrai il nuovo film di Shane Black, ‘The nice guys’. Prodotto da Joel Silver (lo stesso di ‘Arma letale’) e distribuito da Lucky Red che ha portato in Italia i due esilaranti e fascinosi protagonisti Russell Crowe (nel ruolo di Jackson Healy) e Ryan Gosling (l’impacciato truffatore Holland March) il film racconta le gesta di due sedicenti detective senza speranza che si mettono sulle tracce di una divetta del porno scomparsa, la bella Amelia, figlia della spietata ‘cattiva’ e moralizzatrice Judith Kutner (Kim Basinger in forma smagliante), aiutati, per loro fortuna dal fiuto della strana adolescente figlia di Holland March, l’acuta Holly interpretata da Angourie Rice. In tutto questo svetta il glamour assassino del killer Matt Boomer che incarna il perfido sicario John Boy. Onore al merito ai costumi di Kym Barret e alle scenografie di Richard Bridgland che catapultano lo spettatore nell’euforica e bislacca atmosfera di un Hollywood party ‘a luci rosse’ nella stessa città in cui nacquero le prime stelle del cinema hard come Linda Lovelace, la star di ‘Gola profonda’ e John Holmes. Il film, carico di gag mozzafiato, in realtà passa dall’ironia e dalla corruzione di una Los Angeles variopinta e molto trendy a una cospirazione fantapolitica dalle proporzioni gigantesche che coinvolge alcuni circuiti del governo degli Stati Uniti. Inseguimenti rocamboleschi, colpi di scena a tutto gas e un’estetica satura e surreale sono gli ingredienti di un avvincente ed entusiasmante poliziesco che sovverte le ‘regole del genere’ per virare repentinamente in un film comico e action dove tutti i tasselli del puzzle cominciano a incastrarsi verso l’epilogo. Ben recitato da due giganti di Hollywood, film spregiudicato e anticonvenzionale da gustare in un sol colpo.

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MATTEO MARTARI – DALLA MODA AL PICCOLO E GRANDE SCHERMO

Ha le ‘phisique du rôle’ e la recitazione nel sangue. Dalla sua carriera di modello ha imparato che l’abito fa il monaco, soprattutto sul set. Matteo Martari, Sagittario, è un artista poliedrico che non si ferma mai, sempre aperto a nuove esperienze dal grande cinema agli spettacoli di ‘street art’. Di sé dice :“Sono un uomo che agisce di pancia ma sono anche ammaliato da una bella testa”.

Riservato ma affabile, appassionato della vita e del suo mestiere, quello di attore destinato a regalare emozioni e per usare le sue stesse parole “a comunicare con la gente in modo creativo”, Matteo Martari possiede occhi penetranti e un fisico slanciato da modello, carriera che ha interrotto cinque anni fa per dedicarsi alla recitazione. “La moda è stata un’opportunità per viaggiare, conoscere tre lingue straniere e visitare luoghi che altrimenti non avrei mai visto”. Oggi dopo la partecipazione ad alcune fiction di successo come ‘Luisa Spagnoli’ in cui interpretava Giovanni Buitoni e ruoli cinematografici come quello nel film ‘La felicità è un sistema complesso’ di Gianni Zanasi è reduce dall’esperienza di‘2night’ film in uscita nelle sale in ottobre, in cui lo ha diretto Ivan Silvestrini, segnalandosi come uno degli attori più promettenti del nuovo cinema italiano e internazionale. Man in Town lo ha incontrato a Roma in una pausa fra un progetto e l’altro, per raccontare il suo vissuto e le sue passioni.

Di cosa parla esattamente l’ultimo film in cui ha recitato per il cinema?
‘2night’ racconta della vita, di incontri e di scelte. Anche se è una piccola produzione dietro c’è tanta ambizione perché è un film impegnativo: è stato girato nell’arco di 5 notti consecutive e di notte si sa è difficile mantenere la concentrazione. La notte mi è familiare: prima di fare il modello lavoravo in un forno.

