Con la collezione FW 21/22 Luca Larenza coniuga innovazione e sostenibilità, restaurando i telai del Real Belvedere di San Leucio

Complice anche la pandemia di Covid-19, la cura del proprio sé interiore è (ri)diventata una priorità generalizzata, e l’obiettivo sembra essere adesso raggiungere una sorta di stato di grazia, di contemplazione spirituale; in tutto ciò, la moda può essere capace di esprimere icasticamente un proposito tanto ambizioso. Ne è una prova l’ultima collezione del designer Luca Larenza per la stagione Fall-Winter 2021/22, in cui la vita al di fuori delle grandi metropoli, all’insegna di buone letture e dell’immersione totale, quasi religiosa, nella natura assurge al ruolo di nuovo modello esistenziale.
Quello proposto dall’omonimo brand è uno stile che indulge nel gusto nostalgico per l’arte classica, nella voglia di perdersi nei propri pensieri superando limiti e angustie della contemporaneità, e segna il ritorno a un passato caratterizzato da principi e pratiche ormai quasi scomparse.

In parallelo alle proposte per il prossimo Autunno/Inverno, Larenza presenta un progetto di resposabilità sociale, che l’ha visto collaborare con la regione Campania per il recupero degli antichi telai del Real Belvedere di San Leucio, nella provincia di Caserta, un complesso edificato a partire dal 1779 per volontà del re Ferdinando IV di Borbone.

Larenza stesso ci ha raccontato : ” Come ho anticipato via Instagram, ho creato una connessione con la regione Campania dando vita ad un progetto di Social Responsibility per ridare valore ad un luogo, sinonimo di eccellenza nel mondo. Lo storico sito nasce nel 1779 dal sogno di Re Ferdinando di dar vita ad una comunità autonoma, fondata sulla produzione di pregiatissima seta, famosa in tutto il mondo per la sua raffinatezza ed eleganza. Il complesso monumentale racchiude tra le sue numerose stanze un piccolo gioiello di archeologia industriale, un’ampia sala con telai in legno per la produzione e lavorazione della seta perfettamente funzionanti. In accordi con le sedi delle Belle Arti, ho quindi preso parte al restauro dei prestigiosi telai e i lavori, iniziati i primi di dicembre, si sono conclusi durante i primi giorni del 2021″.



A fare da sfondo (altamente scenografico) agli outfit della collezione FW 2021/22, contraddistinti da volumi languidi e nuance calde, è dunque proprio il sito oggi patrimonio dell’Unesco.
I giovani pensatori del marchio sfoggiano morbidi suit effetto macchiato in velluto maltinto, declinati nelle sfumature del beige e blu; il motivo “macchiato” viene tradotto anche sulla maglieria in tessuto merino extrafine, ricorrendo alla tecnica jacquard. Ritroviamo la stessa, soffice varietà di lana nei cardigan a punti alternati e a coste larghe, proposti in cromie che spaziano dal senape al bianco latte al blu navy, mentre i pull di dimensioni maxi, vivacizzati da grafismi mutlicolor a mo’ di pixel e lavorati a jacquard, presentano colli “importanti” e trecce in rilievo sulla texture.

Per quanto riguarda i capispalla, spiccano i voluminosi cappotti checked in lana e alpaca, con maniche raglan, e gli overcoat doppiopetto con cintura d’impronta homewear, ampi e confortevoli come una vestaglia. Tra gli accessori, bisogna menzionare i cappelli modello beanie in alpaca bottonata, color panna o caratterizzati dalle striature tipiche del mouliné, e le sciarpe extra long in diverse tonalità di arancio e azzurro, percorse da righe.

Va rimarcata, infine, la citata partnership con la Regione e le sedi delle Belle Arti, volta a restaurare e donare nuova vita agli storici telai del Museo della Seta del Belvedere di San Leucio; una declinazione inedita e sorprendente del concetto di sostenibilità, in cui quest’ultima si lega alla valorizzazione di una tradizione di grande valore storico-culturale, oltre che artigianale.




La camicia hawaiana è il must dell’estate 2021 (Beckham docet)

Un paio di settimane fa Maserati ha rilasciato un filmato che vede David Beckham – novello global ambassador del Tridente – sgommare a bordo di un Suv Levante Trofeo. A fare notizia però, più delle prodezze al volante, è stata la camicia hawaiana di Saint Laurent esibita da Beck, uno sfavillio di fregi tropicali nelle sfumature del rosso, azzurro e bianco su base nera.
Un pezzo con tutti i crismi della categoria aloha shirt, lasciato aperto sulla t-shirt e accompagnato da ampi pantaloni neri; considerato il gradiente di coolness dell’asso del calcio inglese, c’è da scommettere che diventerà un must-have del menswear primavera/estate 2021.

Beckham, tra l’altro, va ad aggiungersi a una schiera di estimatori di prim’ordine avvistati recentemente con indumenti in stile Hawaii, da Justin Bieber a Cara Delevingne, dalla blusa vitaminica di Celine indossata da Rihanna per una capatina al supermercato a quella in tinte neon con cui Bill Murray si è collegato alla cerimonia (virtuale) dei Golden Globe 2021.



Questa plausibile, inattesa centralità della hawaiian shirt, che evoca in genere istantanee ben poco glam (signori attempati ritiratisi a svernare in Florida, commedie ambientate in location idilliache, freak che manifestano a mezzo camicia la volontà di non prendersi mai sul serio, ecc.) causerà probabilmente parecchie alzate di sopracciglio, ma a ben guardare si è insinuata da tempo nel reame dello stilisticamente corretto – o perlomeno accettabile, ricomparendo a fasi alterne nelle tendenze di stagione.

Dopotutto, le grafiche palpitanti che la caratterizzano (fiori di ibiscus, piante esotiche e altri motivi jungle) accendono l’immaginazione e forniscono alla mise un boost non indifferente di colore, utile a spezzare la monotonia di tute e simili tenute casalinghe, senza contare che questa è la stagione in cui, si spera, riusciremo finalmente a sbarazzarci del virus mortifero, trasferendo magari anche sugli abiti una sensazione di ritrovata vitalità.

Per inquadrare al meglio la camicia hawaiana sono necessari alcuni cenni storici: sebbene non vi sia una data precisa, l’origine è da ricercarsi sicuramente nell’arcipelago del Pacifico, un’oasi di multiculturalità dove, nei primi decenni del Novecento, convivono già immigrati portoghesi, cinesi, giapponesi e del Sud-Est asiatico, con ciascuna etnia che contribuisce a codificarne le caratteristiche; il risultato finale, infatti, è un incrocio tra la foggia della palaka indossata dai lavoratori delle piantagioni, la stoffa crêpe dei kimono e i colori appariscenti del tradizionale kapa degli isolani, da portare come il barong tagalog filippino, una camiciola trasparente tenuta fuori dai pantaloni.
Le fattezze del capo, da allora, sono rimaste pressoché invariate: il taglio è ampio e squadrato, le consistenze ridotte al minimo sindacale grazie all’impiego di tessuti quali seta, mussola, lino o viscosa, le maniche invariabilmente corte, le punte del colletto ripiegate e distese. In buona sostanza, un indumento ad alta riconoscibilità, specie per quei visitatori che, a partire dagli anni ‘20, giungono alle Hawaii e prendono ad acquistarlo come souvenir di viaggio. In breve la richiesta si impenna, di conseguenza aumentano a dismisura le imprese locali dedite a confezionarlo, compresa quella di un tal Ellery Chun che nel 1936 registra il marchio ‘aloha shirt’ (l’altro nome con cui è conosciuto).


Nel ventennio successivo alla fine del secondo conflitto mondiale, con centinaia di migliaia di turisti che affluiscono nelle spiagge dello stato americano, la camicia hawaiana conosce il suo periodo di massima popolarità, guadagnandosi addirittura la copertina della rivista Life, che nel dicembre ‘51 mette in prima pagina il presidente Harry Truman con addosso una candida versione floreale. Per favorirne la diffusione anche al di fuori dei contesti vacanzieri, la Hawaiian Fashion Guilde nel ‘66 si inventa perfino l’Aloha Friday, antesignano della prassi ormai consolidata del look informale per il venerdì in ufficio.
Sono tuttavia film e serie tv a scolpirne il profilo nell’immaginario collettivo del tempo: il catalogo di celebrità apparse sul grande e piccolo schermo in camicia hawaiana è sterminato, si va dai divi dell’età dell’oro di Hollywood, come Frank Sinatra in ‘Da qui all’eternità’ (1953) o Elvis Presley in ‘Blue Hawaii’ (1961) al Johnny Depp sotto acidi di ‘Paura e delirio a Las Vegas’ (1998), dall’eroe romantico per eccellenza (Romeo/Leonardo DiCaprio nell’adattamento firmato Baz Luhrmann della tragedia shakespeariana) a Tom Selleck, aka il detective godereccio del telefilm ‘Magnum P.I.’, non a caso di stanza a Honolulu.

In tutto questo la moda non tarda a fornire le sue varianti sul tema Hawaii shirt, cogliendone le potenzialità di alternativa civettuola alla schematicità insita in buona parte dell’abbigliamento maschile, e indulge volentieri in cromatismi pop, stampe fantasmagoriche e texture impalpabili.



Tornando alla P/E 2021, designer e brand sembrano orientati a recuperare l’originaria vocazione leisure della camicia, con superfici adorne di grafiche tropicaleggianti e forme fluide come non mai. È d’obbligo partire dal citato modello di Beckham targato Saint Laurent, parte della collezione estiva della maison. Il direttore creativo di Casablanca Charaf Tajer, invece, fa tesoro del lockdown passato a Maui, traslando sulle blusa i paesaggi celestiali dell’isola, tra palmizi, onde e dune di sabbia in tonalità lisergiche.
Pierpaolo Piccioli, chez Valentino, ricorre ai fiori per trasmettere l’idea di una mascolinità radicalmente romantica, dispiegando sulla seta color lavanda il motivo Flying Flowers; peraltro sono diversi gli stilisti che subiscono il fascino dei print fiorati: Paul Smith, per esempio, piazza sul twill celeste del camiciotto, provvisto di tasche frontali, rose di un giallo intenso; Jun Takahashi di Undercover opta per veri e propri bouquet nei toni del rosso e arancio, Pierre Mahéo (Officine Générale) per ramages stilizzati su fondo bianco, mentre il modello disegnato da Saif Bakir ed Emma Hedlund (CMMN SWDN) brulica di foglie e infiorescenze in nuance bruciate; e ancora, Davide Marello di Davi Paris diluisce a mo’ di acquerello i contorni dei fiori riprodotti al centro della camicia.

Altrove, le fantasie sono se possibile ancora più sfolgoranti: è il caso di Versace, che riedita sulle camicie hawaiane flora e fauna marina della stampa d’archivio Trésor de la Mer, in un’esplosione di cromie brillanti, oppure di Dries Van Noten, che traduce su tessuto la psichedelia pittorica dell’artista Len Lye, o ancora dei pattern-cartolina della shirt di Amiri.



Con una tale abbondanza di esempi, per adeguarsi al trend è sufficiente scandagliare i negozi, fisici o virtuali che siano, alla ricerca dei pezzi sopramenzionati, scegliendo tra un ventaglio di proposte che include modelli griffati Valentino, Casablanca, Dries Van Noten, Saint Laurent, Paul Smith, Officine Générale e CMMN SWDN. Alla lista si potrebbero poi aggiungere la camicia hawaiana in misto cotone e seta di YMC, densa di coloratissimi disegni floreali, quella di NN07, vivacizzata da pennellate bianche e blu, e infine quella di Prada dai toni poudré, un florilegio di petali, steli e boccioli.
Tutto sommato, se a causa della pandemia perdurante non sarà possibile nemmeno quest’estate raggiungere località turistiche più o meno ambite, basterà indossare la camicia “giusta” per sentirsi in vacanza. 

Cynthia knitwear, il brand nato sui social network

La mano esperta della tradizione e la tendenza dei new media; la madre, Cinzia, una grande passione per l’uncinetto e i ferri; la figlia, la freschezza dei nuovi mezzi di comunicazione. Nasce da questa sinergia, quasi per gioco, il brand Cynthia knitwear, accessori unici che legano la classicità e il calore della tradizione al dinamismo e colore delle nuove tendenze.

Cappellini multicolor, borsette ai ferri impreziosite da catene gold, gli accessori Cynthia knitwear sono perfetti per la stagione estiva o per creare personalità ad un look urban chic.

– Come nasce il brand Cynthia knitwear?

Sono stata ispirata a Gallipoli 4 anni fa da un costume all’uncinetto bianco indossato da una ragazza in spiaggia. Da lì, ho iniziato a cercare ispirazione anche su Pinterest, Instagram e Internet in generale per cominciare a realizzare i miei primi prodotti, che erano prevalentemente bikini e crop top all’uncinetto. Ho aperto quindi la pagina instagram per iniziare a dare visibilità e promuovere i miei prodotti.


– Perchè ha scelto la lavorazione a uncinetto?

Lavoro all’uncinetto e ai ferri da quando ero bambina. La mia maestra è stata la mia mamma, magliaia di professione.
Ho iniziato confezionando vari abiti per le bambole, e confezionando  maglie con punti più complicati. 
Continuo a coltivare questa mia passione per l’uncinetto perché permette di realizzare capi di abbigliamento ed accessori di ogni tipologia e colore. 


  – Quali sono i pezzi iconici Cynthia knitwear?

Bikini multicolor/rainbow, borsa a rete panna, cappellini da pescatore multicolor in cotone.


– Chi produce i capi? 

Sono tutti pezzi unici prodotti da me, completamente fatti a mano, con la grande possibilità di realizzarli su misura, dietro commissione, a seconda del gusto, colore, dimensione.


– Quali altri prodotti andranno ad integrare la collezione in futuro?

Sono ispirata dalle borse quindi ci saranno delle novità in futuro ed i cappellini realizzati in cotone per il periodo estivo li realizzerò anche in lana per l’inverno. Inoltre, farò qualcosa anche per i nostri amici animali.



Da dove trae ispirazione?


I canali dove faccio ricerca sono prevalentemente Pinterest, Instagram e Internet, ma anche i brand di alta moda come D&G – Prada – Chloé.


  – A chi sono destinati i prodotti Cynthia knitwear?

Sono destinati ad un target femminile di ogni età, ad eccezione dei cappellini che sono più maschili.
Produco pezzi personalizzabili essendo capi unici, quindi il cliente stesso può scegliere il modello e modificarne i colori e le dimensioni in base ai propri gusti.


– Dove poterli acquistare?

Sono acquistabili attraverso i canali social 

Instagram
https://www.instagram.com/cynthiaknitwear/?hl=en
Facebook 
https://www.facebook.com/cynthiaknitwear
Vinted
https://www.vinted.fr/member/58066783-cynthiaknitwear0

Chi è Teddy Santis, il nuovo direttore creativo di New Balance che vuole cambiare lo streetwear

Lo scorso 5 aprile New Balance ha annunciato la nomina di Teddy Santis al timone creativo della linea Made in USA.La notizia equivale a un sigillo sull’annata 2020, rivelatasi eccezionalmente positiva per la società che si è piazzata quarta nell’annuale Current Culture Index di StockX, report che fotografa al meglio lo stato dell’arte del mondo street. Il merito di questo exploit è da ascrivere anche al neodirettore artistico, che ha collaborato varie volte con NB, infondendo un appeal per certi versi scanzonato, ma convincente, nelle calzature più emblematiche della label.



Santis non è certo un neofita del fashion system, in cui è entrato ufficialmente nel 2014 con il brand Aimé Leon Dore e da allora, pur mantenendo l’alone di outsider allergico al presenzialismo e alquanto complicato da inquadrare nelle categorie abituali (streetwear, lusso, high-end et similia), continua a mietere consensi di critica e (soprattutto) commerciali.

Newyorchese doc, nato e cresciuto nel Queens, è in effetti un designer atipico, dal curriculum privo della consueta trafila di fashion school e griffe blasonate, e si avvicina quasi casualmente alla moda, attratto dalla prospettiva di farne il connettore delle sue tante passioni ed esperienze, dai brani rap e hip hop che hanno cadenzato gli anni ‘90 (Tupac, Nas, Moob Deep ecc.) ai campetti da basket del borough, dall’eleganza old school della buona borghesia cittadina, codificata nelle collezioni di marchi come Ralph Lauren, Brooks Brothers e Gant, al culto per lo sportswear coevo e relative icone, Michael Jordan über alles.

Alla fine dei Duemila, Santis lavora nella tavola calda dei genitori nell’Upper East Side, a rischio chiusura per la costruzione di una linea metro; valuta quindi il proverbiale piano B, concretizzandolo nell’impiego in un negozio di occhiali dove gestisce la parte marketing, e alcuni clienti, apprezzandone le doti creative, lo incoraggiano a provare con l’abbigliamento. Nel 2010 comincia così a familiarizzare con l’idea di un suo brand, in cui trasferire i suddetti interessi e declinarli in capi dalle vibe metropolitane, che puntino sulla pulizia di linee e volumi, una sorta di casualwear racé. Procede per tentativi ed aggiustamenti graduali, evitando da subito la tentazione (comune alla quasi totalità delle etichette street che, contemporaneamente, assurgono alla notorietà globale) di sfornare ad libitum magliette, hoodie, tute & co, concentrandosi piuttosto sulla definizione di un’estetica riconoscibile, precisa nella costruzione eppure variegata come la città da cui trae linfa vitale, New York.



Quattro anni dopo il marchio viene registrato come Aimé Leon Dore, unendo l’equivalente francese di “amato”, il soprannome del padre di Santis e le quattro lettere finali del suo nome di battesimo, Theodore. Viene aperto anche un pop-up a NoLiTa, vivace quartiere incastonato tra East e West Village, che finisce con l’essere uno store a tutti gli effetti.

ALD – come viene generalmente indicato – inizia a farsi la reputazione di risposta newyorchese ad A.P.C. (label che dimostra come, nella moda, si possa rimanere rilevanti pur rifuggendone i ritmi forsennati e la ricerca esasperata della novità): il suo è uno streetwear in salsa preppy (o viceversa), che tiene insieme i key pieces dello stile college (camicie Oxford, chinos, polo a righe, cardigan e compagnia bella) e quei capi sportivi – dalla felpa alla tracksuit, dallo smanicato al bomber – ormai dogmatici nel menswear.
Santis mette infatti sullo stesso piano realtà (all’apparenza) antitetiche, citando Ralph Lauren come Nom de Guerre, un collettivo che i bene informati sostengono abbia, di fatto, inventato lo streetwear.



Le collezioni dei primi due anni puntellano quella crasi tra athleisure e tailoring che diventerà la specificità della griffe, tra overcoat piazzati sui pantaloni in felpa e fleece jacket nobilitate dal cappotto spigato, intervallando il tutto con capsule in coppia con l’amico Ronnie Fieg di Kith (altro nome in rapidissima ascesa nell’industria fashion) e una prima co-lab di spessore nella S/S 2015 con Puma, in cui le sneakers States vengono aggiornate e colorante di nuance ricorrenti nella palette di ALD, ossia crema, ghiaccio e burgundy.

A partire dalla F/W 2016, alle proposte più sensibili a gusti e umori del pubblico viene affiancata la linea Uniform Program, che raccoglie evergreen quali t-shirt, maglie girocollo, jeans e sweatpants, tendenzialmente monocromatici e dalle tonalità sobrie (blu navy, verde militare, bianco ecc.).

Le collaborazioni, nell’ottica di ALD, non sono uno stratagemma per ottenere profitti e visibilità nel minor tempo possibile, bensì un’opportunità da perseguire solo nel caso in cui si intraveda un reale valore aggiunto. Sotto questo aspetto, con quelle del biennio 2017-18 si registra uno scarto nell’evoluzione stilistica del brand, che dapprima realizza modelli in lana e pelo di cammello degli inconfondibili cappellini New Era con le iniziali intrecciate dei New York Yankees, poi fa squadra con un’istituzione dell’outerwear come Woolrich (sbizzarrendosi con parka abbreviati a mo’ di blouson, gilet in pile zeppi di tasche e puffer jacket a maniche corte), quindi rilegge i classici boots Timberland, trasformandoli in scarponcini bicolor con punta squadrata, stringhe laterali e lacci che abbracciano il collo della scarpa.
A queste partnership verrà dato impulso con ulteriori edizioni limitate, tra boat shoes in pelle pregiata (nel caso di Timberland) e duvet in velluto millerighe, giubbotti dalle cromie sgargianti, camicie e pantaloni attraversati da trapuntature ondulate, piumini color block (in quello di Woolrich). In seguito verranno siglate nuove collaborazioni con Paraboot, Drake’s (una collezione che esalta il côté sartoriale del marchio) e Porsche, per cui Santis customizza la leggendaria coupé 911 Carrera 4, con annessa capsule di capi e accessori coordinati.



Nel 2019 ALD inaugura il nuovo flagship di Mulberry Street, tutto modanature, legno e parquet, ma soprattutto vengono presentate le runner New Balance 997, rinvigorite da sprazzi di colore pop, che danno il la al sodalizio creativo di cui sopra: l’azienda affida infatti al marchio l’upgrade di altre trainers d’archivio, dalle 990v2 e v5 (le dad shoes par excellence, qui giocate sulla giustapposizione di materiali e pannelli differenti) alle P550, sneakers dichiaratamente nostalgiche, che sembrano uscite da un match Nba degli eighties. Ogni uscita è accompagnata da campagne pubblicitarie d’antan, con fondale neutro e slogan sardonici, i cui protagonisti sono modelli “improvvisati” epperò cool: signori agée impeccabili nella tenuta d’ordinanza ALD, eccentrici locals, giocatori amatoriali di basket.

L’intesa tra la griffe e New Balance è in tutta evidenza proficua, e adesso viene coronata dalla direzione creativa dello stesso Santis; chissà che, anche grazie al nuovo incarico, il fondatore di Aimé Leon Dore non riesca a promuovere una diversa concezione dello streetwear, che anteponga la qualità alla quantità e si liberi dell’ossessione per l’hype. 

Colori pastello uomo: cosa indossare in primavera

Un po’ di leggerezza nel guardaroba della prossima stagione, che ci fa dimenticare (o almeno ci prova) i toni cupi che abbiamo portato negli ultimi mesi.

In piena primavera, anche gli irriducibili del look total black dovranno cedere a colori pastello e con un tocco più pop, concedendosi almeno accenti di arancio, rosa, blu o salvia, oltre a giallo e grigio ( nuance proclamate da Pantone colori dell’anno). Nelle gallery alcune delle nostre proposte…

MCS
CDLP
Pence 1979
Piacenza Cashmere
Think Pink
Canali 1934

SWORD
Canada Goose

Personal Parade
Berwich
Re-HasH
RED
Jail Jam

“THE ALBUM”, DIARIO DI VIAGGIO DI MYTHERESA

MYTHERESA, il rivenditore online di lusso, lancia “The Album”, il libro dei sogni con i designer più rappresentativiUn diario di viaggio che ci porta nelle case dei designer più noti, l’incontro ravvicinato con una moda più vera e più forte. 


MYTHERESA, il rivenditore online di lusso, lancia “The Album”, il libro dei sogni con i designer più rappresentativi
Un diario di viaggio che ci porta nelle case dei designer più noti, l’incontro ravvicinato con una moda più vera e più forte. 

Si dice “Non tutto il male viene per nuocere” e forse questa maledetta pandemia ci ha fatto scendere un po’ tutti dal piedistallo. Ci ha umanizzati, ci ha fatto capire che la vita è un soffio, oggi la abitiamo e domani chissà; ci ha uniti nonostante le distanze, ci ha fatto riscoprire i veri affetti e i nostri più sinceri bisogni. E allora forse ricorderemo questo momento di vita come un dono prezioso, per chi ce l’ha fatta, per chi è riuscito a cambiare e per chi ha finalmente dato un senso alla propria esistenza. 

E’ l’impegno e l’attitudine che ha messo anche Mytheresa, il rivenditore online di lusso, realizzando un libro in cui anche le star scendono a noi dal cielo, si mettono in cucina e impastano anche loro, come hanno fatto Donatella Versace, Silvia Fendi, Gabriela Hearst, Olivier Rousteing, Lucie & Luke Meier. Ma sempre con grande eleganza, rivisitando i loro piatti preferiti grazie allo chef tristellato Pascal Barbot.

In “The Album” di Mytheresa vediamo i designer giocare con le loro famiglie negli spazi delle loro case, dove il motto è less is more, complice questa voglia di ritorno alla semplicità, all’unicità delle cose. Anche loro sognano di poter viaggiare presto, per tornare ai voli ispirazionali, alle scoperte di nuove culture, che sono poi il frutto delle grandi collezioni che raccoglie Mytheresa. 

Della sua Trivero, Alessandro Sartori evoca i paesaggi e omaggia le montagne, le valli, la campagna che hanno contrassegnato la visione del suo lavoro per Ermenegildo Zegna, di cui è direttore artistico. 

The Album” rimane un libro di grande stile, che racconta la moda nel modo più poetico e con una forza forse più profonda, cercando di mettere in luce il lavoro dei designer nonostante i limiti e le difficoltà del fashion world. I saggi che accompagnano queste meravigliose immagini sono degli scrittori Michael Hainey, Gabrielle Hamilton, Lola Ogunnaike e Carvel Wallace; le modelle dei paesaggi mozzafiato di Agave e Portogallo sono Marthe Achilles, Joaquim Arnell e Gloria Brefo. 

Diari di viaggio dove gli accessori di moda si mimetizzano come camaleonti, diventano un tutt’uno con la natura, si adeguano, come fa l’uomo per la sopravvivenza. 

E’ un viaggio intorno al mondo che racconta i più grandi rappresentanti di Mytheresa, una moda di lusso, con un cuore grande.

Il quinto numero di “The Album” con tema “Dream” uscirà oggi 16 aprile e sarà distribuito esclusivamente ai più stretti sostenitori di Mytheresa.

I costumi deluxe di Vilebrequin: un successo lungo 50 anni

L’ambizione di elevare lo swimwear a status symbol, al pari di orologi, scarpe e altri capi/accessori; i puntuali richiami a una località che è l’epicentro del bien vivre nella Costa Azzurra; lo stile connaturato appunto alla riviera francese, chic pur mantenendo quel je ne sais quoi sacro per i cugini d’Oltralpe; la qualità ineccepibile, conditio sine qua non di ogni luxury brand degno di tale nome; un senso del colore che sfocia puntualmente nel caleidoscopio di nuance, arzigogoli e pattern caratteristico delle collezioni. Sono questi, in breve, i punti salienti della storia di Vilebrequin, griffe di costumi da bagno di alta gamma che taglia proprio in questi giorni il traguardo del mezzo secolo, celebrato con una capsule collection composta di 50 pezzi, uno per ogni anno di attività, che passa in rassegna le peculiarità grafiche delle varie decadi, dalle fantasie stroboscopiche degli anni Settanta al bestiario a tinte fluo degli Zero, con le texture invase da polpi, fenicotteri, tartarughe e pesci.



Di proprietà dal 2012 della società statunitense G-III Apparel Group, la label conta oggi su un network di quasi 200 boutique sparse in 60 paesi, la maggior parte delle quali in ambite mete balneari, da Honolulu a Saint Barth alle nostrane Capri, Portofino e Forte dei Marmi, e nel tempo ha affiancato ai costumi linee di abbigliamento (da spiaggia, perlopiù), calzature, occhiali e accessori, anche femminili e da bambino. A livello di suggestioni, cromie e rimandi più o meno espliciti, tutto sembra però convergere ancora verso il luogo dove Vilebrequin è nato esattamente cinquant’anni or sono, Saint-Tropez.
Nel 1971, infatti, complice soprattutto il successo strepitoso del film ‘Et Dieu créa la femme’ con Brigitte Bardot (subito innalzata al rango di divinità protettrice e, più prosaicamente, rimasta un’assidua frequentatrice) la cittadina nel sud della Francia si è già trasformata nel centro propulsore della mondanità rivierasca, affollato di attori, star della musica, aristocratici e capitani d’industria, da Mick e Bianca Jagger (convolati a nozze proprio quell’anno nel municipio locale) a Jack Nicholson, da Romy Schneider a Gianni Agnelli.

È proprio osservando gli avventori delle spiagge di Saint-Trop (come l’hanno soprannominata gli “iniziati”) che a Fred Prysquel, giornalista dall’animo bohémien con un debole per automobili e gare di Formula 1, viene l’idea di realizzare un costume che si differenzi da quelli aderenti e sgambati in voga nei seventies: prende a modello i bermuda prediletti dai surfisti e li accorcia a metà coscia, cucendoli con il tessuto usato nelle vele degli yacht, ottenendo un boxer rapido ad asciugarsi, comodo e originale.
I briefs, inoltre, saltano subito all’occhio grazie alle fantasie variopinte, ispirate ai decori wax della tradizione africana. Pare ad ogni modo che Prysquel volesse farsi notare innanzitutto dalla futura moglie Yvette, obiettivo effettivamente centrato, e lei rimane colpita a tal punto da quei costumi eclettici da venderli nel suo negozio, anche per soddisfare la richiesta degli habitué dei lidi tropeziani, che comincia a farsi pressante. In men che non si dica, viene depositato il marchio Vilebrequin, cioè “albero motore”, in ossequio alla passione del fondatore per le auto da corsa.


I coniugi Prysquel resteranno al timone fino al 1990, quando Vilebrequin viene ceduto e acquisito, due anni dopo, dall’imprenditore Loïc Berthet, che prosegue nel solco tracciato dai fondatori, apportando alcune migliorie al pantaloncino primigenio, rinominato Moorea (come il famoso lido di Saint-Tropez), e lanciando la formula père-fils, ovvero costumi pressoché identici per padre e figlio, che si rivelerà oltremodo azzeccata.
Le altre novità interessano principalmente forme e materiali, aggiornati per adeguarsi ai cambiamenti nelle preferenze e nel lifestyle della clientela, avendo sempre cura di preservare la pregevolezza che si confà a un capo di lusso, con prezzi compresi tra i circa 200 euro dei classici pantaloncini e i 450 delle edizioni limitate: l’originario tessuto mutuato dalla nautica viene perciò sostituito dalla poliammide, smerigliata per ottenere una mano particolarmente soffice; la lavorazione richiede 32 passaggi, diversi dei quali manuali (la confezione e posizionamento della tasca posteriore, l’inserimento dei cordini elastici, l’applicazione dell’etichetta con la scritta arcuata, irrinunciabile per ogni creazione del brand, ecc.); lo strato interno è privo di cuciture – per una migliore sensazione sulla pelle – e, come puntualizza l’attuale Ceo Roland Herlory, «bello quanto l’esterno».



Nel 2012, come detto, Vilebrequin viene rilevato da G-III, che spinge sull’espansione internazionale, moltiplica gli store e introduce nuove categorie per uomo e donna, un ideale corollario dello swimweartra t-shirt, bermuda, camicie di lino impalpabili, polo in nuance vitaminiche e magliette in fibre anti-UV. Al centro di tutto rimane però il costume maschile, e non potrebbe essere altrimenti visti i successi pluriennali nel settore, ma per dare nuovo slancio alla griffe arrivano le collaborazioni, ben ponderate e dosate col contagocce.
Il canale privilegiato è quello artistico, con gli autori coinvolti liberi di sbizzarrirsi sui boxer del marchio, dal fotografo Massimo Vitali (chiamato a istoriarli con panoramiche di litorali paradisiaci, spiagge gremite e scorci della Provenza) ai grafismi dal tratto pop di Alex Israel, per finire con uno dei più autorevoli esponenti dell’arte black, Derrick Adams, che rielabora i topoi della serie ‘Floater’, con i personaggi stilizzati a mollo su gonfiabili dai colori arcobaleno.

All’appello non mancano neppure alcuni designer dalla vena artsy: il primo della lista, nel 2017, è Karl Lagerfeld, per una limited edition a tema beachwear ravvivata da pennellate digradanti di bianco e blu; nel 2019 è il turno di Jean-Charles de Castelbajac, che stende su costumi e camicie hawaiane campiture in technicolor e illustrazioni naïf, e di uno specialista delle partnership come Virgil Abloh di Off-White, che mette in risalto gli stilemi che ne hanno decretato la fama planetaria (virgolette, strisce diagonali, tonalità “segnaletiche” di giallo e arancione).
Nel 2016, il brand si concede persino una capsule collection con i Rolling Stones, dispiegando sui briefs collage di copertine e artwork iconici della band, che del resto in quel fatidico ‘71 contribuì a cementare il mito della Côte d’Azur, vuoi per i citati trascorsi sentimentali del frontman, vuoi per i mesi di esilio (dorato) nella magione di Villefranche-sur-Mer.



L’ultimo, decisivo impegno di Vilebrequin è invece sul fronte della sostenibilità: oltre a supportare da anni l’associazione Te Mana o Te Moana, attiva nella salvaguardia delle tartarughe della Polinesia, sta implementando le pratiche virtuose sotto questo aspetto e il 62% della produzione impiega poliestere riciclato, tencel e altri filati green, una percentuale che la griffe dichiara di voler aumentare sempre di più, decisa evidentemente a tutelare quel patrimonio paesaggistico, naturale che è parte integrante della sua creatività da cinque decenni.

Le ultime novità digital di ROMAISON, tra approfondimenti sulla sartoria maschile e talk con lo stilista Romeo Gigli

Dalla metà del secolo scorso e per i successivi vent’anni, Roma è stata un crocevia di star del cinema, celebrità, artisti e intellettuali, sospesa tra la Dolce Vita e la Hollywood sul Tevere dei kolossal americani girati a Cinecittà.
A scrivere pagine considerevoli di quel capitolo straordinario, con ogni probabilità irripetibile nella storia della capitale d’Italia ha contribuito anche l’attività delle sartorie e laboratori di Costume romani; un unicuum pregno di collaborazioni, amicizie e sodalizi, possibile in effetti solo in un città come l’Urbe, dove le traiettorie del cinema, dell’arte e dello stile tendono a incrociarsi e saldarsi, in una commistione per certi versi caotica, eppure feconda. Il progetto ROMAISON intende mappare e valorizzare proprio l’operato di queste straordinarie realtà del Made in Italy, e il suo digital program si arricchisce ora di nuove iniziative.



Voluto e supportato al meglio dall’attuale amministrazione capitolina, ROMAISON si concentra sulla narrazione contemporanea di contenuti inediti volti a esplorare il patrimonio, materiale e immateriale, degli atelier, le cui storie hanno dell’incredibile e dove le tecniche artigianali procedono di pari passo con gli imprescindibili aggiornamenti tecnologici dettati dalla contemporaneità, senza dimenticare gli archivi – unici nel proprio genere – dei capi originali e le produzioni attuali. È così possibile tracciare nuove cordinate della storia del costume nell’ambito cinematografico e dello spettacolo, approfondendone inoltre la relazione con il settore della moda



Nelle prime due settimane di aprile, sui profili social @romaisonproject (Instagram e Facebook) i riflettori saranno puntati sulla costruzione, a livello vestimentario, del personaggio maschile, grazie ai podcast incentrati su due illustri insegne dell’alta sartoria romana, Litrico e Piattelli: la prima può vantare collaborazioni con registi della caratura di Fellini, Visconti, Monicelli, De Sica, Huston, Zeffirelli, Bertolucci, Scola e Petri, così come con diversi costumisti (Tosi, De Matteis, Coltellacci), e soprattutto ha instaurato veri e propri sodalizi artistici con attori d’eccezione, a cominciare da Marcello Mastroianni, per cui ha realizzato i costumi di scena per le pellicole ‘Casanova 70’ e ‘La decima vittima’, entrambe del 1965, arrivando a ideare decine di capi per ‘Le due vite di Mattia Pascal’ (1985) di Monicelli. La seconda, invece, ha firmato gli abiti di Bruno Cortona/Vittorio Gassman, l’istrionico protagonista del capolavoro di Dino Risi ‘Il sorpasso’ (1962).
 
A ripercorrere i fasti dell’omonima sartoria sarà nel podcast dedicato (disponibile dalle 12.30 di sabato 3 aprile) Luca Litrico, nipote del fondatore Angelo e attuale guida creativa della maison, un excursus affidato a immagini d’epoca, bozzetti originali e altri materiali d’archivio, per documentare le vicende dell’atelier fondato all’inizio degli anni ‘50 e diventato noto come “sartoria della Dolce Vita”, la prima ad aver realizzato una sfilata di moda maschile. Una storia avvincente, che si interseca con quelle del costume e della settima arte, scandita dal rapporto privilegiato con alcuni dei principali artisti, attori e personalità del periodo, dal già citato Mastroianni a Richard Burton, passando per John F. Kennedy, John Huston, Rossano Brazzi, Giacomo Manzù, Renato Guttuso e tanti altri.



La parabola della sartoria Piattelli, dagli esordi al successo internazionale ritmato da traguardi come la collaborazione con Burberry o l’apertura di corner in celebri department store quali Barneys e Liberty, sarà invece raccontata dallo stesso fondatore Bruno Piattelli, nel podcast programmato per mercoledì 14 alle 12.30.
Protagonista del menswear, nella sua lunga carriera ha collaborato con autori del calibro di Visconti, Zeffirelli e De Sica, vestendo sullo schermo numerosi attori, da Orson Wells a Gian Maria Volonté, da Nino Manfredi a Pierre Clémenti. A testimoniare la rilevanza del suo lavoro, è la presenza di creazioni Piattelli nelle collezioni del Metropolitan Museum di New York e del Victoria & Albert londinese.

Il palinsesto digitale di ROMAISON prevede poi, per giovedì 8 alle 18.30, un talk in diretta Instagram sul binomio moda e costume, sul rapporto di reciproco scambio e ispirazione tra i due ambiti, che vedrà protagonista il designer Romeo Gigli, una figura apicale della moda nostrana tra gli anni ‘80 e ‘90, quando rivoluzionò il look delle “sue” donne cosmopolite, eteree e fuori dal tempo, unendo ai raffinati riferimenti all’arte o a mondi lontani l’abilità nella sperimentazione di forme e materiali.
Tra i suoi ultimi progetti, la realizzazione nel 2017 dei costumi per il ‘Don Giovanni’ di Mozart, con progetto e scenografie a cura di Barnaba Fornasetti, presentato in Triennale a Milano e a Firenze nel contesto di Pitti Uomo, per i quali ha collaborato con alcune sartorie capitoline.

La formula vincente per lo streetwear ideata da Ronnie Fieg di Kith

Se lo streetwear si presenta oggi come un fenomeno di portata mondiale (il volume d’affari nel solo settore delle sneakers, secondo Cowen Equity Research, era pari nel 2019 a 100 miliardi di dollari) è anche grazie a personaggi che, in tempi non sospetti, hanno intravisto la possibilità di renderlo il vettore di un cambiamento epocale che ridefinisse i parametri della moda tutta, dalla concezione di esclusività al rapporto con le nuove generazioni, passando per il buzz mediatico, le modalità di vendita, i social ecc.
Personaggi tra i quali va annoverato di sicuro Aaron “Ronnie” Fieg, fondatore e guida creativa di Kith, insegna retail prediletta dai consumatori branché e label di abbigliamento urban tra le più quotate, soprattutto negli Stati Uniti.
38enne, newyorchese in purezza – è cresciuto nel Queens coltivando un’autentica ossessione per quelle che all’epoca venivano bollate ancora, forse semplicisticamente, come scarpe da ginnastica – Fieg è riuscito, nell’arco di un decennio (il primo negozio è stato aperto nel 2011), a lanciare la sua creatura nell’Olimpo della fashion industry, inanellando decine di collaborazioni con svariati brand, dai titani dello sport (vedi alla voce Nike o Adidas) alle griffe del lusso, dalla bevanda pop per eccellenza (Coca-Cola) ai nomi storici del casualwear, per finire con una novità che risale a qualche giorno fa. Il designer ha infatti avviato, in tandem con Clarks Originals, l’etichetta 8th Street, che intende posizionarsi a metà tra la souplesse delle celeberrime polacchine scamosciate e il footwear performante dei giorni nostri, e ha anticipato su Instagram il primo frutto della co-lab, Lockhill, una ginnica mid-top in pelle e suède con suola spessa di prammatica, che debutterà nel corso del mese insieme a un altro modello, denominato Sandford.



Come vuole l’epos squisitamente americano del self-made man, l’odierno asso della moda street è partito dal basso, ad essere precisi dal lavoro presso David Z., il negozio di calzature di suo cugino, dove entra appena 13enne come magazziniere per passare in men che non si dica al reparto vendite e diventare, infine, head buyer. Il retailer, tra l’altro, è frequentato da quelli che allora sono esordienti di belle speranze, artisti come Jay-Z, Tupac e i Wu-Tang Clan, e lui si ritrova, a 25 anni, a gestirne gli acquisti, interfacciandosi con fornitori quali Converse o Asics.
Proprio quest’ultimo, nel 2007, gli offre una chance che si rivelerà il punto di svolta della sua carriera: Fieg ha la possibilità di mettere mano alle GEL-Lyte III, scarpe da running tra le più famose e apprezzate del marchio giapponese, e gli regala un boost cromatico, tingendo la tomaia di nuance vibranti, dal giallo fluo al viola, e mescolandole in tre differenti combinazioni, con distribuzione limitata a 252 paia per ciascuna (da cui l’appellativo “252 Pack”); il numero risibile non è certo casuale, il creativo è convinto infatti che la scarsità del prodotto rappresenti la via maestra per titillare le fantasie dei fanatici della categoria, o sneakerhead che dir si voglia. Le calzature, tra l’altro, finiscono sulla copertina del Wall Street Journal, e a quel punto il sold out è scontato, e rapidissimo.



Quattro anni dopo, decide che è arrivato il momento di uno step ulteriore e stringe un accordo con il multimarca di New York Atrium, inaugurando sul retro uno store chiamato Kith. Il nome deriva da un’abbreviazione dello scozzese “kith and kin”, un’espressione arcaica traducibile grossomodo con “amici e famiglia”, ed effettivamente rende la volontà del proprietario di offrire ai clienti uno spazio dove sentirsi accolti e serviti al meglio, stipato di scarpe – ça va sans dire – firmate tra gli altri Nike, Puma, Timberland e Red Wing.
Fieg prosegue inoltre ad apporre la propria firma su ristrettissime capsule collection, ammaliando caterve di modaioli, disposti a sorbire file chilometriche pur di accaparrarsi la limited edition di turno, come avviene per le New Balance 574 Made in Usa, una manciata di modelli nei toni del rosso o verde bosco, disponibili esclusivamente all’evento di apertura del negozio di SoHo.
Quando l’anno seguente diversi clienti chiedono lumi sui pantaloni che indossa, personalizzati con zip ed elastici sul fondo, il designer sente di poter alzare ancora l’asticella e vara una linea di apparel incardinata sugli essenziali dello streetwear (capi svelti come felpe, tee, cargo pants, bomber, denim jacket e via dicendo), in cui sintetizza i propri tic stilistici, dalla predilezione per le cromie pastellate alla semplificazione di tagli e volumi.

Sopra ogni cosa, elabora una strategia perfetta per fidelizzare la clientela: se per catturarne l’attenzione le novità sono cadenzate dai drop (“rilasci” di articoli in quantità esigue), Fieg capisce infatti – parecchio in anticipo rispetto al dilagare del concetto di shopping esperenziale divenuto il mantra contemporaneo del retail – che gli avventori vanno appunto intrattenuti a 360 gradi, stimolati con location che siano accattivanti e uniche nel proprio genere.
Il rinnovamento dei punti vendita di Kith, a partire dal flagship di Brooklyn, viene perciò affidato allo studio Snarkitecture di Alex Mustonen e Daniel Arsham (l’artista che tramuta gli oggetti comuni in “reliquie del futuro” cristallizzate, pupillo del fashion system con all’attivo partnership con Dior, Uniqlo e Adidas), il cui interior design prevede ambienti ariosi, largo ricorso alle cromature e distese di sneakers Air Jordan, impilate a centinaia su colonne e pareti oppure appese al soffitto. In ogni store, inoltre, uno spazio è riservato al Kith Treats, un bar che vende cereali e snack, buona parte dei quali, tanto per cambiare, in edizione limitata.



Poi ci sono le collaborazioni, ovvio, una quantità industriale di progetti susseguitisi senza soluzione di continuità: c’è l’imbarazzo della scelta, si spazia dalle Nike Air Force 1 (lanciate nel 2020 e venerate dai collezionisti alla stregua del Sacro Graal), alle capsule con Coca-Cola, dove il font ondulato della multinazionale di Atlanta o il profilo della bottiglietta vengono sparpagliati su abiti e accessori, dalla “Off-Palette” a quattro mani con l’onnipresente Virgil Abloh di Off-White (una serie di hoodie, magliette e boots in tonalità poudré) alla Kith for BMW, per cui Fieg brandizza addirittura una berlina M4, in aggiunta a tute, maglieria e giubbini intarsiati di simboli e colorazioni caratteristiche della casa automobilistica.
Per non parlare del terzetto d’eccezione svelato nella sfilata Autunno/Inverno 2018-19, tre distinte co-lab con Tommy Hilfiger, Greg Lauren e Versace, che si alternano sulla passerella in un tripudio di outfit dall’allure anni ‘90 (Hilfiger), abiti patchwork consunti quanto basta (Lauren) e barocchismi sotto forma di stampe opulente riprodotte su cappelli, shorts, camicie sblusate, down jacket e sfavillanti tracksuit in velluto (Versace).

A febbraio ha invece aperto i battenti l’ultimo avamposto della griffe, il primo in Europa, situato nel centralissimo VIII arrondissement di Parigi. Una boutique di oltre 1500 metri quadrati zeppa, al solito, di trainers e limited edition assortite, il cui debutto è stato salutato dall’ennesima sneaker co-firmata da Nike, una Air Force fornita di swoosh tricolore nelle sfumature del rosso, bianco e blu in omaggio alla Francia. Dopo essersi imposto come attore di peso del panorama street d’oltreoceano, il vulcanico fondatore di Kith è dunque determinato a replicare la formula a base di collaborazioni a gogò anche nel Vecchio Continente.

Romano Reggiani: artista poliedrico tra recitazione, musica, regia e scrittura

Ph: Davide Musto

Stylist: Stefania Sciortino

Ass. Ph. Emiliano Bossoletti

Grooming: Vincenzo Parisi

Location: Mediterraneo al Maxxi

Location manager: Sonia Rondini

Total look: Dolce&Gabbana

Romano Reggiani è un artista dalle tante sfaccettature: bolognese 27enne, si è formato al Centro Sperimentale di Cinematografia romano per recitare poi in titoli di grande successo –1993, Mental, Una grande famiglia e tanti altri.
Appassionato di musica, nel 2019 ha pubblicato il primo album Time is a Time; nel suo futuro, oltre a nuovi titoli per cinema e tv, potrebbe esserci anche un romanzo.



Raccontaci il tuo percorso finora.

Mi definirei un artista il cui lavoro principale è quello dell’attore: ho iniziato a 18 anni per entrare poi, nel 2013, al Centro Sperimentale, da lì ho partecipato a produzioni che mi hanno fatto crescere molto, in tutti i sensi.
Sono appassionato di musica e suono da anni con la mia band, portando avanti diversi altri progetti personali.

Nel tuo curriculum figurano autori come Pupi Avati o Bobby Moresco, com’è stato lavorare con registi di tale spessore? Ci sono esperienze, ricordi dai set che vorresti condividere?

Quelli con Pupi Avati sono stati ruoli piccoli ma preziosi per crescere, tra quelli più rilevanti cito il personaggio di Una grande famiglia perché mi ha fatto conoscere, a seguire la serie 1993 dove ho interpretato il giovane Stefano Accorsi/Leonardo Notte; un’esperienza bellissima, da cui è nata anche un’amicizia con il regista Giuseppe Gagliardi.
Poi sono arrivati Vite in fuga, altri serial Rai, tutte esperienze significative in quanto occasioni di crescita.



Hai diretto tre cortometraggi, un’esperienza che vorresti ripetere?

Dei miei corti il più maturo credo sia L’addormentato nella valle, sul tema della memoria, uscito nel centenario della Grande Guerra e girato nei territori veneti delle battaglie. Riguardo la possibilità di realizzarne altri certamente, sto lavorando alla mia opera prima di cui sarò regista e attore, è una storia d’amore, del resto le adoro e titoli come la Before Trilogy di Richard Linklater rappresentano, per me, il cinema con la C maiuscola.

In Mental interpreti un ragazzo borderline tossicodipendente. Penso sia molto attuale una serie che affronta il tema del disturbo psichiatrico giovanile, vuoi parlarcene?