Cosa le riserva il futuro?
Staremo a vedere. Amo molto il cinema e il teatro che peraltro mi ha impegnato non poco in passato ma devo ammettere che la fiction funziona bene, per non parlare delle web series: ne ho interpretata già una ‘Under’ diretta da Ivan Silvestrini e credo che siano il futuro. Non mi dispiacerebbe lavorare con apprezzati e sorprendenti registi italiani come Gabriele Mainetti e Fabio Mollo e adorerei una proposta dal cineasta danese Thomas Vinterberg, della scuola del Dogma. Per il resto per me recitare è creare un progetto che piaccia alla gente e allo stesso tempo mi diverta.

Un luogo fisico e un luogo dell’anima.
Per quanto concerne il primo forse Parigi, il secondo è la campagna veneta che mi rilassa molto dato che ho vissuto a Verona fino ai 18 anni.

Quali sono le sue passioni maschili?
Sono un biker da quando avevo 14 anni, amo l’enduro e quando potrò metterò in piedi una mia scuderia rally. Per lo stile amo le macchine d’epoca.

A proposito di stile qual è il suo guardaroba ideale?
L’esperienza di modello mi ha fatto passare la voglia di essere ‘trendy’. Preferisco il comfort di capi tecnici. E poi colleziono cappelli, ne possiedo circa 200 fra i quali alcuni Borsalino acquistati in giro per il mondo soprattutto a Parigi. Ammiro gli uomini che hanno un concetto definito di eleganza e sanno metterlo in atto. Per me il look definisce sempre un personaggio: in ‘Luisa Spagnoli’ calandomi nel mio ruolo di Giovanni Buitoni ho riscoperto certi rituali di eleganza del passato che oggi non sarebbero proponibili. La praticità imperante ha accelerato i tempi scandendo il ritmo di un’esistenza fin troppo frenetica.

Photography | Roberta Krasnig
Stylist | Stefania Sciortino
Grooming | Isabella Avenali per CC Making Beauty
Photography assistant | Chiara Filippi e Leonardo Barbaresi
Location | Castello Della Castelluccia di Roma

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Cinecult: L’uomo che vide l’infinito di Matthew Brown

Vivamente raccomandato ai gentlemen dalla testa solida e dal cuore tenero e a tutti coloro che si lasciano commuovere dai prodigi dell’intelligenza al di là delle barriere di lingua, razza e religione. La storia di Srinivasa Ramanujan, il Pitagora indiano della matematica del XX secolo rievocata con gusto e poesia da Matthew Brown nella pellicola di Eagle Pictures ‘L’uomo che vide l’infinito’ è davvero un esempio memorabile della possibilità autentica di superare tabù e differenze apparentemente insormontabili in nome della scienza e dei suoi benefici nel segno di un nuovo umanesimo. Il viaggio in Inghilterra nel 1913 di Ramanujan, interpretato da un radioso Dev Patel (già molto noto e osannato per la sua interpretazione di ‘The Millionaire’ di Danny Boyle del 2009) viene descritto con toni intimistici e avvincenti. L’incontro con il dandy matematico Godfrey Harold Hardy impersonato da un meraviglioso e elegantissimo Jeremy Irons suscita interrogativi e pone quesiti cruciali sulla possibilità di condividere affinità, oltre le credenze personali, filosofiche o religiose, in nome dell’amore per la ‘bellezza della matematica’ come la definì Bertrand Russell, (interpretato nel film da Jeremy Northam)  e del suo valore simbolico e quasi metafisico. Per Ramanujan l’equazione matematica e l’algoritmo derivavano da un’illuminazione divina. Morto di tubercolosi all’età di soli 32 anni Ramanujan restò sempre nel cuore del suo fedele amico Hardy che riuscì con il suo entusiasmo a farlo entrare nella comunità accademica degli eletti del Trinity College di Cambridge, un’onorificenza molto alta per l’epoca per chi non era inglese. Dev Patel, genio autodidatta riesce a evocare tutto il travaglio interiore e il disagio di sentirsi un genio incompreso che fu vissuto da Ramanujan in un mondo che considerava gli indiani una razza subalterna e nutriva scetticismo per le nuove teorie intuitive del matematico indiano. Il suo guardaroba frutto della ricerca della brillante costumista Ann Maskrey, riflette la transizione che lui vive dall’India coloniale del Sud in cui viene rappresentato come un bramino dalle fogge suggestive, verso un Occidente irrigidito nel formalismo di abiti élitari che Irons indossa con raro appeal grazie alla sua indole da gentleman ricercato e creativo. La costumista riesce a ricostruire magistralmente il look un po’ impacciato ma mai goffo o macchiettistico di Ramanujan che arrivato a Cambridge si trova a calarsi in costumi occidentali attraverso la grazia innata e la sensibilità recitativa di Patel che con i suoi grandi occhi e la sua gentilezza lascia il segno. Film da vedere e rivedere, toccante e vibrante.

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MARCO PALVETTI: IDENTIKIT DI UN ATTORE

È stato Salvatore Conte in ‘Gomorra’. Carismatico, garbato e introspettivo Marco Palvetti, classe 1988, è uno degli interpreti più interessanti della scena italiana e internazionale.
MANINTOWN ha cercato di esplorarne la ricca personalità.

Lei è stato de nito la rivelazione del cinema italia- no nel 2014. Come ci si sente a ricevere un simile riconoscimento?
Quando si fa il proprio mestiere con amore come me ricevere un tale riconoscimento è non solo un privilegio, ma anche una responsabilità: ci si sente un po’ un esempio per tanti nuovi aspiranti attori.

Lei ha de nito Gomorra, ‘cinema’. Ci può far capire in che senso Gomorra supera i limiti della ction televisiva per diventare Cinema?
Ha un potenziale qualitativo molto alto, appun- to da cinema. È infatti serialità cinematogra ca. Ormai oggi questa è una realtà e rappresenta una modalità espressiva diversa da quella di un lungometraggio e le differenze riguardano sia la possibilità narrativa che l’impatto sul mercato.

Quanto c’è della sua preparazione teatrale nella sua elaborazione del personaggio di Salvatore Conte e in generale nella preparazione di qualunque ruolo da lei affrontato?
In realtà tutto parte dall’esigenza espressiva dell’attore di confrontarsi con diversi mezzi di comunicazione, che siano essi il teatro, il cinema o la ction. Quindi é una questione di sensibilità dell’attore. Personalmente amo molto sia il teatro che il cinema, quando recito posso vivere la vita di qualcun altro, ed è straordinario.

Dopo un ruolo così incisivo come quello di Conte in Gomorra ha già in cantiere nuovi progetti? Se sì potrebbe anticiparci qualcosa?
Sto valutando diversi progetti e sceneggiature ed è ancora prematuro parlarne. Mi piacerebbe lavorare con Paolo Sorrentino e Matteo Garrone ma anche con Tim Burton e Steve Mc Queen, sono talenti visionari.

Lei ha un aspetto molto curato sia sul set che fuori. Quanta importanza riveste il look nella sua attività artistica e perché a suo avviso?
Il look di scena è la somma di tanti fattori espres- sivi ed è importante in quanto racconta molto del personaggio. Per me un personaggio va rispettato e non ha mai un solo colore ma è vivo e, come la vita è carico di controsensi.

Qual è l’elemento che non può mai mancare nel suo guardaroba? Perché?
La giacca perché è un capo che mi accompagna e mi fa stare bene. Ma mi concedo sempre la libertà di poter scegliere senza uno schema prede nito.

Ci può parlare delle sue passioni maschili (viaggi, sport, hobby, ecc.)?
Amo molto leggere, scrivere e mi alleno ogni gior- no in palestra con un coach per tenermi in forma.

Un luogo del corpo e uno della mente che le appar- tengono in modo speciale?

Il luogo dell’anima è il mare, mi scuote dentro, mi fa paura e insieme mi affascina: mi tiene vivo. Il luogo sico è qualunque nuova destinazione di viaggio perché implica una crescita e vivere nuove emozioni.