È stato un lavoro intenso quanto a dispendio di energie per tutto il cast, dovevamo interpretare ruoli problematici, è facile scadere nei cliché con certi argomenti, quindi abbiamo lavorato sulle singole sensibilità, riversando il nostro vissuto in dinamiche che non ci erano familiari.
Mental pone l’accento sulla verità dei sentimenti, la conoscenza della malattia è avvenuta a priori, poi ce ne siamo dimenticati per concentrarci sulle vicende dei personaggi, un percorso introspettivo davvero interessante. Ha rappresentato una sfida inedita, è un serial forte, moderno nel vero senso del termine, nonostante tutto sta andando bene sul web e arriverà una seconda stagione.



Nel 2019 è uscito il tuo primo album Time is a Time, che rapporto hai con la musica in generale?

La musica è una priorità assoluta, un fuoco che mi dà energia. Time is a Time è un progetto folk rock prodotto da Undergound Music Studio, risultato di un lungo tour con la band.

Tutto ciò che ho fatto finora è stato come un percorso di preparazione al primo disco in italiano Zattere, dove ho trasferito tutta l’energia, il mio modo di scrivere e dire le cose, al momento comunque non sono sicuro di se e quando uscirà. Volevo realizzare un disco cantautorale dallo stile libero, ispirato al sound americano anni 60-70 e a De Gregori, che almeno in Italia per me è il migliore, scrive come nessun altro e credo che la musica sia appunto testo, un’arte in funzione delle parole, delle immagini, della poesia.

Che rapporto hai con la moda, come ti approcci agli outfit dei personaggi?

In Mental ad esempio indossavo canottiere e pantaloncini orribili, abiti che penso fossero azzeccati per Michele; è stimolante riflettere su come l’abito faccia il personaggio, Giannini nelle lezioni al Centro spiegava, scherzando, come l’attore in fondo debba fare poco, “solo” sentire le cose, al resto pensano fotografia, regia e costumi. Certamente mi piacerebbe partecipare a un progetto in costume, il mio personaggio in 1993 viveva negli anni 70 e personalmente attingo molto da quello stile lì, Levi’s, jeans, pelle, scarpe All Star, Kickers, Dr. Martens…



Quali progetti hai per il futuro?

Le cose cui tengo di più, ad ora, sono la mia opera prima e un romanzo che spero di pubblicare presto.

Mattia Ferrari, il giovane eclettico art director

Amante della moda a 360 gradi, Mattia Ferrari è un Art director di fama internazionale, spesso immortalato con celebrità e star conosciute in tutto il mondo. Milanese di adozione, è determinato sin da subito a ritagliarsi un suo spazio nella giungla della moda ha fondato, all’età di 25 anni, una sua agenzia, Arnold Creative Communication, specializzata nei servizi di advertising, media communication e social media, riuscendo in diverse collaborazioni con importanti brand di lusso, quali Dior, Versace, Casadei e Bulgari. Lo abbiamo incontrato per scoprire tutti i retroscena.



Com’è nata la tua passione per la moda e che cosa significa “moda” per te oggi?

Più che passione, è un istinto che nasce dentro di me da quando ho iniziato a camminare! In realtà poi, con il passare degli anni, ho capito che non è “la moda” quello che mi appassiona, ma “il bello”: già in tenera età avevo una forte propensione per l’estetica; a cinque anni facevo i look a mia madre abbinando i capi e colori secondo quelli che erano i miei parametri di equilibrio estetico. Oggi la moda è uno strumento attraverso il quale esprimo la mia creatività. La moda vera è un po’ incomprensibile per me, di conseguenza la decodifico come meglio mi piace a seconda delle esigenze del brand.



Com’è stata segnata la moda dalla pandemia?

In questo periodo così negativo mi piace vedere il lato positivo e quindi un beneficio, seppur nella tragedia, dal quale questa industria ha potuto goderne: in realtà la pandemia ha aiutato a portare alla luce molti sprechi di questo settore, come brand che facevano 8 sfilate l’anno e negozi che mandavano in trasferta 10 buyer alla volta!

Hai fondato una tua agenzia creativa di comunicazione. Com’è nato il progetto? Ci dici qualcosa in particolare che la caratterizza?

L’agenzia nasce nel 2016. Arrivando da un’esperienza estera negli Stati Uniti, avevo il fuoco nel sangue: volevo fare mille cose, ma tutte nella sfera della moda! Ho iniziato, in maniera autodidatta a fare delle presentazioni a modo mio (oggi le guardo e rido)! Le mandai alle varie figure manageriali conosciute in giro per il mondo, fino quando Bulgari ha creduto in me affidandomi un grosso progetto orizzontale, che includeva le varie categorie merceologiche della maison.



Ricordo come fosse ieri il mio primo shooting: call time alle 7.30, il set si riempie di professionisti, io decisamente spaesato. Ad un certo punto arriva la modella, con il suo agente che esclama “chi è l’art director ?” Io continuo a fare il mio senza dare ascolto, mentre la make up artist viene da me e mi sussurra “chiedono di te”.  Da quel momento ho capito che titolo aveva il mio ruolo in quello shooting: ruolo che oggi è diventato la mia professione!

Oggi, cosa significa essere un Art Director? Che requisiti servono per farlo?

Oggi fare l’art director ti permette di essere molto eclettico, non è richiesta una preparazione verticale su un settore a scelta. L’art director io lo vedo come il responsabile dell’estetica di qualsiasi situazione: si deve assicurare che tutto sia visibilmente soddisfacente!



Dove ti vedi tra 10 anni?

Se me l’avessi chiesto 10 anni fa, forse, avrei disegnato più o meno il quadro che sto dipingendo oggi: quindi tra 10 anni mi vedo con alcune delle idee che ho ora, semplicemente realizzate! Mi piace visualizzare il futuro e poi renderlo realtà!

Grace Wales Bonner, giovane talento della moda brit che alterna sfilate, mostre e co-lab d’eccezione

È disponibile dal 26 marzo la collezione Adidas Originals by Wales Bonner, una selezione di abiti e accessori – in cui spiccano due sneakers storiche del brand tedesco, Samba e Nizza – di ovvia matrice sportiva, infusi però di note tailoring e vibrazioni cromatiche che rimandano alla scena dance giamaicana degli anni ‘80, tra volumi distesi, fit accoglienti e toni energici di giallo, rosso, verde smeraldo o viola. Ad unire sportswear e spigliatezza da discoteca antillana ha provveduto la designer Grace Wales Bonner, alla seconda capsule collection con il marchio del trifoglio dopo quella per l’Autunno/Inverno 2020.


Central Saint Martins BA Fashion Show 2014 in the West Handyside Canopy at King’s Cross

Questa 29enne londinese di ascendenze caraibiche (suo padre è un immigrato della cosiddetta generazione “windrush”) in una manciata di anni – sette per la precisione – è riuscita a emergere come una delle newcomer più talentuose e ponderatedella moda brit, convincendo uno stuolo di critici, buyer e insider del settore grazie a un singolare métissage di raffinatezza sartoriale, suggestioni artistiche e ispirazioni colte; le collezioni dell’omonima label includono infatti una molteplicità di riferimenti alla black culture, dal lavoro di figure seminali dell’arte afroamericana quali Jean-Michel Basquiat, Jacob Lawrence e Kerry James Marshall alle gesta dell’ultimo imperatore etiope Hailé Selassié, dal fervore che negli anni ‘20 caratterizzò il Rinascimento di Harlem alle riflessioni di scrittori neri come James Baldwin, Ben Okri o Ishmael Reed.

Una personalità sfaccettata, praticamente impossibile da incasellare in una categoria specifica, e in effetti lei stessa, all’inizio della carriera, ha dichiarato a Vogue di vedersi come un direttore creativo che prova a tenere insieme interessi variegati, dalla moda alla letteratura, alla musica. Il terreno d’elezione è il menswear perché, come rivelato in un’altra intervista, è convinta «di poterlo utilizzare come un contenitore in cui esplorare il mio heritage», colmo di possibilità da esplorare, e motiva il pallino della sartoria spiegando che «si può essere dirompenti anche restando all’interno di una cornice contraddistinta da regole e limiti».


WALES BONNER Fall Winter 2018 London Menswear Fashion Week Copyright Catwalking.com ‘One Time Only’ Publication Editorial Use Only

Nel 2009 Wales Bonner si iscrive quasi per capriccio alla Central Saint Martins, riverita scuola britannica che annovera tra i suoi ex allievi nomi dello spessore di Alexander McQueen, John Galliano, Kim Jones e Riccardo Tisci. Ne uscirà nel 2014 con una graduation collection dal titolo paradigmatico di ‘Afrique’, dove fantastica sul clash tra l’eleganza rigorosa dei tailleur alla Chanel e l’ornamentalismo di numerose tradizioni africane, che le vale il premio L’Oréal Professionnel Young Talent Award.
Nella successiva stagione A/I 2015 viene selezionata dalla piattaforma Fashion East e può così presentare, durante la settimana della moda di Londra, la collezione ‘Ebonics’, in cui fonde look dai tratti retrò (vita altissima, linee svasate, velluto dai riflessi cangianti, denim impunturato eccetera) e orpelli generalmente appannaggio del womenswear, tra gioielli vistosi, texture incrostate di Swarovski e bordure in conchiglie e cristalli. Una visione trasognata dell’abbigliamento maschile, che le consente tra l’altro di esporre le sue creazioni nella rassegna ‘Fashion in Motion’ del Victoria & Albert Museum.
A coronare la traiettoria ascendente arriva, a novembre, il riconoscimento come miglior designer emergente per l’uomo ai British Fashion Awards 2015.

Cominciano a delinearsi quei leitmotiv che finiranno con l’identificare il ready-to-wear della griffe: la sartorialità old school, edulcorata da forme suadenti e linee allungate; una certa leziosità, esemplificata da mise ingioiellate di tutto punto, tra brillanti, perline, charms, spille e fronzoli di vario genere; un quid intellettuale conferito dalle citazioni letterarie e artistiche, e frammisto a un senso di etereo romanticismo.
Il sincretismo estetico ritma quindi l’intera produzione di Wales Bonner, in cui si passa dalla collezione ‘Des Homme et Des Deux’ A/I 2018, a tema marinai creoli (concretizzato in proporzioni che vanno dilatandosi dall’alto al basso della silhouette, con capispalla smilzi e pantaloni fluenti, tessuti traboccanti di colore grazie alle stampe pittoriche, fodere con quadretti gingham) agli stilemi dell’abbigliamento cubano di metà Novecento in ‘Mambo’ (P/E 2020), una successione di sahariane, bluse guayabera, ampi colletti a punta, canotte a rete e superfici soffuse di fiori acquerellati, pois e minuscole ruches; per finire con la trilogia costituita dagli ultimi tre défilé, il cui filo conduttore è l’analisi dei possibili collegamenti culturali e stilistici tra Regno Unito e Caraibi, che conduce a un pot-pourri di categorie e codici vestimentari, per cui l’aplomb di trench, giacche in tweed, pants con la piega e gilet in lana è ibridato con copricapo rasta all’uncinetto, maxi cappelli e tute in nuance sature (‘Lovers Rock’, A/I 2020), mentre la compostezza di blazer avvitati, sciarpe a righe, camicie inamidate e altri must del preppy style da college d’élite viene scombussolata dall’innesto di pattern esuberanti, voluminosi risvolti in shearling, tracksuit, disegnature paisley, orli esageratamente lunghi che occhieggiano qua e là (‘Black Sunlight’, A/I 2021).



La stilista, nel frattempo, continua a riscuotere consensi tra gli addetti ai lavori, inclusi mostri sacri come Karl Lagerfeld, Phoebe Philo e Marc Jacobs, membri della giuria che, nel 2016, le assegna il LVMH Prize for Young Fashion Designers, e nel giro di tre anni si aggiudica infine il BFC/Vogue Designer Fashion Fund, assicurandosi 200mila sterline e un supporto annuale personalizzato.
Tra i suoi estimatori vi sono poi colleghi come Stephen Jonesdominus della modisteria più eccentrica e preziosa – e Manolo Blahnik, santo protettore delle fashionistas devote allo stiletto sin dai fasti di Carrie Bradshaw in ‘Sex and the City’. Quest’ultimo sigla le calzature del marchio in diverse occasioni, alternando mules guarnite di piume, stivaletti in pellami dalle cromie e texture differenti, sandali cut-out e altre creazioni flamboyant a modelli più tradizionali come le brogue in pelle.
Anche Maria Grazia Chiuri, creative director della donna chez Dior, fa squadra con Wales Bonner per la sfilata Cruise 2020 e le affida il compito di rivisitare la Bar Jacket, icona sempiterna della maison cui viene donato un tocco folk attraverso le applicazioni in rafia multicolor ricamata.
È un capitolo a sé la liason con Adidas, avviata nel 2020 con la collezione ‘Lovers Rock’, in cui fanno capolino dolcevita, magliette da calcio, top e pantaloni con le caratteristiche three stripes sferruzzate e i profili a costine “maggiorati”, trovate d’antan analoghe a quelle delle trainers Samba e SL72, che esibiscono strisce crochet, linguette over e tonalità dalla vibe vintage (amaranto, rosa antico, crema, verdone e via discorrendo). La collaborazione prosegue quindi con la suddetta limited edition per la primavera 2021, appena arrivata negli store, e nel corso dell’anno si arricchirà di ulteriori novità, anticipate dallo show A/I 2021 della creativa anglogiamaicana.



Tra una collezione e l’altra, la designer trova anche il modo di partecipare a progetti nei quali trasferire la sua vena artsy, come la mostra ‘A Time for New Dreams’, allestita nel gennaio 2019 negli spazi della Serpentine Gallery londinese – un’indagine sulle declinazioni della spiritualità e del simbolismo di origine africana, oppure la serata-evento del ‘Devotional Sound’ ospitata nello stesso anno dalla St. Peter’s Church di New York, con la performance di nientemeno che Solange Knowles.

A nemmeno trent’anni, il curriculum di Wales Bonner è insomma già ricco di riconoscimenti e nomi di assoluto rilievo, e appare pertanto del tutto irrealistico il timore, confessato al Guardian qualche tempo fa, di risultare una «sciocca» in quanto «fashion designer che si dedica all’arte»: il binomio, nel suo caso, funziona eccome.

Le interpretazioni d’autore della field jacket, capospalla army dal fascino intramontabile

La denominazione ufficiale, M-1965, ne rivela il côté militare (del resto, diverse colonne portanti dell’outerwear maschile, dal trench in giù, provengono dall’abbigliamento delle forze armate), ma la miriade di interpretazioni d’autore nelle collezioni Primavera/Estate 2021 suggellano la duttilità dell’indumento. Parliamo della field jacket, che nel corso degli anni è riuscita ad affrancarsi dall’immaginario guerresco degli inizi per intrufolarsi nell’armadio di un pubblico composito e urbano, irretito dalla praticità e solidità del capospalla, esplicitate appieno negli imprescindibili tasconi; peculiarità apprezzatissime ancora oggi, tanto più che continua ad aumentare la richiesta di abiti iper performanti, seppure sfoggiati nel contesto cittadino, tutt’altro che impervio insomma.
Prodotto originariamente da Alpha Industries (marchio nato nel 1959 come fornitore ufficiale del Dipartimento della Difesa americano, e conosciuto soprattutto per aver realizzato la MA-1 Jacket, ovvero il primo bomber in assoluto), il modello venne lanciato dallo Us Army alla metà degli anni ‘60 (da qui il numero nella sigla sopracitata) e dato in dotazione alle truppe di stanza in Vietnam.


Yves Saint Laurent, French designer with two fashion models, Betty Catroux (left) and Loulou de la Falaise, outside his ‘Rive Gauche’ shop. (Photo by John Minihan/Getty Images)

Le fattezze della giacca erano dettate da ovvie esigenze pratiche oltreché dal clima tropicale della regione, in cui si alternavano caldo torrido e piogge torrenziali: si spiegano così la silhouette semplice, lunga poco oltre i fianchi; le quattro tasche applicate sulla parte frontale, indispensabili per riporre le munizioni; il tessuto, un blend compatto di cotone e nylon, poco ingombrante ma resistente ad acqua e vento; la chiusura attraverso zip e bottoni a pressione; il cappuccio, arrotolabile nel colletto; infine la particolare sfumatura di verdone, ribattezzata “olive green 107”.
Tutte peculiarità che, una volta terminato il conflitto nel Sudest asiatico, risultarono appetibili anche per i civili, in particolare – ironia della sorte – per quelli che più osteggiavano le “imprese” belliche degli Stati Uniti.
Le field jacket finirono perciò con l’essere indossate prevalentemente da pacifisti dei movimenti di protesta, beatnik e giovani esponenti della controcultura, incluse alcune eminenti figure della scena culturale e artistica del periodo, da William Burroughs a Jack Nicholson, da Andy Warhol a monsieur Yves Saint Laurent (che, a dir la verità, prediligeva una versione più sciancrata e rifinita dalla cintura stretta in vita, antesignana di quella sahariana che avrebbe contribuito alla fama imperitura del couturier).

A cementarne il fascino arrivò poi il cinema, al solito decisivo per le fortune di determinati capi: non si può non partire da Travis Bickle, l’allucinato protagonista di ‘Taxi Driver’ (un Robert De Niro in stato di grazia), per il quale l’inseparabile giaccone verde, un cimelio dell’esperienza nelle trincee vietnamite, era un simbolo di appartenenza, utile a prendere le distanze da una società percepita come ipocrita e degradata.

Ugualmente magnetici gli indossatori d’eccezione apparsi in altri film di culto, dal Frank Serpico/Al Pacino di ‘Serpico’ al Larry Sportello/Joaquin Phoenix di ‘Vizio di forma’, dal Rambo di Sylvester Stallone, veterano cinematografico per antonomasia, al cyborg interpretato da Arnold Schwarzenegger nel primo ‘Terminator’.



Il piglio rude e allo stesso tempo charmant di questo capospalla riscuote tuttora parecchio consenso, e molte griffe lo ripropongono modificandone, più o meno radicalmente, i connotati. Basti considerare, da questo punto di vista, il modello extra lusso con cui Kim Jones chiude la carrellata di mise della P/E 2021 di Dior Men, accomunate dal tentativo di trasferire sulle texture la matericità delle pennellate dense di Amoako Boafo, pittore ghanese “guest star” della collezione: un giubbotto bombé scuro, con una metà in cachemire e l’altra in lucente coccodrillo.

Da A-Cold-Wall*, viceversa, Samuel Ross non si discosta dal workwear tagliente, metropolitano con cui si è fatto conoscere, presentando field jacket dalle linee grafiche in nuance piene di giallo o rosso.
Si distingue per l’aspetto décontracté la versione di Tod’s, dalla tonalità aranciata e con coulisse in cuoio intrecciato (un omaggio alla maestria artigianale che è parte integrante dell’identità del marchio).



Etro, condensando nel capo il mood etno-chic della passerella, firma delle giacche color khaki istoriate con eterei ramages (intervallati da raffigurazioni di animali) e altre effetto dégradé, puntinate da grafismi geometrici.

Sembrano usciti invece da uno degli innumerevoli, vibranti scatti con cui Slim Aarons immortalò le vacanze del jet set negli anni ‘50 e ‘60 i flessuosi capispalla di Casablanca, in filati soft, dalle superfici immacolate oppure movimentate da righe marinière, con tanto di perle a sostituire i bottoni canonici.
Le giacche del lookbook di Maison Mihara Yasuhiro, per contro, hanno un’aria volutamente used, enfatizzata da scoloriture ad hoc, impunture a vista, tessuti stropicciati ed etichette con le specifiche del capo spostate all’esterno.

Di segno minimalista infine le riletture operate da Brioni (tra sfumature neutre, materiali deluxe e volumi ammorbiditi), Kenzo (un giubbotto azzurro polvere munito di pouch staccabile sul fianco) e Officine Générale.

Un corpus di esemplari griffati dal quale non si può prescindere nel caso si voglia puntare sulla field jacket come nuovo acquisto della stagione, assicurandosi un giubbotto adatto alle temperature primaverili e che rivela notevole versatilità, prestandosi a ensemble di stampo casual come ai completi spezzati o agli outfit (moderatamente) formali.
Le giacche succitate sono disponibili tra l’altro anche sugli e-shop dei rispettivi brand, oltre che su piattaforme digitali à la Lyst: risultano quindi a portata di clic il modello in lino e seta dai motivi chiné di Etro, quello candido di Casablanca e il giaccone con cordini in pelle di Tod’s; e ancora, la proposta di Officine Générale in 100% cotone, completamente sfoderata, e quella di Brioni.
Altri nomi da prendere in considerazione sono poi Burberry (che punta sull’essenzialità del gabardine total black, su cui risaltano le tasche a contrasto blu) e Palm Angels, che stempera la severità marziale del capo con pannelli check e una scritta sulla schiena, circondata da print floreali.



Si potrebbero aggiungere all’elenco, infine, i modelli di label quali Stone Island, C.P. Company e Woolrich: il primo è un concentrato di ricerca ed esuberanza cromatica (come da prassi per l’azienda di Carlo Rivetti), in raso di nylon dall’aspetto traslucido, quasi liquido, declinato in diverse tonalità, dal verde de rigueur al turchese; il secondo si attiene ai precetti dell’utilitywear, ricorrendo a un trattamento che irrobustisce e impermeabilizza il tessuto, donandogli inoltre una colorazione che ne esalta i particolari; il terzo ricalca fedelmente la foggia dell’originale M-65.

Tra specialisti dei capispalla e designer votati allo sperimentalismo, costruzioni innovative e materiali tradizionali, la giacca army sembra destinata dunque a restare stabilmente nei desiderata maschili.

Brand alert: Barrow

In un’era di grandi cambiamenti e nuove sfide nel mondo dei brand del Fashion system, c’è chi canalizza l’attenzione sulle nuove generazioni e in particolare le generazioni Y e Z. É il brand streetwear Made in Italy Barrow che, per la Primavera/ estate 2021, lancia una collezione super giovanile, dai colori accesi e dal carattere prettamente urban. 



La condivisione, idea base dell’identità firmata Barrow, si pone come prerogativa per uno stile identitaria che affonda le radici nella community, spazio vitale per lo sviluppo dello stile.



La linea presenta  tagli contemporanei e un forte imprinting streetwear: i colori sono accesi, là palette acida comprende una sfumatura di nuance che va dal fucsia al tiffany, con stampe psichedeliche e optical, ipnotiche. Per non parlare delle grafiche, gli slogan e le applicazioni reflective che caratterizzano in modo totale il carattere stilistico di Barrow: a essere protagonisti immagini di cartoon, gaming, e film cult degli anni ‘90. Felpe, shorts, mini dress, dettagli in tulle e mesh stampati per le collezioni donna: tra gli accessori borse con applicazioni gioiello, i cappelli hanno un forte richiamo allo stile rap e trap. Tra i capi della collezione uomo, invece, giubbotti in Denim con stampe streetwear, felpe, bomber hacker, shorts e t-shirt tutte con un forte richiamo allo stile giovanile moderno. 



Tra le collaborazioni di Barrow, anche quella con la stylist, dj e designer Sita Abellán che ha curato art direction del lookbook della collezione. Ma non solo: il brand è uscito lo scorso 5 Marzo con una collaborazione con il rapper Sfera Ebbasta, idolo dei nuovi nativi digitali. 



Il brand è cresciuto molto dal lancio della sua prima collezione lo scorso inverno, arrivando a contare la sua presenza in 180 retail store internazionali, e siglando un’ importante partnership con Farfetch. 

Fluttuanti emozioni green, Manintown incontra Gilberto Calzolari

Forte di uno storico che vanta collaborazioni con i più importanti fashion brand del lusso, Gilberto Calzolari dal 2017 cura la sua linea di abiti demi-couture dall’appeal glam romantico.

Vincitore del Green carpet fashion award nel 2018, prestigioso riconoscimento per giovani talenti della moda ecologica, le sue silhouette e i suoi tagli contemporanei stupiscono per abbinamenti inaspettati che, con il corso delle stagioni, hanno sempre strizzato un occhio alla sostenibilità, mantenendo lavorazioni di altissimo livello sartoriale. 

A pochi giorni dalla MFW e dal suo dialogo con Volvo per il lancio della sua nuova C40, Recharge Gilberto Calzolari apre le porte del suo showroom a Manintown per parlare delle ultime visioni e raccontarci del futuro che verrà nel segno del green. 



La tua donna racchiude in sè un’immagine estremamente sofisticata ma contestualmente versatile nei confronti delle esigenze della vita moderna. Come si è evoluta durante l’ultimo anno pandemico e cosa ha deciso di riporre nei meandri del proprio guardaroba?

Tutto è ripartito idealisticamente dal mio alfabeto colorato con l’obiettivo di raccontare una nuova femminilità. Per la prima volta la donna Gilberto Calzolari tinge le labbra di rosso per regalarsi il vezzo che, a causa delle mascherine, non può più concedersi.

La sensualità è enfatizzata dagli spacchi profondi che svelano il corpo con eleganza e lo avvolge di tessuti morbidi.

Si ripongono nell’armadio tutte le negatività per dar spazio alla joie de vivre nel rispetto di una moda sostenibile plasmata sulla atemporalità.

Recupero e ricerca, il tuo mindset è focalizzato sul ridar vita a materiali considerati non “consoni” dalla moda e spesso destinati allo smaltimento. Nel corso degli anni quali sono stati quelli che ti hanno dato più soddisfazione nella loro manipolazione?

Di sicuro la collezione del mio cuore è quella dei Green carpet fashion award, un omaggio alla Pianura Padana e alla mia Lombardia. Sacchi del caffè e dello zucchero recuperati presso il mercatino dei Navigli che ho ricamato e mixato con tessuti d’Alta Moda. Nelle stagioni a seguire mi sono divertito con il packaging retato degli agrumi e con gli ombrelli smontati per un perfetto plissè soleil. La provocazione è mirata a dare un esempio virtuoso di moda circolare epurando gli oggetti dalla loro funzione, decontestualizzandoli e riplasmandoli evitando lo spreco.



Etica ed Estetica, ed è così che Gilberto Calzolari da sempre fiero sostenitore della sostenibilità, decide di affiancare la propria vision a quella di un auto, la nuova C40 Recharge di Volvo, presentando un abito inedito. Già in passato la casa automobilistica ti aveva fornito tela di airbag e cinture di sicurezza usate. Come hai unito il tuo estro al design e alle caratteristiche di un’ auto elettrica?

Di sicuro l’intento comune dar vita a una creazione 100% sostenibile. Entro il 2050 Volvo conta di produrre solo auto elettriche.

La nostra collaborazione è nata un po’ per caso e l’abito realizzato in questa occasione si ispira all’eleganza e alle linee d’avanguardia di un auto che guarda al futuro. Il nuovo modo di concepire il lusso è green. Un segnale positivo e contaminante che unisce l’etica all’estetica.

E a non molti giorni fa risale il lancio dello show virtuale durante la Phygital Fashion Week milanese le cui riprese sono state effettuate in uno dei luoghi della cultura altamente penalizzati dalla pandemia: il teatro. Mai come questa volta la tua donna vive in un Pianeta “in tilt” e le sue emozioni vengono percepite anche nel ritmo del montaggio scelto. Con quali stili si approccerà al prossimo Autunno/Inverno?

Il tilt è generato da un intero sistema in questo stato. Positività e follia sono enfatizzati da contrasti netti ,come il foyer cupo e gli slanci di luce, per un corto circuito generalizzato che vuole liberarci simbolicamente dalle limitazioni.

La donna dell’Autunno/Inverno vuole stridere tra i contrasti, viaggiando attraverso superfici lucide e materie opache, alternando la mascolinità alla la femminilità.

Ho, inoltre presentato, il primo upcycling eyewear. Occhiali vintage smontati e rimontati con lenti d’avanguardia.

Per gli accessori mi sento di citare Kallistè che ha fornito calzature con la tomaia realizzata interamente in plastica reciclata. 



Un costante impegno per il Pianeta nel segno di uno dei più importanti insegnamenti che ci ha tramandato il mondo classico:“kalos kai agathos”, l’unione tra il buono e il bello”.Cosa è previsto nell’immediato futuro green di Gilberto Calzolari e quali sono i materiali di scarto che vorrebbe plasmare tra le sue mani? 

Per me stesso è una sorpresa. Nel futuro non si parlerà solo di una moda sostenibile ma anche di una moda rigenerativa mirata a produrre meno waist possibile. 

Quindi utilizzare più materiale di scarto come i tessuti di stock o le rimananze. Sprecare è antietico e bisogna lottare per il vero Made in Italy supportati anche dal punto di vista governativo alienando ogni forma di danno all’intero sistema.

Photographer Clotilde Petrosino @clotildepetrosino

Dietro le quinte del nostro incontro con Wrongonyou e Vergo

Grazie alle immagini vi sveliamo i retroscena degli ultimi contenuti dedicati a due celeb nell’ambito musicale : Wrongonyou e Vergo.

Backstage photographer Riccardo Ferrato

Special content direction, production, interview & styling Alessia Caliendo

Grooming Alessandro Pompili

Make up Serena Polh

Styling assistant Andrea Seghesio

Beauty by

Bionike

Gli Elementi

Maria Nila

Miamo

WeMakeUp 

Special thanks to 

Leonardo Hotel Milan City Center

NH Touring Hotel Milano 

Soulgreen




BRAND ALERT: SLAM JAM X CONVERSE

Nuova collaborazione nel mondo dello streetwear con Converse e Slam Jam : attraverso la loro unione fanno vita a capi dal tocco underground con una forte identità visiva  e un approccio al paesaggio oggi rivalutato e sotto una nuova luce.

Da tempo Slam Jam è nata come un hub underground che univa le sottoculture di tutto il mondo , mirando alla creazione di capi dal design intelligente per una cultura giovanile globale , in questo caso a essere al centro dell’attenzione gli stili di vita avventurosi tradotti in capi dalla forte identità. 

La collezione dei capi Converse x Slam Jam trae ispirazione dall’arena tecnica traducendone gli elementi per poi collocarli nella sfera del daily use. Un forte richiamo all’attrezzatura tecnica outdoor: il pack comprende la scarpa Bosey Mc e alcuni capi d’abbigliamento .

 Tra i capi creati una maglia a maniche lunghe , un pantalone ripstop nylon, una felpa con cappuccio in pile pesante , una giacca Sherpa reversibile , con un lato in ripstop nylon e sherpa fleece dall’altro , e una tracolla marsupio con dettagli da attrezzatura tecnica. 

Tra le particolarità dei pezzi creati, la Bosey MC e stata realizzata con un sistema di allacciatura veloce che consente un’indossabilità facilitata e un blocco speciale dei lacci per una chiusura sicura , in Lurex ripstop lucido. Presentate le versioni in nero, la Bosey Mc Hi e in bianco con la Bosey Mc Ox quest’ultima realizzata in lurex scintillante. 

A curare la campagna l’art director Chris Glickman che ha spiegato : 

la genesi di questo progetto è stata esplorare l’idea di come interagiamo e siamo influenzati dalle forme permanenti nel corso della storia. In un periodo di incertezza universale, il conforto può essere trovato in un apprezzamento della bellezza che è rimasta invariata per millenni e parla agli aspetti profondamente umani di come i nostri paesaggi visivi ci influenzano ad un livello fondamentale”. 

La collezione Converse x Slam Jam sarà disponibile a partire dal 20 Marzo in anteprima esclusiva su slamjam.con e negli store Slam Jam, e dal 25 Marzo e poi globalmente anche sul sito Ufficiale di Converse e negli store selezionati.  

Festa del papà: tra fashion e accessori

La nostra mini gallery tra fashion e accessori comprende alcune idee regalo da cercare on line o in store (zone rosse permettendo) per celebrare tutti i nostri papà. E se arrivate in tempo a causa di negozi chiusi o ritardi nelle consegne tipiche del periodo, possiamo sempre tenerle in considerazione come must have davvero cool da regalargli questa primavera!






Lo streetwear eclettico e ricercato di Exclusive Paris

La storia di Exclusive Paris inizia nel 2018 a Roma e si intreccia con quella del fondatore Patrizio Fabbri, designer e imprenditore classe 1988 che, forte dell’esperienza maturata in anni di lavoro nel mondo retail, decide di tradurre in realtà il sogno di una linea di abbigliamento streetwear capace di dettare nuovi standard nel settore.
Facendo leva sul mix ben calibrato di social media e indossatori d’eccezione, il brand conquista subito l’attenzione di una clientela giovane e metropolitana.
Il progetto Exclusive Paris viene seguito scrupolosamente da Patrizio, che si occupa in prima persona di ogni aspetto (come precisa lui stesso, «Sviluppo e supervisiono tutto io, dalla scelta dei tessuti alle grafiche, dalla vestibilità dei capi ai testimonial»).

Appassionato da sempre di moda, al punto da essersi distinto già alle elementari come trendsetter della classe, il creativo è un perfetto esempio di self made man italiano, titolare di un marchio lanciato dopo un lungo percorso nel fashion system.



RITRATTO DI PATRIZIO FABBRI, FOUNDER DI PARIS EXCLUSIVE


Inizialmente la griffe si fa largo grazie alle tute in ciniglia, disponibili in un’ampia gamma di nuance, ottenendo riscontri immediati dal pubblico con gli articoli che finiscono puntualmente sold-out, tanto che intorno alla boutique romana di via Angelo Brunetti (vicino piazza del Popolo), cominciano presto a gravitare innumerevoli clienti, giovanissimi e meno, disposti anche ad attendere in fila il proprio turno pur di accaparrarsene una.

I due cardini di Exclusive Paris sono, da un lato, la costante ricerca stilistica, dall’altro la cura certosina di ogni singolo dettaglio; Fabbri riversa la sua cifra street in capi dall’appeal sofisticato, realizzati in tessuti preziosi e contraddistinti da uno stile sui generis, cosmopolita, apprezzato – ed esibito – da diversi nomi di punta del panorama trap, hip-hop e musicale italiano, tutti diventati fan del brand in modo spontaneo, attratti dall’originalità delle proposte.
Il successo è certificato dai numeri sui social (lo stesso Fabbri conta, sul suo profilo Instagram, oltre 46mila follower, equivalenti ad altrettanti clienti fedeli di Exclusive Paris), e premia l’attività di un’azienda per la quale la sperimentazione in tema di abiti street fa rima con la qualità degli stessi, prodotti non a caso in Italia, impiegando materiali di prim’ordine.



Lo spirito di Exclusive Paris è riassunto al meglio nel claim ‘Be Exclusive’, che viene declinato in capi in continua evoluzione, originali e dall’allure internazionale pur senza apparire mai eccessivi, espressione di uno stile unico nel proprio genere, dinamico e trasversale quanto a gusti ed età.



Se la tracksuit, arricchita dalla banda logata e disponibile in numerose tonalità, rimane un elemento centrale nell’offerta del marchio, quest’ultima è stata ampliata nel tempo ad altre categorie menswear, womenswear e kids: si va dai body ai giubbini, dalle felpe e pantaloni coordinati alle t-shirt con scritte in colori a contrasto, dagli shorts alle tute ornate da fantasie animalier o inserti fluo. L’ultima collezione Spring/Summer 2021, in particolare, vede in primo piano la vivacità cromatica delle stampe tie dye, che si stagliano su maglie e pantaloncini abbinati.

Per quanto riguarda i progetti futuri, Fabbri intende portare ovunque Exclusive Paris, tenendo sempre fede al principio secondo cui «avere un proprio marchio equivale alla ricerca ossessiva di esclusività e novità». La sua parabola, basata sull’intraprendenza e il saper fare italiano e rafforzata dalla pervasività degli ambiti prediletti della griffe (musica e social network), sembra essere solo all’inizio.

Le proposte maschili nelle collezioni della Paris Fashion Week F/W 2021-2022

La pandemia di Covid-19 ha impresso una decisa accelerazione a dinamiche già in atto nella fashion industry, portando un numero crescente di brand a riconsiderare tempi e modalità di presentazione delle novità di stagione e adottare il format co-ed, che prevede l’accorpamento degli outfit uomo e donna nella medesima passerella, adeguandosi tra l’altro a una visione della moda che eludesempre di più schematismi e divisioni rigide, tenendo conto principalmente – se non esclusivamente – della creatività.
Si è mossa in questa direzione anche la Paris Fashion Week Fall/Winter 2021-2022 appena conclusasi, in cui diversi marchi hanno affiancato al womenswear i look maschili.

Un’edizione della kermesse che ha visto le griffe nuovamente alle prese con streaming, sfilate a porte chiuse e mini film, per una messe di collezioni il cui filo conduttore sembrava risiedere ancora una volta nella generale sensazione di comodità e rilassatezza degli abiti (retaggio dei lunghi periodi trascorsi tra le mura domestiche ormai da un anno), sebbene non siano mancati stilisti che hanno dato maggior risalto all’estro delle proposte, fiduciosi riguardo un futuro prossimo finalmente libero da lockdown, mascherine, distanziamenti et similia.

Marine Serre

Il titolo programmatico del défilé F/W 2021 di Marine Serre (wunderkind della moda francese che fa del concetto di ecofuturismo una bandiera stilistica e, soprattutto, etica) è “Core”, un termine che sottolinea la volontà di andare in profondità, all’essenza del brand, restituita qui dalle mise ibride e dalle lavorazioni che ne hanno decretato finora il successo.

Sfilano dunque creazioni patchwork ottenute dall’unione di lembi in tinte e fantasie eterogenee (loghi di storici gruppi rock, fiori, pattern geometrici ecc.), pile istoriato da motivi arabescati, completi in denim o pelle interamente ricoperti da mezzelune all’ingiù (il simbolo della griffe), giacconi assemblati con frammenti di pelle dalle cromie terrose, vecchie sciarpe sovrapposte a formare kilt o maglie.
Dai suit fanno capolino body stampati effetto tattoo, top in lino ricamato e lupetti attillati, mentre i pezzi d’impronta sportiva o workwear (parka, giubbini zippati, giacche multipocket e cargo pants) scelgono tessuti moiré color lilla, unica alternativa al classico nero.
Un guardaroba dall’animo green, frutto per il 50% dei casi dell’upcycling di articoli delle collezioni precedenti, per l’altro 50% di tessuti realizzati con fibre riciclate.



Enfants Riches Déprimés

Deciso a consolidare l’identità del griffe (una crasi tra l’estetica delabré del punk e il lusso garantito da materiali e finiture di prim’ordine), il fondatore e designer di Enfants Riches Déprimés Henri Alexander Levy affida a un fashion film (intitolato ‘Xeropittura’ e introdotto, non a caso, dalle parole della paladina del grunge anni ‘90 Courtney Love) il racconto per immagini dell’ultima collezione, nella quale insiste su mise “ruvide” nell’aspetto ma dalla fattura ineccepibile.
I protagonisti del video si muovono veloci in una landa innevata, lui sfodera maglioni oversize, trench di pelle beige dalla linea ad A, abbondanti fur coat, caban in shearling e bomber disseminati di scritte e grafismi arzigogolati, tutti indossati su pantaloni rastremati sul fondo accompagnati, per quanto riguarda le calzature, da anfibi massicci o stivaletti texani.
Lo spirito anarcoide dello show trova conferma nella disinvoltura degli abbinamenti, dalle collanine con grossi ciondoli tintinnanti portate sul doppiopetto al peluche in tessuto en pendant da fissare alla giacca check, fino al camicione in flanella quadrettata con print che citano indifferentemente l’architetto modernista Adolf Loos e i testi dei Nine Inch Nails.



Isabel Marant

In linea con l’attitudine nonchalant e al contempo raffinata che contraddistingue da sempre il marchio, Isabel Marant per la prossima stagione Autunno/Inverno immagina un incontro – data la vivacità del risultato, sarebbe più appropriato parlare di scontro – tra lo spirito folk e libertario di icone del rock come Jimi Hendrix o Janis Joplin e la sregolatezza vestimentaria della sottocultura gabber.
Nel menswear, tutto ciò si traduce in outfit che, pur sprigionando un appeal dégagé, appaiono articolati: il peacoat perde i revers e viene accostato a pants sartoriali dal piglio rilassato, una combinazione replicata anche per i montoni abbreviati, i blouson in suède impalpabile, i giubbotti in lana a coste ton sur ton con il pullover sottostante e le giacche tuxedo dal collo a scialle.

Se sulla maglieria risaltano gli inserti nelle nuance pop del verde smeraldo, rosa e cremisi, un ulteriore tocco flashy è assicurato dalle camicie e dai pantaloni in vinile, leggero e croccante, declinato in blu China o rosso. Ai piedi, infine, boots sfinati in pelle spazzolata.



Givenchy

Alla sua seconda prova come direttore creativo di Givenchy, Matthew M. Williams proietta definitivamente gli stilemi abrasivi e industrial che gli hanno permesso di scalare le vette del fashion system nel mondo patinato della maison parigina.

Nel filmato girato per la F/W 2021 modelli e modelle irrompono nell’arena ricoperta d’acqua adibita a passerella; la soundtrack è martellante, il ritmo sincopato, le mise si adeguano esibendo linee scattanti, scolpite da pantaloni affusolati e giacche fitted dalle spalle marcate, cui si contrappongono capispalla volitivi per mole e carattere dei dettagli (zip vistose, chiusure in metallo, colli montanti, guarnizioni in faux faur e così via); il clash visivo viene alimentato inoltre dall’accostamento degli opposti: silhouette sottili e muffole XXL in pelo, joggers seconda pelle e passamontagna in maglia spessa, denim scorticato e lana grain de poudre, scarpe gargantuesche e piumini scorciati alla vita.

A ribadire il tono fosco della collezione provvedono la severa palette cromatica, con il dominio di nero e marrone scuro spezzato solo nel finale dalle incursioni di avorio, cammello e lavanda, e accessori quali catene a maglie larghe, borse a tracolla spigolose e zaini decorati da minuterie luccicanti.



Ann Demeulemeester

Da Ann Demeulemeester l’era del neoproprietario Claudio Antonioli (titolare delle omonime boutique dislocate tra Italia, Svizzera e Spagna e co-founder del conglomerato di marchi street New Guards Group, poi acquisito da Farfetch, ndr) viene inaugurata da una collezione celebrativa del lavoro della fondatrice, membro di spicco dei leggendari Antwerp Six.
Il focus è quindi sul tailoring elegantemente decadente, venato di suggestioni punk e romantiche, che prevede le due sole possibilità del bianco o nero, stesso binomio dello short movie diretto dal fotografo Willy Vanderperre (ad eccezione di sporadici frame a colori) e del relativo lookbook, d’altra parte. Gli scatti ritraggono un gruppo di giovani bohémien vestiti con gilet, completi, t-shirt e camicie diafane dalle forme fluide, distese, spesso attraversate sul torso da fasce orizzontali, con esili nastri di tessuto che pendono da cinture e baveri, oppure cingono delicatamente le maniche.
I materiali – jersey, popeline, seta, mescole di cotone e lino – assecondano il sentore di poetica fragilità dei look, gli accessori sono limitati al minimo indispensabile, ovvero stringate dalla punta arrotondata e cappelli in feltro a tesa larga.



La moda rigenerata di Rifò: una storia di cenci, cenciaioli e sostenibilità

Una moda assetata di acque restituite impregnate di microplastiche ed agenti chimici. Indumenti già nati per essere rifiuti dismessi di discariche sovraffollate e scarti di invenduto lasciati in pasto agli inceneritori. Vestiti sovrapprodotti in nome di un consumismo globalizzato del non valore a buon mercato. Una moda veloce, “fast”, come la breve durata del suo deperire che nulla ha a che fare con il concetto di tempo, ma che piuttosto si lega a doppio filo a tessuti dozzinali, scadenti e difficili da riciclare che ne decretano la loro obsolescenza precoce. Un abbigliamento venduto come l’eldorado della convenienza a basso costo, ma pagato a caro prezzo a spese dell’ambiente e dei lavoratori orfani di diritti e tutele.



La vulnerabilità di questo anno pandemico ha inasprito queste fragilità già endemiche e radicate in alcune frange del sistema moda, ma d’altro canto ha anche acuito la necessità di una rafforzata sensibilità etica e di un consumo responsabilmente più sostenibile. Un appello che fa da eco a molte voci, tante quante sono le imprese che, da tempo, hanno deciso di remare contro un modello lineare di produzione riponendo le speranze future, e collettive, nella diffusione di una mentalità circolare che vede nel rifiuto una nuova risorsa da reintegrare sul mercato.



Tra queste realtà prende corpo Rifò, la startup del cashmere rigenerato frutto di un crowfunding su Ulule nata nel dicembre 2017 a Prato, in un territorio simbolo, storicamente votato alla cultura del tessile e, per tradizione, terra di lanai e straccivendoli, noti ai nostrani con il nome di cenciaioli o ai più fini letterati con l’appellativo di chiffoniers, come amava declamarli Baudelaire. Quelli che li riconosci perché hanno sempre nella tasca posteriore dei pantaloni un paio di forbici, per separare le cuciture dalla maglia, e un accendino, per bruciare il filo e vedere se c’è una fibra sintetica nella composizione del capo. Dal centenario e quasi estinto mestiere degli artigiani del cencio, per necessità e virtù i primi ignari e inconsapevoli alfieri dell’economia circolare, muove la rivoluzione sostenibile intrapresa dal brand pratese.



Rifò, già a partire dalla fierezza vernacolare del suo nome a “km 0”, è un elogio a quel “rifare” che sfrutta la ricchezza di fibre riciclate per creare dagli scarti tessili un nuovo rigenerato, o un vecchio riscattato di qualità, che vuole farsi portavoce di un valore emozionale destinato a una seconda vita. È un credo stilistico in un futuro non più bisognoso di produrre nuove materie prime, ma autoalimentato dallo sfruttamento di tutte quelle già impiegate, esistenti e dimenticate.



Facendo un passo indietro, cosa ha portato un laureato in Economia internazionale alla Bocconi con esperienze nella cooperazione allo sviluppo per il Ministero degli Esteri a occuparsi di moda?

Un’idea vincente nasce spesso da un intuito, dalla necessità di colmare un gap o semplicemente da quella di porsi come un’alternativa, come ha fatto Niccolò Cipriani, fondatore del marchio. “Durante la mia esperienza di lavoro in Vietnam, ad Hanoi, ho realizzato con i miei occhi il problema della sovrapproduzione che grava su un settore, quello del fast fashion, che produce molto più di quello che viene comprato con un impatto negativo sul consumo delle risorse naturali. Da questa presa di coscienza ho deciso di ritornare in Italia, recuperare la nobile arte dei cenciaioli, profondamente legata alle radici della mia terra, e su questa costruire un brand etico guidato dai valori di qualità, sostenibilità e responsabilità”. Rifò è l’alternativa all’emergenza globale di uno spreco fuori controllo, a cimiteri di abiti abbandonati e ad acquisti anaffettivi inghiottiti nella spirale di saldi e prezzi al ribasso. È l’incontro della conoscenza del distretto tessile di Prato con la consapevolezza che ogni vestito che buttiamo via ha un valore, può essere rigenerato e rigenerabile.



Tutti i capi sono realizzati nel raggio di 30 km da artigiani e piccole aziende a conduzione familiare con il metodo artigianale a “calata”, sostenendo così un modello di prossimità con i produttori e di valorizzazione territoriale a supporto dell’economia locale, limitando l’inquinamento dovuto alla logistica e ai trasporti e snellendo i prezzi finali sul mercato. Le materie prime seconde, frutto del “buon senso” e del risparmio energetico, sono vecchi maglioni in cashmere, jeans almeno 95% cotone e il cotone rigenerato. Scarti industriali e vecchi indumenti vengono sfilacciati, trinciati, riportati allo stato di fibra ed infine a quello di filato pronti ad essere la linfa materica di nuovi maglioni, cardigan, t-shirt, cappelli, sciarpe e mantelle. Alla base di questa “Rifolution” non solo il riciclo di indumenti o il valore della loro restituzione ad un nuovo uso, a nuova vita, ma anche la riduzione dei consumi di acqua, pesticidi e prodotti chimici usati di norma nella produzione. Una rivoluzione silenziosa per sensibilizzare le coscienze individuali verso una sostenibilità, umana e ambientale, incoraggiata da un acquisto consapevole al grido di “meno e meglio”.



Quando scegliamo che abito indossare, scegliamo anche per quale mondo votare.