Qual è l’esperienza artistica o esistenziale che l’ha segnata di più e dalla quale ha tratto il più profondo insegnamento?
Sicuramente il mio trasferimento a Roma a 18 anni per frequentare l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” ha segnato la mia ‘svolta fondamentale’. Vivevo un momento molto delicato e proprio allora ho iniziato un percorso che mi ha dato tanto, soprattutto in termini di co- noscenza, per far germogliare dentro di me quella ‘pianta’, quel fuoco, quell’esigenza diabolica, intima e fragile che l’attore coltiva dentro di sé.

Lei ha un aspetto molto curato sia sul set che fuori. Quanta importanza riveste il look nella sua attività artistica e perché a suo avviso?
Il look di scena è la somma di tanti fattori espres- sivi ed è importante in quanto racconta molto del personaggio. Per me un personaggio va rispettato e non ha mai un solo colore ma è vivo e, come la vita è carico di controsensi.

Qual è l’elemento che non può mai mancare nel suo guardaroba? Perché?
La giacca perché è un capo che mi accompagna e mi fa stare bene. Ma mi concedo sempre la libertà di poter scegliere senza uno schema prede nito.

Ci può parlare delle sue passioni maschili (viaggi, sport, hobby, ecc.)?
Amo molto leggere, scrivere e mi alleno ogni gior- no in palestra con un coach per tenermi in forma.

Un luogo del corpo e uno della mente che le appar- tengono in modo speciale?
Il luogo dell’anima è il mare, mi scuote dentro, mi fa paura e insieme mi affascina: mi tiene vivo. Il luogo sico è qualunque nuova destinazione di viaggio perché implica una crescita e vivere nuove emozioni.

Qual è l’esperienza artistica o esistenziale che l’ha segnata di più e dalla quale ha tratto il più profondo insegnamento?
Sicuramente il mio trasferimento a Roma a 18 anni per frequentare l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” ha segnato la mia ‘svolta fondamentale’. Vivevo un momento molto delicato e proprio allora ho iniziato un percorso che mi ha dato tanto, soprattutto in termini di co- noscenza, per far germogliare dentro di me quella ‘pianta’, quel fuoco, quell’esigenza diabolica, intima e fragile che l’attore coltiva dentro di sé.

Photography | Roberta Krasnig
Stylist | Stefania Sciortino
Grooming | Ilaria Di Lauro
Photography Assistant | Chiara Filippi
Post-production | Giovanna Di Lisciandro
Location | M3 Studio

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A CANNES IL FESTIVAL DEL GLAMOUR PREMIA L’IMPEGNO E IL GRANDE CINEMA