Il menswear secondo Martine Rose, tra subculture, normcore e collaborazioni azzeccate

Se negli ultimi anni il cosiddetto normcore, con le annesse derivazioni (dadcore, gorpcore, geek chic eccetera) si è imposto come fenomeno di portata globale, glorificando forme (volutamente) sgraziate, tagli grossier, slogan improbabili e altre caratteristiche in genere considerate antinomiche all’universo modaiolo, trovando in Demna Gvasalia – ex direttore creativo di Vetements, ora alla guida di Balenciaga – il novello arbiter elegantiarum della categoria, il merito va attribuito anche a figure che, muovendosi magari dietro le quinte o non raggiungendo la visibilità del designer georgiano, sono risultate comunque decisive per le sorti di questo trionfo del “brutto” come apogeo della coolness.
Tra di loro vi è senz’altro Martine Rose, un nome decisamente in ascesa della moda made in Uk, già consulente proprio di Gvasalia per l’aurea maison parigina, che vanta nel proprio curriculum collaborazioni di alto profilo con brand quali Nike, Mykita e Napapijri; una conferma della sua rilevanza, considerato come le co-lab siano ormai la cartina tornasole dello status di una griffe.

Anglo-giamaicana, classe 1980, la stilista è cresciuta in una cittadina a sud di Londra in una famiglia allargata, tra il cugino devoto allo streetwear e una sorella fashionista amante di Jean Paul Gaultier, Katharine Hamnett e Pam Hogg, entrando in contatto con i più disparati generi musicali (reggae, dance, hip-hop ecc.) e avvicinandosi presto alla cultura rave.



Lauretasi in fashion design alla Middlesex University, nel 2003 ha fondato con l’amica Tamara Rothstein la label unisex LMNOP (chiusa tre anni dopo nonostante i buoni riscontri commerciali), seguita nel 2007 dal marchio eponimo di menswear, una scelta inconsueta solo all’apparenza perché, come ha precisato lei stessa, reputa l’abbigliamento maschile un fertile terreno di sperimentazione, con più regole ma altrettanti «modi per infrangerle».

Nonostante Rose si limitasse inizialmente alla camiceria, dieci modelli dalle cromie accese, presentati al Blacks Club di Soho, sono stati sufficienti per attirare l’attenzione della boutique multimarca Oki-Ni e di Lulu Kennedy di Fashion East, incubatore di talenti decisivo per le sorti degli (allora) astri nascenti della creatività brit, da Jonathan Anderson a Craig Green.
Ha potuto così mostrare nell’ambito della London Fashion Week le proposte per le stagioni S/S 2011, F/W 2011 e S/S 2012, in cui erano già presenti in nuce quelli che sarebbero poi diventati i pilastri del suo lavoro, dai codici estetici della working class inglese ai look dei clubber, al bondage.
La visibilità assicurata dalla settimana della moda londinese ha permesso inoltre alla designer di assicurarsi, nel 2014, il premio Newgen Men del British Fashion Council.

Risalgono a quel periodo i primi tandem con aziende di culto del workwear, e se per CAT ha aggiornato i noti scarponcini, tra color block nelle sfumature del rosso, materiali inusuali e cinghie in nylon a sottolinearne il carattere utilitarian, con Timberland ha fatto altrettanto, arricchendo i giubbotti di trapuntature limitate, però, alle sezioni circolari sul fronte del capo.

Il punto di svolta, per ammissione della diretta interessata, è coinciso tuttavia con la presentazione della F/W 2014, perché è li che ha realizzato di volersi concentrare su «volume, proporzioni, tensione dei tessuti e colori»: elementi effettivamente in primo piano nell’infilata di jeans stinti che più over non si può, maglioni sforbiciati, giubbini e pantaloni in vinile lucente, tutti punteggiati da toppe serigrafate con i flyer di vecchi rave party. Un fur coat della collezione, tra l’altro, è stato indossato nientemeno che da Rihanna.

Di lì a poco il suddetto Gvasalia, appena insediatosi da Balenciaga, avrebbe chiesto a Rose un incontro, preludio all’ingresso nel team che segue il menswear della griffe.


Martine Rose Men’s Spring 2018

Dopo essersi concessa un anno di pausa perché incinta, la designer è tornata in pista nel 2017, rivelatosi un annus mirabilis per il brand: a febbraio, tanto per cominciare, si è svolto il primo défilé in assoluto, organizzato nel mercato coperto del quartiere di Tottenham, una rassegna di archetipi vestimentari che si districava tra pantaloni e gilet ipertrofici, cravatte sgargianti, cromatismi accostati alla rinfusa, giubbotti intagliati per scoprire parzialmente le maniche, jeans dalla vita triplicata e altre trovate a effetto, strambe eppure accattivanti.
Nella stesso periodo è stata lanciata la capsule collection NAPA by Martine Rose, per cui ha messo mano all’archivio del marchio di outerwear Napapijri, anche in questo caso espandendo i contorni di giacche in pile, anorak e impermeabili, cospargendoli inoltre di nuance accese, zip a contrasto e dettagli rimovibili (visto il successo, la collaborazione è proseguita nelle stagioni successive). Sono arrivate quindi le nomination per le edizioni 2017 sia del premio Andam, sia dell’LVMH Prize for Young Fashion Designers.

Da lì in avanti la carriera della creativa originaria di Croydon è stata un crescendo di riconoscimenti, critiche entusiastiche e progetti di spessore, ritmato da collezioni in cui ha affinato sempre di più la sua visione idiosincratica e sperimentale, continuando a esplorare molteplici subculture giovanili (raver, new wave, skinhead, acid house, post-punk e via dicendo) e insistendo su tratti divenuti una firma inconfondibile, dai volumi esplosi degli abiti alle cromie acide, passando per il denim delavé, i capi stazzonati, i blazer dai profili sghembi e così via.
È da ricordare, in particolare, lo show S/S 2018, un pastiche che giocava con gli estremi, spesso giustapponendoli nella medesima uscita: shorts seconda pelle e parka ciclopici, tonalità soft e squarci di viola o arancione, pantaloni issati sull’addome e giacche scivolate, richiami al canale simbolo dell’underground 90s – Mtv – e indumenti fané da pensionato in gita domenicale.
La S/S 2019, invece, ha registrato il debutto di una calzatura esemplare della verve dissacrante di Rose, i mocassini dalla punta quadrata completi di catenella metallica, da subito adorati e detestati in egual misura.

Per l’ultima S/S 2021, infine, la stilista ha riflettuto a suo modo sulla reclusione domestica generalizzata imposta dalla pandemia, filmando gli inquilini di un (ipotetico) condominio riservato agli aficionados della griffe, capeggiati da Drake in persona, che nella supposta intimità dell’appartamento indulgevano in abbinamenti improbabili, mescolando maglie da calcio logate Martine Rose, merletti, jeans fiorati, joggers dalle fantasie geometriche e giacconi avvolgenti come vestaglie.



Sono di livello anche le collaborazioni intraprese nel corso del tempo, in aggiunta a quella già menzionata con Napapijri, che hanno visto Rose allearsi con Mykita (per una serie di occhiali da sole ispirati, tanto per cambiare, alla scena dance degli anni ‘90, con montature affilate contornate da grafiche animalier o colorazioni come lime, rosso e bluette) e, soprattutto, con Nike; per la casa dello swoosh ha puntato, oltre che su tute e magliette da basket rivisitate, su un’edizione speciale delle sneakers Air Monarch, attraversate lateralmente da imbottiture sporgenti simili a grumi.

In definitiva un percorso di tutto rispetto per chi, come lei, è allergico all’autocelebrazione e tende piuttosto a ridimensionare il proprio operato, convinto che la moda «dovrebbe essere scherzosa, ingenua, perché oltre a trasmettere messaggi e codici, l’abbigliamento è anche una questione di divertimento e spensieratezza». Un approccio, evidentemente, tanto pragmatico quanto efficace nei confronti di appassionati e addetti ai lavori.

Il raffinato elogio alla solitudine dell’ingegnere della moda: Giuseppe Buccinnà

Riempire gli spazi con forme tridimensionali, poco conta se con una laurea in ingegneria o quella in modellistica, rispettivamente conseguite presso il Politecnico e l’Istituto Secoli. La parola va all’ingegnere della moda Giuseppe Buccinnà durante il debutto alla Milan Fashion Week.

Nel suo studio forme e numeri si incontrano in un processo creativo che mira dritto ad una dimensione estetica di natura razionale. La strada del decostruttivismo netto e conciso valorizza il corpo femminile privandolo di ogni costrizione e concedendogli un’aura atemporale.

Alone. L’incipit della tua collezione si apre con l’ elogio alla solitudine del persiano Abbas Kiarostami. Siamo fisicamente soli ma digitalmente connessi. Quanto la dimensione individuale ha infliuito nella sua progettazione?

Ho provato a rappresentare la dimensione che ognuno ha costruito intorno alla propria esistenza nell’ultimo anno. Un evolversi di situazione atipiche che ha influenzato il rapporto che si ha con sé stessi. La società si muoveva a ritmi forsennati oscurando il confronto diretto che si può avere con la propria intimità. E’ il motivo per il quale ho voluto indagare sull’intimità femminile ispirandomi alle poesie di Kiarostami che definisco un autore visivo. Le sue parole donano immagini che accarezzano il dolore che abbiamo vissuto e che non mi sento di dimenticare.



Identità e innovazione per un sistema e un iter produttivo focalizzati sulla sostenibilità. I materiali di natura certificata sono individuati nella loro autenticità, come i Tecnocotton, pronti per essere predisposti alle elaborazioni manuali in grado di creare strutture consistenti. Come hai definito i punti fermi che contraddistinguono il tuo attuale processo creativo?

Mai come adesso la mia attitudine è quella di proiettarmi verso la ricerca di materiali, di strutture e di geometrie. Nel dramma del momento abbiamo la fortuna di vivere in un Paese dove la filiera della moda è molto forte e radicata. Anche nei periodi di lockdown sono riuscito a mantenere i contatti con i fornitori cercando di produrre in un raggio chilometrico concentrato.

Tessuti tecnici e fieramente urban riletti in chiave romantica grazie all’incontro con il tulle stretch e la maglieria timeless. La tua mente ingegneristica riesce a fludiificare le forme ispirandosi all’arte contemporanea. Quali sono stati i baluardi che ti hanno guidato nel crescendo della Fall Winter 2021/2022?

Questa collezione è il prosieguo dei precedenti studi. I miei riferimenti albergano sicuramente al di fuori della moda in quanto non voglio stratificare il suo concetto.

Ho preso spunto dall’attualità che ci ha costretti a stretchare il tempo non avendo un domani decifrabile. La mancanza di una bussola invita a rafforzare la propria identità e la mia ha spinto a livelli estremi l’estetica e le forme.



In ascesa ma anche in questo caso con struttura. Giuseppe Buccinnà può vantare già lunghe collaborazioni per la parte pelletteria (MICHVASCA) e per l’eyewear (FABBRICA TORINO). Come individui le sinergie di cui ti circondi?

Il percorso con Mich e con Alessandro è nato da una comunione d’intenti. Testare il mercato con l’accessorio è fondamentale per aprire il dialogo con un’ipotetica platea di buyer e consumatori. Le collaborazioni consentono di vedere il riflesso delle proprie creazioni nettamente amplificato.

Con la proiezione che mira a virare l’Alone in Together dove ti piacerebbe proiettare le dimensioni della tua donna per la prossima stagione?

Di sicuro il phygital resterà ancorato al modus operandi del sistema. Mi piacerebbe dar voce alla collezione facendola viaggiare e visionare tramite trunk show di matrice local.

Fotografo Leonardo Bornati @FishEyeAgency.

Dal ring alla macchina fotografica: Michael Samperi

Photographer: Gabriele Gregis @g.gregis 

Stylist: Stefano Guerrini @stefano_guerrini

Stylist assistants: Erna Dzaferović @ernadzaferovic, Lorraine Betta @lorrainebetta, Gabriela Fin Machado @gabifinm, Aurelio Comparelli @aureliocomparelli

Model: Michael Samperi @michael_samperi @UrbnModels

Make-up artist: Vivian Alarcon @vivian_alarcon_mua


Si avvicina a questo sport grazie al padre Mauro Samperi. Come lui stesso racconta “essendo lui il mio maestro mi ha tramandato questa passione, non sapevo ancora camminare e già stavo in palestra a gattonare in mezzo ai sacchi”.

Maglia Lardini, pantaloni Gabriele Pasini, foulard vintage Archivio Guerrini, stivali Roberto Cavalli

Qual è la più grande soddisfazione e quale il più grande insegnamento? 

Fino ad oggi la mia più grande soddisfazione è stata quella di partecipare ai campionati mondiali juniores di Bangkok, vincendo ben due tornei in due discipline: muay thai e K1. Mentre il mio più grande insegnamento che questa disciplina mi ha dato è che se si è determinati, costanti e disciplinati i risultati arrivano e, nonostante i tanti sacrifici, il mio motto è: “non mollare mai”. 



Consiglieresti questo sport e perché?

Assolutamente si, lo consiglio vivamente, e non perché lo pratico da tutta la vita, ma perché ti prepara fisicamente, mentalmente e soprattutto perché accresce particolarmente l’autostima e aiuta a capire l’importanza del rispetto delle regole.



Hai una dieta particolare? 

Si, ho una dieta specifica che seguo tutto l’anno che mi permette di mantenermi in forma e di rientrare nella mia categoria di peso per le gare.


Total look Bally, stivali Roberto Cavalli 

Quanto ti alleni? hai un allenamento particolare?

Mi alleno 6 volte a settimana e ho delle periodizzazioni da seguire ( forza, esplosività, velocità e tecnica).


Quali erano i tuoi miti da ragazzo e a chi guardi ora? A chi ti ispiri?

Il mio mito da piccolo è sempre stato mio padre, lo è tuttora e sicuramente lo sarà sempre. A lui devo tutto. Molto conosciuto nel nostro settore per aver sfornato dalla sua “Accademia Sicilia di Muay Thai “diversi campioni. Sportivamente parlando mi ispiro al combattente Giorgio Petrosyan che grazie al duro allenamento e alla grande umiltà è riuscito ad arrivare ai massimi livelli diventando il più forte al mondo. 



Come sei arrivato alla moda?

Per caso, ho conosciuto i fratelli Dsquared2 e poco dopo mi hanno chiesto se ero disponibile a fare un servizio fotografico con ICON magazine con Giampaolo Sgura e da qui è nato tutto perché successivamente mi hanno presentato all’agenzia Urbn models e piano piano ho iniziato a lavorare in questo settore.

E cosa pensi di questa nuova esperienza?

Devo dire che mi piace tanto, ho scoperto un nuovo mondo, non so se avrò un futuro in questo settore ma ho imparato che nella vita bisogna prendere ciò che arriva, sono esperienze positive che ti fanno crescere. 



Parlando di moda, cosa non può mancare nel tuo guardaroba?

Jeans, mi piacciono in tutti i modi: stetti, strappati, scoloriti, praticamente li indosso sempre e poi naturalmente un belPantaloncino di muay thai!!!

Sei siciliano, ci racconti la tua terra? Immaginando un futuro vicino in cui si possa viaggiare liberamente, cosa consigli di vedere/assaggiare/fare in Sicilia?


Io mi reputo molto fortunato a vivere in un posto meraviglioso come la Sicilia, c’è tanto da visitare ad esempio a Taormina e Giardini Naxos per il mare, le belle nuotate, l’escursioni in barca, si può andare al teatro greco, alle gole dell’Alcantara, per il paesaggio mozzafiato, Noto, Modica e Ragusa per le meraviglie barocche, Siracusa e l’Isola di Ortigia. L’Etna per il paesaggio lunare e se si è fortunati si può ammirare qualche eruzione, la riserva dello zingaro per la vegetazione tipicamente mediterranea, Favignana per le spiagge caraibiche. La valle dei templi di Agrigento , Catania per la sua movida e l’ ottimo cibo. Mi scuso se non ho nominato altri posti altrettanto belli e suggestivi, ma la lista è davvero infinita, vi consiglio di trascorrere le vacanze in Sicilia e toccare con mano, ma sicuramente sarai costretto a tornare perché è veramente difficile visitare tutte le meraviglie che abbiamo. Mentre per il cibo vi consiglio di assaggiare assolutamente l’arancino, i cannoli alla ricotta, la granita con la brioche e del fantastico pesce!!



Sogni e progetti per il futuro?

Il mio più grande sogno è di affermarmi nel mio sport ai massimi livelli e perché no continuare nel campo della moda penso che sia un connubio molto interessante.Anche se ho iniziato da poco ho avuto delle belle soddisfazioni e sinceramente mi è servito molto durante questo periodo visto che le competizioni sono ferme almeno mi sono dato da fare raggiungendo dei bei risultati.

Il ritmo caldo del reggaeton: Vergo

Cantautore dall’animo nero, sexy beat e voglia di raccontare tipica del Meridione. Vergo, romantica anima sicula incontra in esclusiva Manintown, presso NH Milano Touring, parlando di ricordi, legati alla sua terra e all’experience di X Factor, e alla costante sperimentazione musicale sotto l’ala di FLUIDOSTUDIO, etichetta con la quale ha prodotto e lanciato “L’Animo Nero” e “Bomba”. 

Famiglia siciliana e la carismatica gestualità che solo il Sud riesce a donare, Vergo si apre ad una ricerca artistica senza precedenti in cui la multiculturalità e la libertà espressiva si lasciano andare al ritmo caldo di un reggaeton mediterraneo fuso alla tradizione popolare siciliana. Da dove parte e come si evolve la tua sete di contaminazioni, suggestioni e visioni? 

La scintilla d’amore verso il reggaeton è scattata quando ho sentito il bisogno di avere nella mia vita più spensieratezza e vibrazioni briose e “peligrose”. Dai primi approcci ho avvertito un sound caloroso, accogliente e inclusivo. Sento di aver trovato la chiave giusta per affrontare ed esprimermi sulle tematiche anche più profonde a me vicine, mantenendo una vena ottimistica e romantica. 



Una vera e propria “Bomba” che, grazie al brano omonimo, presentato alle audizioni di XFACTOR ha fatto ballare tutti, dai giudici allo staff dietro le quinte, fino a convincere Mika a volerti con sé. Una hit che ha da poco superato i 2 milioni di stream su Spotify e un ottimo biglietto da visita per entrare nel cuore degli italiani. Svelaci tutti i retroscena della sua nascita. 

La nascita di Bomba è avvenuta in un anno difficile e di profonda riflessione personale. L’incontro con il misterioso producer ilromantico e la sua bozza di beat hanno aperto una prospettiva del tutto nuova sulla musica che stavo cercando, con richiami all’estate e alla voglia di ballare all’aria aperta che tanto ci mancava. Da lì insieme a ilromantico e FLUIDOSTUDIO ho iniziato a giocare, a sperimentare con i suoni, dando vita a BOMBA che è diventata una vera e propria terapia messa in musica. Un beat contagioso che ha coinvolto tutt* coloro che volessero liberarsi dalle proprie catene. 



Lo stage e il backstage di XFACTOR hanno visto anche il lancio dell’ inedito “Nella Balera”, scritto con Paolo Antonacci e prodotto da sixpm (producer di Elisa, Fedez, Guè Pequeno, Marracash e Arisa) con la supervisione di Taketo e del team leader Mika. Quanto ti hanno segnato le luci dei riflettori di uno show mainstream e cosa porterai con te da questa esperienza? 

Partecipare ad XFactor mi ha reso più consapevole del mio essere artista. Mi ha fatto scoprire quanta forza e bellezza risiedono nel mio modo di scrivere e fare musica, mi permettono di condividere me stesso con chi mi ascolta. 

FLUIDOSTUDIO è l’etichetta discografica indipendente che possiamo definire la famiglia milanese e che ti ha seguito e ti segue nella crescita artistica e professionale. Quali sono i focus su cui vi state concentrando in questo particolare momento dove la musica live è penalizzata? 

Appena conclusa la partecipazione al programma, mi sono rimesso subito a lavorare con FLUIDOSTUDIO. Il mio percorso musicale prende le mosse dalla ricerca personale e dalle mie origini, infatti amo raccontare storie dando risalto ai linguaggi siculi. Qualche giorno fa ho deciso di acquistare un dizionario italiano-siciliano in modo da studiarne ogni singola inflessione anche vernacolare. 



In cantiere ci sono nuove tracce in collaborazione con il duo Bautista e con Populous, coordinato da il producer ilromantico e dal direttore artistico Protopapa, con l’intenzione di raggiungere un pubblico ancora più vasto e raccontare la tua visione romantica della realtà. Suggeriscici una playlist poetica che può farci entrare nel tuo mindset musicale mentre siamo alle prese con le grigie giornate in smart working. 

Lavorare con i Bautista potrei definirlo positivamente strano perché nella loro calma assoluta riescono a produrre musica a gran velocità. 

Scrivere oggi della mia collaborazione con Populous rappresenta un enorme traguardo. Sognavo di arrivare a questo punto e sono orgoglioso di esserci arrivato con le mie forze e l’aiuto del team FLUIDOSTUDIO che mi segue. 

Ci sono in cantiere altre collaborazioni molto interessanti delle quali non possiamo svelare ancora nulla ma che saranno una sicura sorpresa per tutt*. 

Vi lascio con la mia playlist: 

Blaya – Faz Gostoso
Arca feat. Rosalia – KLK
Boyrebecca – Dulce de leche
Populous – Petalo
Major Lazer – QueloQue
Rosalia – Juro que
Urias – Diaba
FKA Twigs – Sad Day
Grimes feat. Majical Clouds – Nightmusic Sophie – It’s okay to cry 

Special content direction, production, interview & styling Alessia Caliendo

Photographer Clotilde Petrosino

Make up Serena Polh

Hair Alessandro Pompili

Beauty by

Bionike

Gli Elementi

Maria Nila

Miamo

WeMakeUp 

Special thanks to 

Fluido Studio

NH Touring Hotel Milano 

Soulgreen

Tra innovazione e tradizione, la Stockholm Fashion Week AW 2021 mette al centro la sostenibilità

L’ultima manifestazione, in ordine di tempo, ad aver acceso i riflettori sulla moda prossima è stata la Stockholm Fashion Week Autumn/Winter 2021, svoltasi (in forma digitale, s’intende) dal 9 all’11 febbraio, che ha alternato alle collezioni dei designer invitati – perlopiù nazionali – seminari e conversazioni incentrate su argomenti di stringente attualità, dalla diversità nel fashion system alla sostenibilità, all’orizzonte post Covid del settore.

Di seguito una carrellata dei principali show presentati durante la settimana modaiola svedese.

Cmmn Swdn

Ad aprire le danze, nella prima giornata dell’evento, è Cmmn Swdn, uno dei marchi svedesi più conosciuti e apprezzati per l’abilità nell’armonizzare elementi (apparentemente) discordi, espressione di dicotomie quali maschile e femminile o materico e fluido. Un’attitudine confermata nella collezione Fall/Winter 2021, in cui trovate stilistiche d’antan vengono integrate in capi e accessori urban, per cui anorak e blouson sono profilati di frange ondeggianti, i pantaloni bootcut si aprono sulle sneakers da trekking e i pattern floreali d’ispirazione 70s sono sparsi su piumini, cappe imbottite e grandi sciarpe coordinate ai maglioni.
La tavolozza propende per cromie da sottobosco, quali marrone bruciato, khaki, ocra e verde, intervallate da flash di turchese e dall’irrinunciabile binomio black & white.



Schnayderman’s

Il brand Schnayderman’s ha iniziato nel 2012 dalla camiceria ed ha rapidamente esteso la propria offerta al total look del guardaroba maschile.
La collezione per la prossima stagione fredda, intitolata ‘The Outsiders’, ruota attorno al viaggio di quattro adolescenti in un luogo ultraterreno; partendo da questo incipit, il racconto per immagini svela outfit dall’allure casual, una sequela di overshirt su pantaloni dal taglio dritto, suit spigliati, completi in denim bleached, caban destrutturati, fleece jacket a collo alto, camicie e pull spennellati con chiazze dégradé, in una palette dai toni autunnali, con incursioni occasionali di ottanio, rosso e blu profondo.



Hope

Per l’autunno/inverno 2021 Frida Bard, direttrice artistica di Hope (griffe high-end di Stoccolma che elude le connotazioni di genere, prevedendo per i propri capi taglie sia maschili sia femminili) riflette su come lo spazio condizioni la percezione di sé, arrivando alla conclusione che, di questi tempi, le persone siano fragili, bisognose di coprirsi adeguatamente.
Il focus è quindi sui filati che meglio restituiscono una sensazione di purezza e intimità (lana, velluto di seta, organza, raso…). Overcoat, puffer jacket, blazer e golf dalla lunghezza extra scorrono leggeri sulla silhouette, accarezzandone i contorni e lasciando un certo spazio – appunto – tra pelle e tessuto, seppure non manchino indumenti più accostati al corpo, tra camicie avvitate e gilet slim. La cartella colori si mantiene sulle nuance neutre tipiche della stagione, con parentesi di rosa bubblegum e arancione.



Chimi Eyewear definisce l’occhialeria presentata nell’ultima giornata della fashion week «un ibrido tra convenzionale e progressista». Nello specifico, si parla di dieci montature diverse contrassegnate da altrettanti numeri, disponibili in sfumature terrose (dall’havana al marrone scuro, all’écru), adatte a qualsiasi occasione, mentre gli occhiali della Core Collection vengono sviluppati tenendo presenti innanzitutto simmetria ed equilibrio dell’insieme.



Sostenibilità

Diversi brand partecipanti hanno messo l’accento sulla questione della sostenibilità, emersa come una sorta di filo conduttore degli show succedutisi nel calendario: House of Dagmar, per esempio, adotta da sempre un approccio basato su tre pilastri – design, etica e longevità, una conditio sine qua non per centrare, entro il 2025, l’ambizioso obiettivo della neutralità carbonica. Self Cinema, invece, in linea con il proprio modus operandi, fondato su «azioni e condotte responsabili e sostenibili», firma abiti easy to wear in materiali che vantano le principali certificazioni in materia (GOTS,  Ecocert, Global Recycle Standard ecc.).
Si possono poi menzionare le scarpe e le borse di ATP Atelier (label fautrice di una singolare crasi tra design scandinavo e artigianato italiano), realizzate nella maggior parte dei casi in vacchetta e altri pellami conciati al naturale, o ancora i capi in denim della capsule collection ‘Plant Based’ di Weekday, frutto di un workshop che ha visto i clienti del marchio colorare il jeans usando tinture ottenute dagli scarti alimentari.
La centralità dei temi green è stata confermata, inoltre, da una serie di panel digitali dai titoli emblematici quali ‘Climate Auction – The Countdown Continues’ o ‘Fashion Recycling – An Exciting Experience’.



C.L.A.S.S. lancia il Manifesto per una moda responsabile

Un concorso annuale che premia un creativo visionario che unisce design, innovazione responsabile e comunicazione, capace di sensibilizzare il consumatore contemporaneo sui nuovi valori della moda sostenibile. E’ la Call to Action lanciata per trovare il C.L.A.S.S. ICON 2021 da Giusy Bettoni di C.L.A.S.S. nel panel Smart Voices “C.L.A.S.S. ICON: Award e Manifesto per una moda responsabile”, moderato dalla giornalista green Diana de Marsanich, e cha visto protagonisti lo scorso 10 febbraio lo stilista Gilberto Calzolari, insignito del premio internazionale per creativi visionari nel mondo della moda C.L.A.S.S. ICON Award 2020, e Federico Poletti, Direttore Marketing e Comunicazione di WHITE SHOW.

Durante la Smart Voice sono stati presentati il Manifesto C.L.A.S.S. per una moda responsabile, l’edizione 2021 del concorso C.L.A.S.S. ICON e la Formula della Sostenibilità.

Il premio internazionale è per creativi visionari nel mondo della moda, capaci di veicolare i valori della sostenibilità  non solo tra i professionisti del settore, ma anche al pubblico più ampio: i consumatori. “Abbiamo ideato C.L.A.S.S. ICON per premiare i designer visionari che creano le loro collezioni unendo design, innovazione responsabilità e che sono capaci di comunicare in modo autentico ed efficace ai consumatori i valori che sono dietro ai loro capi. E’ il momento che lo storymaking e lo storytelling si allineino, altrimenti è solo greenwashing” dice Giusy Bettoni.

Dal 15 febbraio al 15 aprile sarà possibile candidarsi inviando una e-mail a [email protected], con la descrizione e gli obiettivi del brand, i valori di sostenibilità adottati e la strategia, il profilo del designer, foto-video racconto dell’ultima collezione, eventuali premi precedenti vinti (tutte le info sul sito www.classecohub.org).

Durante il panel, lo stilista Gilberto Calzolari, primo vincitore del primo C.L.A.S.S. ICON Award, ha condiviso la sua visione per una moda responsabile e i progetti in corso. “Il mio brand è un laboratorio di sperimentazioni. Creo moda per aprire conversazioni e cambiare il modo di comportarsi e pensare. La mia creatività, dalla scelta di tessuti e lavorazioni sino all’immagine che decido comunicare, sono le armi a mia disposizione.  Fin dal primo momento sono stato davvero entusiasta di fare squadra con C.L.A.S.S. per condividere uno stimolante percorso comune, nell’ottica di iniziare a far parte di un network in continua crescita e reciproco supporto. Ho sempre concepito le mie collezioni come una call to action per un futuro migliore e ora più che mai, la mia missione come C.L.A.S.S. ICON è far capire che la sostenibilità può e deve andare di pari passo con la bellezza e l’eleganza. L’adagio “kalòs kai agathòs” è uno degli insegnamenti classici che non va mai dimenticato: l’estetica a mio avviso è inscindibile dall’etica. Per questo non mi rivolgo solo ai professionisti del settore, ma anche al consumatore finale, agli appassionati di moda e oltre” dichiara Gilberto.

Conclude Giusy Bettoni “Un Manifesto per una moda con un impatto il più basso possibile sul pianeta e sulla salute delle persone e degli animali grazie all’innovazione responsabile, perfettamente all’altezza delle sfide che ci pone il lifestyle contemporaneo. Per questo ho ideato la Formula della Sostenibilità che esiste solo quando si uniscono design, innovazione responsabile e siamo in grado di tracciare, misurare l’impatto di prodotti e processi e comunicare i loro valori in maniera adeguata. In una parola, quando c’è la conoscenza” .

“Rains”: l’abbigliamento antipioggia che arriva dal nord

Secondo un detto svedese “det finns inget dåligt väder, bara dåliga kläder”, “non esiste il cattivo tempo, ma solo i vestiti sbagliati”. Il trio di amici danesi Philip Lotko, Daniel Brix e Kenneth Davis hanno così fatto di necessità virtù trasformando l’inclemenza della pioggia in opportunità per ‘ergonomizzare’, e sincronizzare, gli abiti agli uggiosi cieli di Copenhagen.



Nel 2012 nasce ad Aarhus, nella penisola dello Jutland, RAINS, il giovane brand di nicchia dell’abbigliamento rainwear che, partendo dalla reinterpretazione del più classico e tradizionale impermeabile in gomma, la fisherman’s jacket dell’eredità marinara danese, si è imposto sul mercato internazionale con l’apertura di 26 store monomarca nati sotto l’insegna dell’iconico logo del faro che, dal numero 6 di Klostertorvet, illumina la rotta dei nuovi negozi da Melbourne a Shanghai, da New York a Parigi.



Dal poncho degli esordi, a una linea completa dedicata all’outerwear, in abbinato a borse, zaini e accessori, fino a sdoganare l’idea più fluida di un “all-weather lifystyle concept” al suo debutto alla Copenhagen Fashion Week A/I 2020, RAINS lancia il suo singolar tenzone. Una sfida alla pioggia, celebrata, ispirata e affrontata a colpi di design funzionale dove il retaggio del minimalismo nordico trionfa in un moderno concetto di moda cosmopolita.



Il brand danese propone capi semplici e pratici che integrano tessuti tecnici, leggeri, idrorepellenti e waterproof a linee dritte, morbide e nette e alla scelta di un monocromatismo puro, o a sobrio contrasto, giocato sui colori dei paesaggi delle fredde terre del Nord e sulle delicate sfumature dei toni della natura: grigio carbone, bianco sporco e perla, blu, beige, nero, verde oliva, ambra e rosa corallo. Sono un “rifugio climatico”, nel senso figurato del termine, un equipaggiamento urbano in robusto poliestere rivestito dalla flessibilità del poliuretano con saldature ad ultrasuoni, cerniere lampo e rifiniture progettate con materiali ottimizzati per le condizioni di umidità, fibbie gommate, twill cerato, superfici tattili riflettenti, opache e con trasparenze semilucide.



Le collezioni, in una costante visione di espansione climatico-stagionale, esprimono l’atemporale durevolezza di capi senza tempo in linea con le ultime tendenze. Impermeabili con tagli sartoriali o dalle linee casual, con patte frangivento, aperture per la ventilazione, cappucci regolabili con cappello integrato, cappe progettate per i ciclisti, pantaloni, tute ultralight, capispalla e giacche imbottite rappresentano non solo un filtro protettivo tra chi li indossa e gli agenti climatici dai quali difendersi, ma è anche una questione di “hygge”, quella necessità di provare una sensazione di comodità e armonia con ciò che si indossa.



In fondo vestirsi nelle giornate di pioggia non significa necessariamente rinunciare allo stile.



Cortina 2021: tra gare, moda e degustazioni

I Campionati del mondo di sci alpino Cortina 2021, in programma dal 7 al 21 febbraio, sono ufficialmente iniziati: in calendario 13 gare maschili e femminili che porteranno nell’ampezzano oltre 600 atleti da 70 nazioni, insieme a 6.000 persone tra addetti ai lavori, tecnici e preparatori atletici.

Un palcoscenico in cui si disputeranno le gare tecniche di slalom femminile e maschile, nonché gli allenamenti e warm-up dei più grandi atleti di sci al mondo.

Un evento di portata globale che coinvolgerà oltre 500 milioni di persone collegate non solo in diretta televisiva, ma anche tramite i canali social. Proprio i nuovi media, protagonisti indiscussi di quest’ultimo anno segnato dalla pandemia, permetteranno agli appassionati in tutto il mondo di seguire a distanza le due settimane di gare.

Tramite la Cortina 2021 Official App, sarà possibile infatti vivere a 360° gradi la grande avventura dei Mondiali con i propri devices, comodamente da casa. Si tratta di una piattaforma in grado di coinvolgere gli utenti grazie ai tantissimi contenuti esclusivi, studiati appositamente per appassionare e accrescere il grado d’interazione: cronaca live delle gare, behind-the-scenes, contest a premi e la possibilità di assistere in live streaming alle conferenze stampa post-gara.



Non saranno solo gli atleti a contendersi il podio ai Mondiali di Sci Alpino, ma ci sono anche le grandi griffe, pronte a sfoderare le loro proposte da sfoggiare sia in pista che all’aperto.



Fendi, nella versione Tech, combina il logo delle doppie F con le iconiche macchie leopardo e print paisley e con le grafiche Quilted Stripes.

Tessuti traspiranti, termici e impermeabili mescolano pile e lycra, pronti ad essere utilizzati come pantaloni da sci e tute da snowboard. La sostenibilità gioca un ruolo fondamentale: un piumino FF che rivela il motivo Pequin sul collo, realizzato in un tessuto tecnico sostenibile, fatto con filati di nylon rigenerato Econyl: giacche sportive foderate, imbottite con piume d’anatra riciclate.

Per non farsi mancare nulla, Fendi svela una collaborazione con Moonboot per una selezione di audaci stivali, e con Blizzard per gli sci high-tech per donna, a tiratura limitata, rifiniti con il logo FF metallico sulla punta.

E se i mondiali di Cortina sono teatro di sfilate non mancano di certo le risposte delle aziende altoatesine che quest’anno scendono in campo proponendo una collezione di giacconi maschili: la storica Birra Forst, nata nel 1857, leader nella produzione di birra e Franz Kraler, nota famiglia d’imprenditori a capo di una catena di lussuosi negozi. La collaborazione tra i due leader da vita ad una giacca da sci tecnica Forst Franz Kraler, la prima realizzata in un esclusivo vellut stretch (Jaam) nei colori blu/nero oppure in stampa camouflage. Impermeabile, morbido, tecnico e resistente, il risultato è un ottimo compromesso invernale con anche un cappuccio integrato regolabile.



Non manca EA7 all’appello, linea sportiva di Emporio Armani, main sponsor dei Campionati Mondiali di Sci Alpino. Nata nel 2004 come capsule sportiva di Emporio Armani, EA7 ha maturato negli anni una propria identità legata allo sport.



Segue Nordica, partner tecnico del comitato organizzatore dei Mondiali, con una divisione specializzata nella produzione di attrezzatura e calzature sportive per lo sci e l’outdoor.

Proseguendo con la maglieria, Cortina 2021 entra in partnership con Mr. Cashmere, lo shop online dedicato alla maglieria in cashmere 100% made in Italy. Per l’occasione il brand ha realizzato maglioni per Lui in cachemire blu con il logo Cortina 2021, e per Lei maglioni in cachemire con logo in cristalli Swarovski.

Per finire, lo store di Louis Vuitton si impegna a celebrare i mondiali con una scelta di accessori esclusivi come le borse Teddy, in pelle martellata e morbido shearling, gli stivaletti dopo-sci Polar, in nylon impermeabile con motivo Monogram, i pillow poot in caldo piumino.



Insieme agli atleti scenderà in campo in campo anche il beauty.

Acca Kappa ha creato degli esclusivi prodotti per il corpo, a partire da Šfarìa, il profumo dedicato ai Mondiali 2021 ispirato alla neve. Anche Tessitura Monti  si fa notare con le mascherine brandizzate  e certificate. Invece FreeRide Cosmetics, un nuovo brand green e made in Italy, si gioca la carta dei balsami colorati, viso e labbra, dedicati agli atleti, e altri prodotti per la protezione dai raggi solari.


A coronare moda e beauty nello scenario patrimonio dell’Unesco ci pensa il cocktail ufficiale dei mondiali di sci Cortina 2021, realizzato con il Gin 8025 , dal colore rosato che richiama il tramonto sulle montagne, teatro della varie attività. Servito come aperitivo dal gusto delicato, rinfrescante e leggermente alcolico, la bevanda è ideale per scaldare gli animi di tutti. Villa Laviosa è una piccola azienda artigiana dell’Alto Adige che produce grappe, distillati e liquori la cui filosofia è legata alla tradizione e cultura del territorio, con particolare attenzione alla provenienza delle materie prime.

Nella categoria dei liquori prevale quello a base di Grappa al Fieno, dal gusto delicato ed elegante, bevanda aromatica che funge da perfetto collante tra moda, sport e neve.

Ferragamo annuncia un 2021 in sinergia con gli artisti del panorama contemporaneo internazionale

(Digital art in cover di Ruth van Beek)

Moda e avanguardie artistiche s’incontrano attraverso la nuova vision creativa di Salvatore Ferragamo. L’occasione è duplice, tanto per iniziare, con delle capsule che celebrano il San Valentino e il Capodanno Cinese, ma fanno da apripista a un susseguirsi di progetti speciali che scandiranno questo 2021, attraverso l’innovazione e il talento di artisti internazionali, in uno slancio positivo che viaggia sui binari dei nuovi codici contemporanei, mixati a linguaggi multimediali.

Il Chinese New Year celebra l’anno del Bue ed è l’illustratrice Charlotte Mei che ha il ruolo di dare la sua interpretazione attraverso il suo audace uso del colore, che ben s’inserisce in un immaginario astratto fatto di giocose figure tattili e creatività digitale, per raccontare “What makes you Niu?”  
La parola Niu è al centro di questa briosa campagna, nella sua duplice accezione: la traduzione bue dal cinese e il neologismo chinglish per indicare una forte personalità, tenace e audace. Le preziose cravatte in seta, borse e cinture prendono vita, tra elementi pop che ricordano i soggetti fumettistici di Roy Lichtenstein, ricontestualizzando completamente icone di alta pelletteria della maison fiorentina in un universo fantastico e inconsueto, per dar loro un valore rinnovato e senza tempo.

Per San Valentino, sono stati coinvolti lo scultore italiano Davide Ronco, Charlotte Mei, la collage artist
americana Johanna Goodman, il digital artist con sede a Instanbul Mert Keskin e l’olandese Ruth van Beek (in copertina), per realizzare una serie di artwork multimediali, protagonisti della campagna Patchwork of Love.
Un concetto di amore che vuole manifestarsi al di là della coppia, che si estende al mondo come un messaggio di speranza, alimentato dalla passione del marchio verso un sogno destinato a durare nel tempo, e da un profondo sentimento di fiducia verso il futuro.

Patchwork Of Love trova la sua massima espressione nell’elemento di contrasto nei colori, nelle forme e nel logo dello stesso brand, rappresentati attraverso le forti personalità degli artisti. Dalla solidità materica delle sculture di Davide Ronco che fa emergere il logo Gancini dalla roccia come un elemento primordiale che esiste da sempre, ai collage dal sapore surrealista di Johanna Goodman e Ruth Van Beek, ai patchwork giocosi di Charlotte Mei che prendono vita con gif animate in un ritmato sbattito di tacco che ricorda il movimento di Dorothy nel Mago di Oz; fino alla digitalizzazione estrema dell’immagine che prende le sembianze di un videogioco anni 90, nella visione dell’artista Mert Keskin la cui opera è stata esposta anche al Whitney Museum of American Art a New York.




Talents meets fashion: il backstage

Vi portiamo “Dietro le Quinte” dello Speciale che ha visto il coinvolgimento dei giovani attori più promettenti del panorama nazionale alle prese con le anteprime moda del prossimo AI 21-22.

Nella splendida cornice dell’ NH Collection Roma Palazzo Cinquecento, Gianmarco Saurino, Guglielmo Poggi, Moisè Curia, Oscar Matteo Giuggioli e Massimiliano Caiazzo hanno indossato le migliori proposte, dei brand emergenti e non, IN ESCLUSIVA solo su Manintown.

Backstage photo ITM srl

Beauty partner Kemon

Grooming Davide Carlucci

Special thanks to Dolce Green






5 collezioni da conoscere dalla prima Arab Fashion Week Men’s

Dal 28 al 30 gennaio Dubai ha ospitato la prima edizione della Arab Fashion Week Men’s, kermesse riservata alle collezioni uomo per il prossimo Autunno/Inverno di quindici designer provenienti, oltre che dal Medio Oriente, da Regno Unito e Francia.
La sinergia tra l’Arab Fashion Council e la Fédération de la Haute Couture et de la Mode, infatti, ha assicurato la presenza nella line-up di cinque nomi emergenti della scena parigina, ponendo le basi per una manifestazione che, nelle intenzioni degli organizzatori, voleva esplorare le possibilità dell’abbigliamento maschile, andando oltre le categorie abituali di formale o street, spingendo gli uomini e in generale gli appassionati della regione ad abbracciare uno stile più eterogeneo e sperimentale.

Ecco dunque un riepilogo dei défilé – a nostro avviso – più interessanti dell’evento.

Anomalous

Nel calendario della prima giornata si distingue Anomalous del giovane talento arabo Rabih Rowell, un marchio che, fedele alla visione dualistica insita nel nome stesso (un richiamo alla teoria filosofica del monismo anomalo), inscena un clash di categorie, materiali e reference in cui si avvicendano senza soluzione di continuità silhouette maschili e femminili, t-shirt aderenti e shorts dalla vita sdoppiata, pajamas lucenti e tute in denim fiammato, overcoat dalle proporzioni architettoniche e spolverini basici, linee sinuose e volumi più strutturati.

Ugualmente eclettica la palette, che spazia tra colori soft e sfumature luminose di grigio perla, vermiglio e blu oltremare, mentre a livello di materiali prevalgono texture dalla mano morbida come seta, popeline, velluto e jersey.


Boyfriend the Brand

Boyfriend the Brand è stato fondato nel 2017 da Amine Jreissati, stylist e art director libanese che, dopo un’esperienza di cinque anni nella redazione di Marie Claire Arabia, ha avviato una label genderless dall’attitudine minimalista, focalizzata sui fondamentali del guardaroba, da interpretare e indossare liberamente.

Il video di presentazione alterna riferimenti alla tragica esplosione nel porto di Beirut dell’agosto 2020 alle immagini ravvicinate dei capi della Season 7, una serie di overshirt, bluse, giubbini con coulisse e pantaloni dalle linee pulite e confortevoli, che al ventaglio di tonalità neutre (khaki, marrone, grigio, rosa…) affiancano punte di blu notte, viola e arancione.
Le radici e il vissuto del designer emergono in capi come l’abaya, tradizionale veste araba qui percorsa, sulla schiena, da ricami intrecciati di perline e frange che compongono un verso del compositore Mansour Rahbani; parole arabe, d’altra parte, fanno la loro comparsa anche su alcune tee e accessori.



Emergency Room

Lanciato due anni fa dallo stilista Eric Mathieu Ritter per offrire un’alternativa realmente etica e sostenibile ai tradizionali processi di produzione della moda, Emergency Room dà nuova vita a filati di scarto e tessuti deadstock, mescolandoli in creazioni one of a kind.

Una celebrazione delle infinite possibilità del patchwork, in sostanza, che ritroviamo nella collezione ‘Absinthe Blues 2.0’, una sequenza di giacche oversize, camicie e soprabiti confezionati unendo pannelli disparati; le superfici, perlopiù frammentate, lasciano in evidenza imbastiture, orli a vivo e cuciture, così da rimarcare l’unicità di ciascun indumento.

Completano il quadro stampe folk riprodotte sul jeans, copricapo spigolosi, top a collo alto aderenti e maglie dai profili asimmetrici.



Lazoschmidl

Parte della cinquina di griffe in trasferta dalla fashion week parigina, Lazoschmidl nelle ultime stagioni si è fatto notare per la capacità di sovvertire i preconcetti su genere, mascolinità e queerness, puntando sull’audacia dei tagli e le provocazioni ben calibrate.
Nella collezione F/W 2021 il punto di partenza è l’abbigliamento dal retrogusto fanciullesco, rivisitato attraverso robuste iniezioni di humour e sensualità: così capi e decori considerati generalmente infantili (salopette, gilet, maglioni all’uncinetto, cappellini, disegni di animali, dinosauri, dolciumi eccetera) si intersecano con boutade maliziose, slip inguinali, tessuti traforati per svelare porzioni di pelle, magliette e pantaloni in vinile che più stretch non si può, andando a comporre un guardaroba esuberante, adatto a chi non teme di osare pur senza prendersi troppo sul serio.



Valette Studio

Dopo il debutto, il mese scorso, nella settimana della moda maschile francese, Valette Studio fa tappa nell’emirato con la collezione per il prossimo autunno-inverno. Il fondatore Pierre-François Valette, riferendosi al suo brand, parla di «eleganza indisciplinata», un’espressione effettivamente indovinata per rendere l’aria di (studiata) nonchalance emanata dagli outfit, tra suit dai colori vitaminici, motivi grafici e orpelli di derivazione sportiva o utilitarian; sono capi adatti a dandy urbani, che prediligono tagli netti e precisi ma non disdegnano un tocco di eccentricità, affidato ad esempio alle tonalità fluo di bordi, nastri o trapuntature, ai pin metallici sparsi qua e là, alle patch in tessuto stampato che penzolano dalla vita, agganciate a spille da balia.



DALPAOS brand project: visioni stregate per l’emergente più cool del triveneto

Abbiamo sete di ottimismo e lo sguardo di DALPAOS è volto verso un mondo fatto di bellezza non convenzionale. 

Finalista di Who’s on Next 2020, Nicola D’Alpaos, bellunese con un background londinese, ha una particolare dedizione a tutta l’estetica green e a tutto ciò che si sviluppa nel segno della fluidità di genere. Nonostante il suo essere emerging ha all’attivo numerose collaborazioni con aziende del Made in Italy e Start Up, per lo più estere, seguendone idee, campionature e produzioni. 

The plant lover. Nella Fall/ Winter 21- 22 DALPAOS racconta una serie di piante velenose e droganti per svelarne le proprietà benefiche ed il loro aspetto artistico ed unico invece che quello distruttivo. 

In che modalità l’ispirazione è giunta dall’affascinante mondo dell’Enciclopedia Botanica? 

Ho sempre avuto una grande passione per la progettazione ed il design di giardini e parchi così come per tutte le tipologie di piante, soprattutto ornamentali.
Disegnando la collezione ed immaginandone una sua presentazione digitale, ho pensato fosse interessante rendere omaggio all’Alpago, mio luogo d’origine, in cui è stato ambientato il video di presentazione della collezione, inserendo un’inusuale selezione di piante e funghi stampati e ricamati. 