Courtesy of Sony Pictures

Un festival che si esprime con la testa ma soprattutto di pancia, sa lanciare provocazioni e appelli ed esprimere tutta la gamma delle passioni umane da qualunque parte del mondo provengano. Mai viste così tante star del firmamento hollywoodiano in un festival, quello di Cannes che normalmente più francese ed eurocentrico non si può: prossima alla celebrazione del suo Settantesimo anniversario questa grande kermesse di cinema e mondanità stellare ha portato alla ribalta il meglio del grande cinema. Sulla Croisette hanno sfilato fra gli altri Robert De Niro, Ryan Gosling e Russell Crowe (protagonisti di ‘The nice guys’), Mel Gibson, Woody Allen, Sean Penn, Charlize Theron e Julia Roberts, protagonista accanto a George Clooney di ‘Money Monster’ un bel thriller di Jodie Foster sul potere malefico e fallace dell’alta finanza in America. La giuria internazionale composta da Kirsten Dunst, Vanessa Paradis ineffabile icona Chanel, Valeria Golino splendida in Gucci e Valentino, Donald Sutherland e Mads Mikkelsen elegantissimi in Brioni e presieduta dall’australiano George Miller, il regista che ha diretto la tetralogia di Mad Max, ha decretato la vittoria della denuncia sociale e dell’impegno civile di Ken Loach. Già premiato a Cannes con ‘Il vento che accarezza l’erba’, con ‘I, Daniel Black’ Loach si è aggiudicato un meritatissimo Palmarès: il film è incentrato sui nuovi poveri, sulle crepe del modello neoliberale e sulle disfunzioni del sistema sanitario. La pellicola definita dai giurati ‘bella e semplice nella sua intensità’ in Italia sarà distribuita da Cinema di Valerio De Paolis. Il regista francese enfant prodige, amatissimo da Louis Vuitton e già famoso per ‘Mommy’, Xavier Dolan, ha portato a casa il gran premio della giuria con il bellissimo film ‘Juste la fin du monde’ distribuito da Lucky Red con Gaspard Ulliel, Lea Seidoux, Marion Cotillard, Vincent Cassell e Nathalie Baye in cui il giovane e geniale cineasta cattura l’anima dei personaggi, familiari di un giovane drammaturgo in fin di vita che torna nel grembo della famiglia dopo anni di assenza. Il pregevole film ‘The salesman’ dell’iraniano Asghar Farhadi e distribuito sempre da Lucky Red, liberamente ispirato alla pièce ‘Morte di un Commesso viaggiatore’ ha conseguito un bis di riconoscimenti: il premio di migliore attore per Shahab Hosseini e quello per la miglior sceneggiatura. Si sono divisi ex aequo il premio per la miglior regia il film ‘Baccalaureat’ di Cristian Mungiu distribuito da Bim, sulla paternità e le grandi scelte, e la pellicola ‘Personal Shopper’ con una Kirsten Stewart (che a Cannes si è presentata sul red carpet vestita Chanel anche come parte del cast di attori del film di Woody Allen ‘Café Society’ con Blake Lively e altri titani) che è un po’ personal shopper e un po’ necromante, capace di mettersi in contatto con le anime dei defunti. Nella sezione ‘Un certain regard’ in cui ha trionfato il film ‘Hymyilevä mies’, storia vera ispirata alla vita del pugile Olli Mäki, spicca il premio alla regia per Matt Ross che ha portato a Cannes ‘Captain Fantastic’ con un convincente Viggo Mortensen, commedia basata su un anticonformismo parossistico di una stramba famiglia di ragazzi geniali retta da un sistema patriarcale. Il gran premio alla giuria di ‘Un certain regard’ è andato al film d’animazione ‘The red turtle’ distribuito anch’esso da BIM. Delusione invece per il cast del pirotecnico ‘Ma Loute’ diretto da Bruno Dumont con una magistrale Valeria Bruni Tedeschi già distintasi nel film ‘La pazza gioia’ che Paolo Virzì ha presentato con successo alla Quinzaine des réalisateurs’, selezione parallela a quella ufficiale del festival, e una straordinaria Juliette Binoche che sul red carpet della Croisette ha fatto qualche capriccio da diva, il film non si è aggiudicato nessun premio come pure Julieta di Pedro Almodovar, giustamente molto atteso. E lo scandalo come in ogni festival non poteva mancare: stavolta ci ha pensato Paul Verhoeven, già regista di Basic Instinct, che ha diretto Isabelle Huppert nella pellicola ‘Elle’ un film che probabilmente non piacerà alle femministe. Glamour, colpi di scena e risate assicurate nella beffarda commedia ‘The nice guys’ distribuita da Lucky Red piena di gag alla Starsky e Hutch e di colori psichedelici in perfetto stile Seventies.