Lo studio attento dei pattern, tutti rigorosamente disegnati e dipinti a mano, prima di essere digitalizzati; nonché le stampe ad acqua, i ricami e l’uncinetto. Come è strutturato il processo artigianale dietro DALPAOS? 

La cosa affascinante di questo lavoro è la possibilità di spaziare con le tecniche di lavorazione: si può partire da una moderna stampa digitale e finire con un ricamo fatto all’uncinetto creato da persone che hanno appreso la tecnica che le è stata tramandata per generazioni.
Dopo aver sviluppato l’idea nascono collaborazioni con artisti, artigiani ed aziende che ci portano al risultato finale.
Credo sia interessante creare il giusto equilibrio all’interno di una collezione presentando capi industrializzabili affiancati a pezzi unici che possano essere prodotti in edizione limitata. 




I nostalgici degli anni Novanta hanno acclamato il movie presentato durante la MFW, DALPAOS WITCH PROJECT chiaramente ispirato a una delle pietre miliari dell’horror, “The Blair Witch Project”. Raccontaci come è avvenuto il colpo di genio. 

Immaginando la presentazione digitale della collezione “Optimist” con cui il brand avrebbe debuttato nel calendario della MFW, si sono aperte molte ipotesi. 
Ho voluto scartare a priori lo sviluppo di un video mood o di qualcosa di prettamente emozionale iniziando invece a ragionare ad un cortometraggio dalla trama più strutturata. 

Non è stato difficile trovare la storia su cui basarci: da appassionato del genere ho pensato che “The Blair Witch Project” fosse il perfetto esempio di narrazione che potesse funzionare con la collezione.
Una volta individuato il fil rougue nel cuore sagomato, diventato simbolo del brand, la trama si è presto sviluppata.
La foresta del Cansiglio, vicina al mio luogo d’origine, si adattava al contesto immaginato: con l’aiuto dei miei collaboratori è stato divertente immaginare il percorso da sviluppare basandoci in parte sul film originale ma stravolgendone canoni estetici e significato.
DALPAOS WITCH PROJECT ruota attorno al dna del brand che unisce la passione per l’arte nelle sue varie sfaccettature, per l’ambiente, il design la reinterpretazione. 

Interamente prodotto a livello local, e nei luoghi dell’infanzia , il corto narra i look della collezione intrisa di dettagli urban, materiali provenienti da deathstock o di reciclo, in contrasto con le locations naturali, imperve e desolate. Il casting, inoltre, raggruppa attori che lavorano in diverse zone d’ Italia e all’estero. Quanto è stato complicato produrlo durante le restrizioni pandemiche? 

La decisone di presentare un progetto di questo tipo è stata senz’altro dettata anche dalla fattibilità di produzione viste le numerose restrizioni.
Girando interamente all’aperto, gli attori hanno potuto mantenere ampie distanze sentendosi sicuri e a proprio agio; anche tutto lo staff dietro le quinte ha potuto lavorare in maniera più serena godendosi luogo e atmosfera. 

Molte scene sono state girate autonomamente dagli attori per ricreare quell’effetto amatoriale necessario perchè il corto funzionasse.
Gli attori non sapevano cosa sarebbe successo di preciso durante le riprese rimanendo all’oscuro di cosa avrebbero trovato e dove sarebbero arrivati. Nel briefing iniziale, così come nel copione da seguire, abbiamo spiegato loro il ruolo da interpretare e alcuni punti focali senza che avessero però alcuna idea di cosa sarebbe capitato in realtà. 

Così come The Blair Witch Project ha visto un sequel, sicuramente meno fortunato nel primo, la prossima collezione si muoverà sullo stesso filone oppure sonderà sentieri finora inesplorati?

Ogni nuova stagione è una grande opportunità per esplorare e sperimentare, questo settore si nutre di creatività che ci permette di ideare e sviluppare sempre cose nuove. Con la fine di una collezione sento la necessità di cambiare ed immergermi in qualcosa di differente mantenendo però saldo il dna del brand. 

Special content direction & interview Alessia Caliendo

Photographer Lorenzo Acqua 

Semplicità, relaxing, inspiration. Marco Baldassari presenta i keycode della prossima collezione uomo Eleventy

“Ci riteniamo ambasciatori nel mondo di un lusso responsabile, dell’artigianalità italiana e di uno stile sobrio, elegante, ma soprattutto moderno”, queste le parole di Marco Baldassari, CEO e direttore creativo uomo di Eleventy, brand nato nel segno dell’ Unconventional Chic sinonimo di impeccabilità ed eccellenza.

Manintown lo incontra in esclusiva nello showroom milanese pochi giorni dopo la presentazione della collezione Uomo Fall Winter 21/22.


Lei ha affermato che la nuova collezione si approccia “a un’eleganza pensata per sé stessi; è un nuovo modo di pensare e di essere nel mondo che cambia e si rinnova.” In che modalità le evoluzioni dell’anno pandemico, come la vita vissuta indoor e lo smartworking, hanno influenzato la sua ideazione?

L’attuale situazione mondiale sicuramente ha impattato sulle mie scelte stilistiche che non potevano sottovalutare i nuovi modelli di business. Questo mi ha fatto concentrare sulle shape e sui pesi adatti al lavoro at home per dar vita ad outfit confortevoli e perfetti per le Zoom call.

Perchè è importante aver cura di sé stessi e della propria estetica anche nella virtualità delle interazioni. 

Il tutto ovviamente è stato realizzato nel rispetto dei valori di Eleventy, eccellenza dei tessuti e dei filati totalmente Made in Italy.


Nonostante una proiezione alquanto incerta in merito agli spostamenti correlati ai viaggi Eleventy progetta la MOUNTAIN RESORT CAPSULE. Quali sono le caratteristiche che la descrivono al meglio?

All’interno della collezione abbiamo creato una piccola capsule di outfit colorati pensati per il tempo libero.Una nota vibrante consigliata anche per i week end cittadini.

Quanto delle connotazioni date alla collezione Uomo Fall Winter 21-22 ritroveremo nella donna Eleventy?

Uomo e donna camminano sugli stessi binari.Anche la donna vivrà momenti meno formali nel segno della trasversalità e delle recenti evoluzioni .Eleventy è un brand sostenibile, progettiamo capi senza tempo per dargli valore con il passare delle stagioni, mai come in questo momento.

Gli addetti del settore ricordano con nostalgia le presentazioni fisiche del brand all’interno dello showroom in cui ci troviamo. In che modalità avete scelto di presentare la collezione e come viene effettuata la campagna vendite?

La campagna vendite sta avvenendo in gran parte digitalmente. Per fortuna la pandemia ha accellerato i processi di digitalizzazione ai quali auspicavamo da anni. Dialoghiamo quotidianamente con i buyer internazionali e, anche durante la MFW, abbiamo scelto una modalità di presentazione virtuale in grado di risultare ingaggiante per tutti i nostri target di riferimento.

L’orgoglio del saper fare italiano, che vi contraddistingue sin dal 2006, su cosa punterà nel futuro prossimo e cosa conserverà delle evoluzioni vissute durante la Pandemia?

Noi italiani siamo giramondo, e mai come in questo momento ricordo con nostalgia i grandi apprezzamenti ricevuti per il nostro Paese. Il Made in Italy è il nostro brand, sinonimo di eccellenza e minuziosa artiginalità che ne firmano l’unicità. Produrre interamente nella Penisola ci crea non poca fatica soprattuto perché siamo nati con l’ambizione di essere competitivi. In questi anni ci siamo definiti un brand del frangente smart luxury e continueremo a muoverci in questa direzione avendo ottenuto ottimi consensi.


Special content direction and interview Alessia Caliendo

Photographer Matteo Galvanone

La moda maschile che verrà nelle collezioni della Paris Digital Fashion Week A/I 2021

Cover: © credits Pascal Le Segretain

Con gli effetti nefasti del Covid-19 che continuano a farsi sentire un po’ dappertutto, anche la Paris Fashion Week dedicata al menswear dell’Autunno/Inverno 2021-22 è dovuta ricorrere a un format completamente digitale, spalmando su sei giorni, a partire dal 19 gennaio, la messe di sfilate e presentazioni.
Com’era già accaduto nell’edizione della P/E 2021, le griffe in calendario si sono divise tra chi ha semplicemente trasferito online le uscite della passerella o lookbook di turno e chi, invece, ha optato per soluzioni quali fashion film, videoclip, teaser e quant’altro.



Per quanto riguarda le proposte in sé, emerge uno scenario piuttosto composito: se diversi designer hanno abbracciato il cosiddetto comfortwear a base di capi décontracté, forme ampie, materiali cozy eccetera (indotto dal confinamento generalizzato ma destinato a rimanere ben saldo nello scenario presente e futuro), altri hanno dato libero sfogo al proprio estro, immaginando un guardaroba assai meno condizionato dall’intimità domestica, all’insegna quindi di look elaborati, colori brillanti e dettagli inediti.



Ecco allora una rassegna delle collezioni che, a nostro avviso, hanno colto nel segno, proiettando la creatività dei vari brand nella stagione fredda che verrà.

Homme Plissé Issey Miyake

Cambiare tutto restando al contempo fedeli al proprio heritage è l’obiettivo, tutt’altro che agevole, perseguito da Yusuke Kobayashi, direttore creativo della linea maschile di Issey Miyake. L’intento, riecheggiato anche nel titolo dello show ‘Never Change, Ever Change’, viene raggiunto sperimentando nuove declinazioni del plissésignature imprescindibile del marchio, che comprendono tinture in filo, motivi ispirati agli intrecci dei cesti africani e filati riciclati.
Pieghettature minuziose animano dunque blazer, spolverini, jumpsuit e gilet, ariosi ed essenziali, così come i pantaloni più strutturati, che si restringono sul fondo lasciando in evidenze le ginniche scure, frutto della collaborazione con Wakouwa, giunta al terzo capitolo.

Tra l’altro saranno disponibili nel giro di qualche giorno le sneakers high-top della serie precedente, che giocano con i cromatismi opposti di bianco e nero.



Louis Vuitton

Parafrasando Pirandello, li si potrebbe definire archetipi in cerca d’autore: sono i tipi umani del défilé di Louis Vuitton, nello specifico architetti, artisti, vagabondi e venditori. Virgil Abloh ne esamina le (presunte) rispettive tenute d’ordinanza, estendendo il discorso anche ai cliché sugli afroamericani e filtrando il tutto attraverso due possibili lenti, che lui attribuisce alle categorie contrapposte di turisti e puristi.
In definitiva, un’indagine sul potere semiotico della moda, con il creative director che si diverte a stravolgere dinamiche e nozioni vestimentarie spesso considerate automatiche, insistendo sull’effetto straniante di trompe-l’oeil e proporzioni fuori scala: i capispalla assumono così lunghezze spropositate, i bottoni vengono sostituiti da miniature di aerei, moto o martelli, il kilt si accompagna al completo, cappelli e cinturoni da cowboy alle mise più formali; per non dire dei panorami à porter, che consentono di mettersi letteralmente addosso lo skyline di New York, o del celeberrimo monogram della casa, che invade le superfici di abiti, coat e maglieria, come fanno i pattern rubati all’architettura, su tutti quello che riproduce le striature marmoree.
Abloh riserva inoltre grande attenzione agli accessori, destinati ad accendere i desideri dei fashionisti inveterati: basti vedere il borsone-aeroplano o i bicchieri da caffè, entrambi logati LV, of course. 



Yohji Yamamoto

Coerente con la visione decostruttivista che lo contraddistingue da sempre, Yohji Yamamoto traspone nella collezione A/I 2021 lo Zeitgeist di questi tempi opprimenti e tribolati, mescolando cappotti dalle dimensioni esagerate, mascherine ricamate, giacche spioventi, pantaloni dal taglio loose, frasi-manifesto minacciose quali ‘You have to take me to hell’o ‘Born to be terrorist’, grafismi sfumati a contrasto, superfici attraversate da sfilze di cinghie e lacci, un richiamo, quest’ultimo, alle costrizioni delle pratiche bondage.
Si alternano texture eteree e corpose, lisce e stropicciate ad arte, in una sequenza di uscite dominata dal total black di prammatica per il maestro giapponese, interrotta sporadicamente da sprazzi di colore rosso, rosa o arancione.




Dries Van Noten

Nel comunicato della griffe, Dries Van Noten spiega di essersi concentrato sui cardini del guardaroba, ma si parla pur sempre di un designer dalla cifra immaginifica, capace come nessun altro di amalgamare influenze e trovate stilistiche agli antipodi, con una disinvoltura difficile da rendere a parole, eppure inconfondibile. I must dell’abbigliamento maschile scelti per l’occasione (trench, camicie, suit, maglioni, ecc.) rifuggono quindi qualsiasi semplicismo: ammorbiditi nelle proporzioni per trasmettere un’impressione di scioltezza e comodità, si arricchiscono di increspature ad hoc e pattern geometrici mutuati dalla cravatteria, distorti quanto basta per assumere un aspetto vagamente psichedelico.
Le coulisse si insinuano su top e blouson, scombinandone le superfici, mentre i maxi anelli, ricorrenti, trattengono lembi di tessuto, sostituiscono la fibbia delle cinture o, ancora, diventano un decoro metallico da apporre su borse e collane.
Sotto i pantaloni, dalla vita alta eppure languidi, spuntano mocassini e boots dai profili arrotondati, a ribadire la sensazione di generale rilassatezza.



Dior Men

Il tailoring sublimato da tecniche e materiali tipici dell’haute couture, vero filo conduttore del lavoro di Kim Jones per l’uomo della maison, viene stavolta applicato alle uniformi d’epoca.
Stemperando il rigore appunto marziale che li caratterizza, il direttore creativo infonde a overcoat, soprabiti, caban, marsine e giacche da ufficiale un’attitudine dégagé e raffinata al tempo stesso, tra file di bottoni gioiello, passamanerie intricate, ricami geometrici, broche luminose appuntate sul taschino e pennellate astratte eseguite da Peter Doig, (ennesimo) nome di rilievo dell’arte contemporanea chiamato a collaborare con la griffe dopo – tra gli altri – KawsRaymond Pettibon e Kenny Scharf.
Tagli e volumi, studiati al millimetro, tratteggiano una silhouette asciutta ma priva di qualsiasi rigidità, mentre la tavolozza di stagione si mantiene in equilibrio tra toni neutri come blu navy e grigio (particolarmente cari a Monsieur Dior in persona) e flash cromatici di giallo, arancio e rosso.



GmbH

Serhat Isik e Benjamin Huseby – il tandem alla guida della label GmbH – propendono per un abbigliamento energico e sfrontato, imperniato su capi fortemente materici, lontano insomma dall’idea di comfort che, in tempi di pandemia e clausure più o meno forzate, va per la maggiore.
Il riferimento, dichiarato, è alla realtà simulata al computer del film ‘Welt am Draht’, ma sembra suggerire soprattutto il desiderio di ritrovarsi in un mondo altro, popolato da uomini assertivi, disinibiti, che sfoggiano abiti scultorei quasi esclusivamente neri, con qualche accenno di rosso, lime o marrone.
I tagli, precisi come rasoiate, sottolineano le forme di una fisicità volitiva e sensuale, come del resto fanno le giacche fittate, le maglie fascianti e i pantaloni smilzi, spesso infilati negli stivali al ginocchio; per non parlare degli spacchi che scoprono strategicamente spalle, torace o braccia, delle zip diagonali disseminate sulla maggior parte dei capi o delle linee che, spesso e volentieri, finiscono con l’incrociarsi sul petto.

A conferire ulteriore plasticità alle uscite provvedono poi i materiali, in primis la pelle, declinata in suit, giacconi, trench e pantaloni.


Wales Bonner

L’ultima collezione di Grace Wales Bonner rappresenta un ideale trait d’union tra Giamaica e Regno Unito, i paesi cui è maggiormente legata la stilista, londinese di origini caraibiche. Nello specifico, sostiene di aver immaginato il guardaroba di «outsider intellettuali» degli anni ‘80, vale a dire studenti neri di Oxford o Cambridge che, frequentando i prestigiosi atenei, si trovano ad assorbirne i codici identitari, stile incluso.
Ecco allora che la sartorialità severa dell’abbigliamento preppy, qui compendiata in blazer sciancrati, golf a rombi, pantaloni con le pinces e capispalla clean, viene smussata dalla presenza di pattern a righe sovrapposti, inserti floreali, patch in nappa, orli che sbucano dal maglione allungandosi ben oltre la vita e altri particolari inusuali. 

Dulcis in fundo, si rinnova il sodalizio con Adidas, per sneakers dall’appeal vintage e tracksuit percorse dalle tre strisce del marchio.



Casablanca

L’esuberanza nel look di un manipolo di jet-setter degli anni Sessanta, intenti a festeggiare in un sontuoso palazzo sulla Côte d’Azur: parte da questa suggestione Charaf Tajer, designer di Casablanca, per costruire il guardaroba A/I 2021 del brand.
Il racconto degli outfit, compresi quelli della neonata divisione womenswear, è affidato a un video rilasciato sui canali social della griffe, che si snoda tra stampe lussureggianti, pullover lavorati a intarsio oppure incrostati di broderie, colli voluminosi, tessuti soffici che sfiorano il corpo.

A livello di forme, è evidente il contrasto tra giubbotti e giacche, boxy e corte sulla vita, e i pantaloni svasati e fluttuanti che caratterizzano la parte inferiore delle mise.
Per quanto riguarda le calzature, spicca l’ultima iterazione della partnership con New Balance, ossia una scarpa da running candida, illuminata da tocchi di arancione e verde. 

La palette si adegua al mood squisitamente retrò che pervade l’intero show, alternando cromie delicate – dal lilla al crema – e nuance vibranti di giallo, rosso e blu.



Barbera Sandro & Figli: calzature d’eccellenza da oltre 50 anni

Il laboratorio Barbera Sandro & Figli nasce 53 anni fa a Biella, comune dalla lunga e gloriosa tradizione nel settore tessile, dove Sandro Barbera, con il supporto cruciale della moglie Luciana, apre un’omonima “bottega”, passando ben presto dalla riparazione alla produzione in proprio di scarpe.
L’obiettivo è chiaro e ambizioso: proporre a una platea di intenditori calzature in pelle della miglior qualità possibile, realizzate rigorosamente a mano, impiegando pellami di pregio e seguendo alla lettera i dettami della tradizione artigianale locale.

Queste peculiarità sono state mantenute dai figli del fondatore Stefano e Andrea, subentrati al padre e decisi a perpetuarne il lavoro, scrivendo nuovi capitoli di una storia pluridecennale che, proprio in occasione del 50esimo anniversario, si è arricchita del riconoscimento di Eccellenza Artigiana, conferito dalla regione Piemonte, al quale sono seguiti il premio Eccellenze Italiane e quello di Artigiano del Cuore.



Ogni modello dell’azienda è totalmente – e orgogliosamente – made in Italy, unico e personalizzabile su richiesta del cliente, al quale Barbera si impegna a consegnare una scarpa pensata per durare, in equilibrio tra raffinatezza timeless e stile contemporaneo, dai materiali preziosi (anch’essi di provenienza 100% italiana), nobilitata da colorazioni e procedimenti ad hoc come la tintura a mano o la lavorazione stone wax.
L’offerta è ampia sia per l’uomo che per la donna, e comprende i classici intramontabili (derby, francesine, mocassini, ecc.) affiancati da modelli più moderni e attenti al gusto odierno.

Abbiamo parlato di tutto ciò, ripercorrendo il percorso del laboratorio di famiglia, con Andrea Barbera.

Può raccontarci com’è nata l’azienda Barbera Sandro & Figli e il suo percorso fino ad oggi?

«Barbera Sandro & Figli è una bottega artigianale che, da oltre mezzo secolo, realizza calzature di qualità, lavorandole rigorosamente a mano e utilizzando solo i migliori materiali italiani.
Il laboratorio è stato avviato nel 1968 dai nostri genitori Sandro e Luciana, cui nel tempo siamo subentrati io e mio fratello Stefano. Proseguire l’attività di famiglia è stato per entrambi un percorso spontaneo, che ha iniziato a delinearsi apprendendo i segreti del mestiere da nostro padre e, più di tutto, lasciandoci contagiare dalla sua passione nel creare con le proprie mani accessori unici, in grado di esprimere tutta la qualità e bellezza del fatto a mano italiano».



Com’è possibile proseguire una tradizione pur restando al passo con i tempi?

«Per quanto ci riguarda, fare scarpe a mano va oltre la “semplice” creazione di calzature eleganti, significa infatti anche ricercare di continuo lavorazioni e materiali innovativi, che garantiscano sempre il massimo comfort. Per raggiungere questo traguardo sono stati necessari anni di studio, esperienza sul campo e un costante aggiornamento a livello di ultime novità del mercato.
Non abbiamo trascurato neppure l’aspetto green, ad esempio ricorrendo per le nostre iconiche Wooly alla lana Merino, sostenibile per definizione, oppure alla gomma eco-friendly per le suole.



È stato poi fondamentale il settore digitale, su cui abbiamo puntato molto, per farci conoscere di più e mantenere un canale diretto con i clienti, vicini o lontani che fossero. Siamo presenti sui social con i nostri account su Facebook, YouTube e Instagram, e abbiamo naturalmente un sito web completo di e-store, così da essere sempre raggiungibili e avere l’opportunità di raccontarci a un pubblico online».


Quali sono i modelli iconici del brand?

«Uno dei modelli più apprezzati è senz’altro la sneaker unisex Wooly, sviluppata insieme al team di Reda Active: è un omaggio al nostro territorio (il biellese, ndr) celebre per i tessuti pregevoli, perciò abbiamo scelto una lana Merino neozelandese – un filato dalle eccezionali proprietà termiche, indossabile dunque in ogni stagione; è una scarpa adatta a uno stile casual come all’abbinamento con il completo spezzato.



Per celebrare il 50esimo anniversario abbiamo lanciato invece le Barberine, belgian loafers esclusive declinate in vitello, suede e altri tessuti; presentano una costruzione Flex, perciò uniscono il massimo della comodità a uno stile raffinato, di gran tendenza.

Da ultime, certamente non per importanza, le Multicolor: sono le calzature con cui ci siamo fatti conoscere ovunque, una gamma di stringate maschili interamente rifinite e tinte a mano; offrono un’ampia possibilità di personalizzazione, perché ciascun cliente può scegliere la sfumatura di ogni elemento che compone la tomaia».



Quali sono le tecniche artigianali che definiscono il vostro heritage e vengono tuttora utilizzate?

«Facciamo ampio ricorso alla tecnica Black Flex cui si accennava prima: si tratta di una lavorazione esclusiva che accentua la morbidezza della calzatura, donandole così un aspetto peculiare e, soprattutto, un’elevata flessibilità.

Un’altra tecnica che è parte integrante del nostro heritage, utilizzata tuttora in alcuni modelli, è quella della tintura a mano, capace di arricchire la scarpa con sfumature di colore irripetibili.



Va menzionata, infine, la procedura stone washed che, come suggerito dal nome, prevede il “lavaggio” con pietre delle calzature, per conferirgli una patina vintage e ammorbidirne la pelle, ottenendo così una texture unica, attuale e dagli accenti grintosi».

Quali sono i progetti per il futuro e quali, invece, le strategie che state mettendo in atto per superare questa fase di difficoltà?

«In questo periodo puntiamo molto sull’online e continuiamo a investire nella comunicazione digitale, implementando inoltre servizi innovativi per soddisfare le richieste ed esigenze della nostra clientela, ad esempio il Virtual Shop, ossia la possibilità, attraverso la prenotazione di una videochiamata su WhatsApp, di entrare virtualmente nel laboratorio ed essere consigliati riguardo numeri e stili delle calzature.



Il rapporto diretto con le persone è certamente uno degli aspetti che amiamo maggiormente del nostro lavoro, crediamo però che, anche a distanza e con tutte le difficoltà del caso, relazionarsi con gli altri sia più importante che mai, sia per noi che per i nostri clienti».