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ITALIANI TRIONFATORI DA CANNES ALLE SALE SUL GRANDE SCHERMO

Fuga per la libertà, per esprimere il proprio lato migliore, alla ricerca di una nuova identità sociale e personale. La grande evasione che il cinema italiano persegue da sempre oggi torna di urgente attualità in un mondo, quello della società 2.0 in fondo così digiuno di poesia. Al Festival di Cannes n° 69 e quasi in concomitanza nelle maggiori sale italiane il nuovo cinema tricolore ha issato con orgoglio il suo stendardo per far sentire sempre più forte la sua voce e il suo messaggio di un mondo più tollerabile e tollerante raccontando storie vere, appassionanti e plausibili. Fra le sbarre di un carcere minorile sboccia il ‘Fiore’ di un amore contrastato, elegiaco e molto intenso fra la giovane Dafne detenuta per piccoli furti e rapine e Josh, interpretato da un giovane attore che nella sua vita personale ha affrontato egli stesso il dolore del carcere mentre Dafne nella vita fa la cameriera. ‘Mi sembra di vivere una favola magica’ ha commentato la giovane attrice circa la sua presenza a Cannes. Il regista del film ‘Fiore’ distribuito da Bim e presentato nella sezione di Cannes ‘Quinzaine des réalisateurs’, Claudio Giovannesi, memore a nostro avviso della lezione di certi capolavori dedicati al disagio giovanile diretti da Gianni Amelio e Aurelio Grimaldi, è riuscito a cogliere tutta la disarmante, e realistica autenticità di un rapporto assoluto e paradigmatico perché comprende tutto ciò che Dafne non ha mai avuto: tenerezza, romanticismo, la prospettiva di una vera famiglia e di una vita migliore altrove, lontano da tutto e da tutti e da un padre assente Ascanio (Valerio Mastandrea) che si è rifatto una vita con una giovane rumena ed è agli arresti domiciliari. Lo stesso Mastandrea è stato scelto da Marco Bellocchio per interpretare il protagonista di ‘Fai bei sogni’ presentato sempre nella ‘Quinzaine des réalisateur’ e tratto da un toccante romanzo di Massimo Gramellini in cui l’espressivo attore romano, affiancato da Bérenice Bejo, si cala nel personaggio sofferente e disagiato di un uomo che lotta per affrontare il trauma infantile della perdita di una tenera madre. Altra perla del cinema nato nello stivale per rendere lustro alla nostra capacità di fare arte con la settima arte è ‘La pazza gioia’ del grande Paolo Virzì, che nel suo film distribuito da ‘01. Distribution’ e ‘Rai Cinema’ ha trionfato nella ‘Quinzaine des réalisateurs’ rivisitando per certi aspetti il rocambolesco road movie ‘Thelma e Louise’ con il suo tocco magico e la sua sapiente e invincibile forza creativa che sa trasformare una magistrale pellicola, per usare le parole stesse del cineasta toscano, in un ‘film terapia’ dove le due protagoniste Donatella (Micaela Ramazzotti) e Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi), condividono avventure, esilaranti peripezie e un’irragionevole euforia che sembra rievocare la ‘divina manìa’ di Platone e ‘L’elogio della follia’ di Erasmo. Le due donne fuggono dalla clinica psichiatrica in cui sono state ricoverate per recuperare i legami con un passato irrisolto e carico di rimpianti e dolore, per esplorare emozioni vere, precluse dalla loro coatta detenzione, anch’esse alla ricerca di sé stesse e di una dimensione più umana e umanizzante. Il tutto condito con umorismo raffinato e arguto che a volte sfuma nel surreale. E infine nella sezione ‘Un Certain régard’ ha svettato il suggestivo film‘Pericle il nero’ di Stefano Mordini, distribuito da BIM e prodotto e interpretato da Riccardo Scamarcio nel ruolo di un killer della Mafia che a un certo punto cerca di sottrarsi al circuito criminoso in cui ha vissuto la sua intera vita affrontando una serie di esperienze spesso pericolose e dagli accenti molto ‘noir’, alla ricerca di una via di scampo e di una autentica redenzione. Fra i produttori del film oltre ai fratelli Dardenne e Alain Attal compare anche Valeria Golino, splendida ambasciatrice del gusto e della bellezza del nostro paese come membro della giuria principale presieduta da George Miller, in questa appassionante 69esima edizione di un memorabile Festival di Cannes.

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Oscar 2016: le statuette dell’eco-impegno e dei diritti umani

Leonardo Di Caprio in Giorgio Armani made to measure, credits Steve Granitz

Finalmente dopo 6 nomination consecutive Di Caprio ce l’ha fatta. Ed è riuscito a strappare con l’ecologista e impattante ‘Revenant’ della Fox, film che difficilmente nel bene e nel male potremo dimenticare, premiato anche nella regia di Alejandro Gonzàlez Iñàrritu, l’ambitissima statuetta di miglior attore protagonista di fronte al profumato e scintillante parterre e alla mondovisione della super glamourous cerimonia dell’ottantottesima edizione della Notte degli Oscar che si è svolta poche sere fa al Dolby Theatre di Los Angeles. Qui di Caprio per commentare il suo trionfo ha lanciato appelli sul clima e sull’ambiente. Condotta dal comico black Chris Rock, la sfolgorante serata che è poi proseguita nelle mondanissime feste private date da Giorgio Armani nella sua boutique e da Alessandro Michele direttore creativo di Gucci rispettivamente per Di Caprio e per Madonna accanto al Vanity Fair party, ha decretato anche la vittoria di Ennio Morricone, unico italiano ad aggiudicarsi la dorata statuetta (per la colonna sonora del film di TarantinoThe Hateful Eight’) e subissato da messaggi di felicitazioni da parte di idoli pop nazionali come Gigi d’Alessio e leader del calibro di Matteo Renzi. Insomma una gloria italica che quasi non credeva all’onorificenza ricevuta: “L’Italia tifava per me? Meno male. Dedico il mio Oscar a mia moglie Maria: non c’è una bella musica per un film senza un grande film che la ispiri e ringrazio Quentin Tarantino per avermi scelto”. Tanta umiltà e grande lezione di stile: un esempio per i più giovani. A proposito di giovani: Brie Larson e Alicia Vikander le due miglior attrici, rispettivamente protagonista per ‘Room’ (Thriller esistenziale claustrofobico) e non protagonista per il bellissimo ‘The Danish Girl’ della Universal (nuovo volto di Louis Vuitton per la primavera-estate 2016) hanno strappato i riconoscimenti contesi da Charlotte Rampling e Cate Blanchett, due veterane del grande schermo che si sono viste soffiare l’Oscar sotto il naso. Teodora Film che ha distribuito ‘Il figlio di Saùl’ di Làzlo Némes è tornata a casa con una bella soddisfazione: un film che è un pugno nello stomaco sull’Olocausto si è aggiudicato l’oscar come miglior film straniero. Elegantissimo il vincitore, in smoking Ermenegildo Zegna. Due le statuette meritatissime che ‘Il caso Spotlight’ si è aggiudicato in questa grande notte del cinema a cinque stelle: miglior film e migliore sceneggiatura originale per la gioia della casa di distribuzione la Bim Film. Un film di spessore che riporta sotto i riflettori l’omertà dell’alto clero di fronte a casi conclamati di abusi sessuali di preti pedofili su minori, da Boston al resto del mondo: un’inchiesta da premio Pulitzer del Boston Globe nel 2002 che con questa pellicola ha riacceso il dibattito su un tema ancora molto caldo non solo nella chiesa ovviamente. Grande vittoria fra i film d’animazione per Inside Out, intelligente, lucido e poetico, dedicato a grandi e piccini, un bel vademecum sui sentimenti e sulla loro formazione. Delusione per Stallone accompagnato al galà di Los Angeles dalla bellissima compagna Jennifer Flavin: stavolta c’era quasi a mettere le mani sulla dorata statuetta giacché era uno dei favoriti per l’oscar come attore non protagonista. Da segnalare il duo dei divi in erba, Jacob Tremblay di ‘Room’ e Abraham Attah di ‘Beasts of no nations’ e la performance ‘impegnata’ della carismatica Lady Gaga che ha cantato una canzone dedicata alla denuncia delle violenze sessuali nei campus universitari.
Fra le più eleganti: Jennifer Garner in ‘Atelier Versace’, Cate Blanchett in un sublime Armani Privè floreale brodé, Naomi Watts in un fourreau Armani Privé Blu zaffiro, Julianne Moore e Daisy Ridley magnifiche in Chanel, Olivia Wilde e Sunrise Ruffalo in Valentino, il primo bianco e il secondo nero come la notte, ad accompagnare lo smoking bluette super cool sempre firmato Valentino sfoggiato dal marito Mark Ruffalo, candidato all’Oscar come miglior attore non protagonista per ‘Il caso Spotlight’. Perché si sa: la notte degli Academy Awards alla fine è una grande kermesse di moda e stardom con la S maiuscola.

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