L’ “uniforme” della moda no gender tradotta nel design di quattro giovani brand

“Uniforme” dal latino uniformis che ha una medesima forma, un medesimo aspetto, appartenente ad un’uguaglianza espressiva senza confini e limiti di genere. Il maschile e il femminile si includono e, talvolta, si escludono l’un l’altro, per diventare una moda neutrale, super partes, un’identità fluida estranea a schemi e a rigori distintivi. Forme semplice, scambievoli e modulari, senza estremismi di androgenizzazione ma improntati ad un mutuo minimalismo. Una nuova rilettura dell’unisex che si conferma essere il segmento dell’industria della moda che, negli ultimi anni, sta mostrando una maggiore vivacità creativa e un’ottimistica lungimiranza nelle previsioni future. Sulla scia dei corsi e ricorsi di una storia del costume non estranea a questo fenomeno di parità e cavalcando le onde di un trend già in voga negli anni ’60, molti giovani brand stanno lavorando su una nuova ri-definizione di abbigliamento genderless in aperta sfida agli stereotipi di genere e a un vestire funzionale, basico e sostenibile legato ad una mono-estetica maschile/femminile.



CHELSEA BRAVO

“Il mio desiderio è lavorare come un artista” e i suoi abiti diventano le sue tele. Quello di Chelsea Bravo, la stilista dal DNA ispano-caraibico divisa tra la nativa New York e l’adottiva Londra, è un design improntato su un approccio moderno alla vestibilità, fatto di costruzioni, materiali sostenibili e silhoutte sciolte che coniugano forma e funzionalità. Stoffe morbide, sovrapposizioni leggere, dettagli a contrasto che disegnano un’estetica che guarda all’oggi e al domani dando agli abiti, concepiti con uno scopo, un’intenzione e un significato, una continuità nel tempo oltre i trend. Una collezione tra arte e design fatta di tute drop crotch (che ieri come oggi restano un simbolico messaggio di parità di genere, come ci ha insegnato Thayaht), maniche a taglio kimono, pantaloni a gamba larga realizzati con l’antico tessuto della canapa, Miki cap, ritagli incisi, ricami fatti a mano, superfici invase da motivi lineari hand painted, visi astratti tradotti su tessutoispirati al dipinto “Head of a Boxer” dell’artista cubista Henri Laurens.



COLD LAUNDRY

Cold Laundry è un brand streetwear fondato nel 2019 dalla coppia London-based Ola e Cerise Alabi. Un marchio dall’anima etica, filosoficamente distante dalle dinamiche del fast fashion e costruito su un senso di rispetto e gentilezza verso le persone e il pianeta. La sua caratteristica dominante balza subito all’occhio ed è metaforicamente riassunta nel motto di introduzione “Escape the Noise”, “Rifuggi dal Frastuono”. Perché lontana da texture ridondanti, surplus di dettagli e forme stravaganti, l’estetica di Cold Laundry è pulita, minimale, un infuso esperienziale che richiama ad una calma imperturbabile a partire dai toni pacati delle palette monocromatiche, alle linee morbide e dolci degli abiti fino ai peaceful landscape scelti per gli scatti del loobook da Los Angeles a Scottsdale, dalla Sicilia a Milos a San Pedro. La sostenibilità fa da fondamento a una rilettura del guardaroba maschile (hoodie, completi, trench, puffer jacket) che in una vestibilità gemellare coniuga il comfort ad un design attento allo stile. “Crediamo che la moda dovrebbe essere senza confini. Tutti noi dovremmo essere liberi di indossare ciò che vogliamo e come vogliamo, per questo siamo orgogliosi di contribuire a cancellare questa linea di confine”.



I AND ME

I And ME è un brand di abbigliamento denim season-less, sostenibile e unisex fondato nel borgo londinese di Hackney dalla designer Jessica Gebhart (per anni Denim Buyer per Topshop) e da suo marito David. Gli abiti sono semplici, pratici e funzionali nelle forme, ideati per assecondare le linee interscambiabili di corpi maschili e femminili e creati sulla mentalità del “Buy Less Buy Better”. Ogni collezione racconta una storia che parte da un’ispirazione o da un viaggio vissuto (come “One Thing Well” che parla del Giappone o “As Daydreams Go” ispirata al workwear vintage francese), e si traduce in tessuti di alta qualità, artigianalità e collaborazioni come quella, tra le tante, con l’azienda italiana Candiani. La robustezza e la resistenza di questo tessuto, ereditato e tramandato, diventano una sfida e un gioco di versatilità in un design contemporaneo che aspira alla longevità.



CARTER YOUNG

Carter Young è un brand newyorkese fondato dal suo giovane direttore creativo, Carter Altman. Gli abiti sono caratterizzati da una vestibilità non convenzionale, dove gli opposti si sintetizzano in uno stile unisex che prende forma e ispirazione dall’estetica del guardaroba maschile classico. Parole d’ordine: sovvertire il tradizionale e ricontestualizzarlo. I tagli sartoriali si modernizzano su linee dal minimalismo casual, mentre la bellezza dell’artigianalità classica si fonde allo spirito contemporaneo dei codici dello street-style per un abbigliamento in grado di infondere a chi lo indossa un “sense of confidence”, una sensazione di fiducia e sicurezza.



TheMenInTown – il backstage

In anteprima il dietro le quinte del più grande censimento digitale dei volti della MFW Fall Winter 2021-2022.

Il contenuto è stato supportato da partner come NH Hotel Group, con NH Collection Milano President a pochi passi dal Duomo”, il team Jeune/Ange Aveda Italia e la food furniture a cura di Pacifik Poke.

Il beauty dei modelli ha visto la firma, invece, dei prodotti di make up e skincare Estée LauderLa Mer.

Scatti backstage a cura di Sara FabbianiDiscromie

Special content direction, production, styling and introduction text Alessia Caliendo

Photographer and video director Kristijan Vojinovic






Manintown Portraits: Lorenzo Seghezzi

La prima volta che ho incontrato Lorenzo Seghezzi eravamo in un caffè di Chinatown, era il 2018, Lorenzo studiava fashion design in Naba e aveva un appuntamento con una drag queen per consegnarle un abito fatto da lui.
Le sue idee erano già ben chiare due anni fa: lottare contro la mascolinità tossica, iniziare un dialogo sul mondo LGBTQ+, analizzare il binarismo di genere e utilizzare gli archetipi della moda per dare vita a un nuovo modo di concepire il guardaroba.
Nel frattempo Lorenzo si è diplomato, è stato selezionato per Milano moda graduate 2019 e Fashion Graduate Italia 2019, ha sfilato ad Alta Roma a gennaio 2020, è stato finalista degli Isko I- Skool Denim Design Awards 2020 e ospite speciale di Gender Project.
In questi due anni sono successe tante cose, il mondo queer ha cercato di far sentire la propria voce, il me too ha preso il sopravvento e abbiamo cominciato a porci diverse domande: Come si combatte il maschilismo? Possiamo mettere in discussione costruzioni sociali così longeve? Da dove partiamo per far sentire la propria voce? Come possiamo fare per creare una lotta sociale collettiva?
Ad alcune di queste domande è molto difficile rispondere, Lorenzo ha cercato di farlo all’interno delle sue prime tre collezioni, un’esplosione di riferimenti queer che ha un solo e unico obiettivo: combattere la mascolinità tossica attraverso l’abbigliamento.

Photographer Clotilde Petrosino/Vogue outtakes 

Producer & Stylist Alessia Caliendo 

MUA Romina Pashollari



Il tuo brand mette in discussione una serie di costruzioni sociali, vuoi parlarci un po’ del tuo percorso?
Sono Lorenzo Seghezzi, fashion designer milanese che va per i ventiquattro. Mi piace cucire capi d’abbigliamento che mettano in discussione tutti quei dogmi e quelle regole socialmente imposte per la società eteronormata cisgender ma troppo strette ed ostacolanti per tutte quelle persone che vengono collocate ai margini o addirittura escluse da essa. Cerco di esprimere questa sensazione di oppressione che la mia generazione (e non solo, ovviamente!) sente, tramite vestiti nei quali voglio integrare tecniche sartoriali e ispirazioni sempre diverse.
Creare vestiti è il mio sfogo personale, è quello a cui penso tutto il giorno e proprio per questo sto cercando di trasformare questa passione in un vero e proprio lavoro.

Photographer & stylist Rossocaravaggio

Model Giuseppe Forchia

Jewelry by Atelier Amaya

MUAH Mattia Andreoli




Recentemente hai subito un attacco di omofobia e cyberbullismo, cos’è successo?
Dieci giorni fa, un noto magazine ha pubblicato un bellissimo articolo riguardante il mio lavoro e la mia esperienza personale come parte della rubrica “The Queer Talks”, progetto fotografico di Clotilde Petrosino che vuole dare voce alla comunità LGBTQ+ raccontando le storie di coloro che ne fanno parte. L’articolo ha coinvolto un team eccellente che è riuscito a portare agli occhi di molti lettori tematiche di cui, a mio avviso, si parla ancora troppo poco. I problemi che il binarismo di genere arreca alla società in cui viviamo, i limiti imposti dalle etichette e dagli stereotipi e così via. L’articolo ha anche presentato una serie di miei ritratti scattati da Clotilde Petrosino stessa nei quali indosso capi delle collezioni di vari brand tra cui Versace, Vivienne Westwood e Antonio Marras selezionati dalla producer e stylist Alessia Caliendo e alcuni dei capi delle mie collezioni. Tra essi un corsetto che, a quanto pare, ha creato parecchio scalpore. Il pezzo ha avuto un riscontro molto positivo ma, come è normale che sia, ha avuto anche qualche commento negativo. Nulla di grave o che non mi aspettassi fino a quando più persone mi hanno fatto notare una serie di storie instagram pubblicate da uno stylist e fashion editor omosessuale abbastanza conosciuto nel settore della moda.
Questa persona ha criticato esplicitamente la mia figura dichiarando in modo becero quanto per lui un uomo con la barba e il corsetto faccia esteticamente schifo, quanto noi giovani siamo fissati ed invasati con i concetti di fluidità di genere, di non-binarismo e di lotta per i nostri diritti rimarcando quanto queste cose per lui siano superflue, urlate ed ostentate inutilmente. Non avendo inizialmente idea di chi fosse, ho pensato di lasciar perdere, ma poi ho saputo che questo comportamento era recidivo. Il mio tentativo di avere una conversazione e un confronto civile in privato è stato vano e ai limiti del surreale. Quando all’omofobia si aggiungono misoginia, transfobia e incoerenza totale, la situazione diventa ancora più grave. La quantità di sostegno e i messaggi positivi che ho ricevuto sono stati molto più di quelli che mi aspettavo. Spero vivamente che l’essersi confrontato con tutte le persone che gli hanno scritto dopo aver letto le mie storie lo abbia aiutato a capire che ha effettivamente esagerato e che un pensiero così chiuso non può più essere tollerato, nel 2021, da parte di una persona che vuole avere un ruolo nel mondo del fashion. Più di tutto mi auguro che questa spiacevole vicenda possa aiutare molte delle persone che si rivedono nel suo punto di vista a capire che non c’è bisogno di offendere, denigrare, sminuire il lavoro e la personalità altrui quando  si può parlare in modo civile ed educato.




Sono sempre di più le persone che gravitano intorno al mondo della moda che denunciano le malefatte di alcuni personaggi del settore, siamo finalmente pronti a un cambiamento?
Io sono convinto che il cambiamento stia già avvenendo in questo momento grazie a tutte le persone che trovano il coraggio e la forza di denunciare quello che è sbagliato e, vorrei aggiungere, controproducente per il settore stesso. Sono cresciuto sentendomi dire “preparati Lorenzo perché il mondo della moda è cattivo e meschino” ma sono pronto ad impegnarmi per renderlo un mondo stimolante ed onesto fondato sulla solidarietà e sull’unione delle menti creative.



Quali sono i tuoi riferimenti artistici?
Sono tantissimi e diversissimi tra loro. Si passa dalle tavole anatomiche illustrate alla pittura surrealista di Ernst e Dalì, sono ossessionato dalle opere di Meret Oppenheim, di Alberto Burri e di Francis Bacon. Amo la letteratura di Pasolini e di Tondelli, il cinema di John Waters, “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante” di Greenway, le mie amiche drag e performer, la fotografia di Robert Mapplethorpe, le popstar e le rockstar degli anni 80, i vestiti di fine ottocento e inizio novecento, gli insetti, i rettili, gli uccelli, le venature del legno.




Sei stato ospite speciale di gender project dove hai presentato la tua ultima collezione “Queer Asmarina”, dicci qualcosa in più.
Ho avuto la fortuna di essere coinvolto nella seconda edizione di Gender Project, progetto nato a Londra dalla mente dell’artista, nonché ormai cara amica,Veronique Charlotte. Gender Project è un progetto no profit itinerante che ogni anno raccoglie i ritratti di cento persone della comunità queer di una città diversa per poi presentarli in una mostra Nel mio caso abbiamo pensato di approfittare del grande spazio per organizzare una sfilata di presentazione della mia collezione ss2021 “Queer Asmarina”. La collezione, realizzata durante il primo lockdown utilizzando materiali di recupero che avevo in casa, vuole essere un omaggio al rapporto più unico che raro tra la comunità africana e quella LGBTQ+ a Milano, in particolare nel quartiere di Porta Venezia. L’influenza della cultura africana nel quartiere è tanto forte che per decenni è stato chiamato “Asmarina” (“piccola Asmara”, capitale Eritrea) e negli ultimi anni è diventato punto di ritrovo per la comunità LGBTQ+ milanese. Basti pensare che in Eritrea, Repubblica Presidenziale monopartitica che di fatto è una dittatura totalitaria, l’omosessualità e il transgenderismo vengono, ancora oggi, puniti con la pena di morte per capire che questo è un fenomeno più unico che raro. Con zero budget, zero esperienza nell’organizzazione di eventi e in piena impennata di casi covid, insieme al mio compagno siamo riusciti ad organizzare un evento che ha avuto un riscontro positivo inimmaginabile per me e che ha coinvolto un sacco di persone fantastiche. Abbiamo addirittura dovuto ripetere la sfilata per due volte perché il numero di spettatori era troppo alto!



Quali sono i tuoi obbiettivi futuri?
Mi piacerebbe riuscire a definire il mio brand in modo ancora più professionale ed espandere la mia rete di vendita, arrivare ad avere una totale indipendenza economica, collaborare con altri artisti, organizzare nuovi eventi, migliorare le mie skills di sartoria e design, trovare nuove ispirazioni… Uno dei miei più grandi obbiettivi è quello di trovare uno studio spazioso adatto a lavorare in comodità. Mi piacerebbe anche molto comprare una macchina da cucire industriale.

Tre nuovi store a Milano da visitare (e in cui fare shopping)

Milano, Orefici 11 (Timberland, The North Face e Napapijri) e Italia Independent: ecco i nuovi negozi hype della città, da non perdere

Tre nuove destinazioni uniche, dedicate allo shopping deluxe. Milano è sempre più capitale dello stile: ne sono prova indiscussa i recenti opening di tre store dedicati a orologeria, occhialeria e abbigliamento urban, rispettivamente D1 Milano, Italia Independent e Orefici 11. Tre nuovi negozi, impreziositi da un interior design ricercato, con l’obiettivo di incoronare il capoluogo lombardo, nel 2021, meta indiscussa dello shopping internazionale.




D1 Milano (in via Mercato 3) D1 Milano, il marchio di orologeria fondato dal giovane imprenditore Dario Spallone, ha aperto il suo primo flagship store italiano a Milano. All’interno, sono presenti tutte le collezioni del brand, esposte attraverso display moderni ed eleganti, che esaltano i dettagli tecnici dei diversi segnatempo. 




Orefici 11 (in via Orefici 11) I negozi monomarca di Timberland, The North Face e Napapijri, per la prima volta insieme, hanno dato vita a uno spazio retail innovativo, dove esperienza digitale e fisica si intrecciano, e dove gli spazi comuni, diversi e di rottura, ospitano prodotti esclusivi e collaborazioni (in edizione limitata) che coinvolgono anche altri brand del gruppo VF per completarne il concetto. Gli oltre 2 mila metri quadri su tre livelli, per un ecosistema fisico e digitale, dialogano costantemente per creare una moderna shop emozional experience, in linea con la strategia hyper-digital. Dotato di un innovativo cloud based in-store POS (Point Of Sale mobile device) e mobile check-out, l’integrazione tra esperienza di acquisto fisica e digitale avviene naturalmente e con continuità, attraverso le opzioni di acquisto online e ritiro in store (anche con prenotazione online), spedizioni dal negozio in tutta Italia, ma anche vendita e spedizione al cliente da altri negozi se non fosse disponibile il prodotto in negozio. 




Italia Independent (in via Fiori Chiari 24) Nel cuore di Brera, luogo magico dall’indole romantica e bohémien, quartiere di artisti, studenti e intellettuali che l’hanno reso ambiente di grande fascino, eleganza e spiccata creatività, è nato il nuovo spazio firmato Italia Independent. Il flagship store, sviluppato su una superficie complessiva di 90 metri quadrati, è stato progettato e realizzato con l’idea guida di accogliere i clienti nella seconda casa meneghina di Lapo Elkann, un ambiente caratterizzato da arredamenti, luci (firmate da un’eccellenza del Made in Italy come FLOS) e layout che rievocano gli spazi in cui lo stesso Lapo vive e lavora. Protagoniste indiscusse, le nuove collezioni Laps Collection by Italia Independent, Hublot Eyewear e CRY Eyewear by Italia Independent, che campeggiano in spazi dedicati così da conferire a ogni linea – in aggiunta al marchio storico Italia Independent – la giusta visibilità. 

Basta Tinder, nascono le nuove app per incontri esclusivi.

Ormai dal 2012 la piattaforma Tinder imperversa nelle metropolitane, nei bar e nelle case di tutto il mondo segnando un profondo cambiamento nelle modalità di dating. Uomini e donne hanno cominciato così a conoscere e selezionare le persone con cui uscire per un drink, una cena o perché no,  una sana serata di sesso tramite il proprio smartphone semplicemente scorrendo le foto dei futuri spasimanti. Se c’è il match allora si da al via alla chat, in teoria destinata ad un incontro faccia a faccia anche se spesso i match rimangono nella home page senza fruttare alcun tipo di conoscenza.
“Domani mi cancello da Tinder” è diventato più o meno come “Domani smetto di fumare” “Domani cerco un nuovo lavoro” o “Domani organizzo una cena con i compagni delle superiori” quelle cose che non si fanno mai, stare su Tinder è invece sempre più accettato e condiviso tanto da spingere attori e cantanti come James Franco, Hillary Duff, Orlando Bloom, Adele e Katy Perry a creare dei profili. Con il tempo però sono nate nuove piattaforme di dating app alcune destinate ad un pubblico più esclusivo altre con maggiori funzionalità.

Ormai dal 2012 la piattaforma Tinder imperversa nelle metropolitane, nei bar e nelle case di tutto il mondo segnando un profondo cambiamento nelle modalità di dating. Uomini e donne hanno cominciato così a conoscere e selezionare le persone con cui uscire per un drink, una cena o perché no,  una sana serata di sesso tramite il proprio smartphone semplicemente scorrendo le foto dei futuri spasimanti. Se c’è il match allora si da al via alla chat, in teoria destinata ad un incontro faccia a faccia anche se spesso i match rimangono nella home page senza fruttare alcun tipo di conoscenza.
“Domani mi cancello da Tinder” è diventato più o meno come “Domani smetto di fumare” “Domani cerco un nuovo lavoro” o “Domani organizzo una cena con i compagni delle superiori” quelle cose che non si fanno mai, stare su Tinder è invece sempre più accettato e condiviso tanto da spingere attori e cantanti come James Franco, Hillary Duff, Orlando Bloom, Adele e Katy Perry a creare dei profili. Con il tempo però sono nate nuove piattaforme di dating app alcune destinate ad un pubblico più esclusivo altre con maggiori funzionalità.

Raya: Appena lanciata sul mercato italiano, Raya è la più misteriosa delle app di incontri. Nata nel 2015 si propone come un app di incontri esclusivi, una sorta di Hermès delle dating app dove si paga una quota per iscriversi, i profili vengono selezionati uno ad uno e non c’è modo di influenzare le selezioni. Non si può rivelare l’identità di chi è su Raya e perché ha deciso di iscriversi anche se alcuni indiscrezioni dicono che tra i nomi più famosi ci siano vincitori di Oscar e Grammy, business man, modelle e attori. Il fulcro dell’app tuttavia sono i giovani creativi, la community ha inoltre la possibilità di accedere alla funzione “Work” dell’app, dove poter mettersi in contatto con potenziali dipendenti o datori di lavoro semplicemente con un click. Numero di follower o bellezza non sono caratteri decisivi per riuscire ad ottenere un profilo, gli unici due requisiti fondamentali sono la passione per la gente, la connessione con gli altri attuali membri della community e chiaramente l’immagine che si decide di voler dar di sé.

9-things-you-need-to-know-about-secretive-celebrity-dating-app-raya-10Luxy:  La più capitalista delle Dating App, Luxy è come Tinder ma solo per milionari. Per iscriversi bisogna di dimostrare di guadagnare più di 200.000 dollari all’anno, la metà dei membri attivi guadagna più di 500.000 dollari e il 41% degli iscritti è milionario. Al momento dell’iscrizione vengono richieste svariate informazioni personali tra cui il brand preferito così da facilitare i membri nell’incontrare l’anima gemella con la quale puoi condividere lo shopping perfetto. Bando alle ciance ed ai moralismi vari, se sei ricco e cerchi un partner del tuo stesso tessuto sociale  allora questa è l’app di incontri perfetta per te, d’altronde negli Stati Uniti sono sempre di più gli americani che preferiscono un partner con lo stesso livello di scolarizzazione, e nel nuovo continente spesso questo ancora significa maggiore reddito.

sharefb

Happn:  Avete avuto un colpo di fulmine in metro e non sapete come approcciarvi? Non disperate c’ Happn, la dating app francese che funziona con la geo-localizzazione e vi permette di contattare le persone che avete incontrato durante la vostra giornata a patto che siano iscritte ad Happn.  Le funzionalità sono più o meno le stesse di Tinder, puoi inserire la tua libreria Spotify, i tuoi interessi e quello che vai cercando, se sei interessato ad un utente basta mandare una richiesta di conversazione  e, in caso di risposta positiva potete iniziare a chattare. Attenzione però, ogni chat costa un credito, i crediti si possono ottenere invitando altre persone o comprandoli, per esempio 100 crediti costano 16.99 €.

Happn-10

Ormai dal 2012 la piattaforma Tinder imperversa nelle metropolitane, nei bar e nelle case di tutto il mondo segnando un profondo cambiamento nelle modalità di dating. Uomini e donne hanno cominciato così a conoscere e selezionare le persone con cui uscire per un drink, una cena o perché no,  una sana serata di sesso tramite il proprio smartphone semplicemente scorrendo le foto dei futuri spasimanti. Se c’è il match allora si da al via alla chat, in teoria destinata ad un incontro faccia a faccia anche se spesso i match rimangono nella home page senza fruttare alcun tipo di conoscenza.
“Domani mi cancello da Tinder” è diventato più o meno come “Domani smetto di fumare” “Domani cerco un nuovo lavoro” o “Domani organizzo una cena con i compagni delle superiori” quelle cose che non si fanno mai, stare su Tinder è invece sempre più accettato e condiviso tanto da spingere attori e cantanti come James Franco, Hillary Duff, Orlando Bloom, Adele e Katy Perry a creare dei profili. Con il tempo però sono nate nuove piattaforme di dating app alcune destinate ad un pubblico più esclusivo altre con maggiori funzionalità.

Once: Avete visto la puntata Hang the dj della quarta stagione di Black Mirror?  Quella dove un sistema gestisce tutte le relazioni amorose accoppiando le persone e definendo quanto tempo devono stare insieme? Ecco non siamo troppo lontani da quel futuro dispotico descritto nella serie tv anglosassone più chiacchierata degli ultimi anni. Once infatti è una vera e propria rivoluzione del sistema dating app; all’utente viene notificato un profilo al giorno selezionato tramite criteri di affinità stabiliti dall’app, successivamente i match hanno 24 ore per contattarsi. Once vuole portare avanti l’idea qualità sopra la quantità abbattendo così le infinite chat inutili con utenti che non ci interessano alle quali tutti rispondiamo o per noia o per cortesia.

App Once-2

Presenti online anche siti come Gnoccatravels per info su viaggi piccanti in Italia e all’estero. 
®Riproduzione riservata

Guida al montgomery, il capospalla cult per la stagione fredda

Il Covid-19, oltre agli effetti nefasti che abbiamo imparato a conoscere, ha rafforzato con ogni probabilità un bisogno generalizzato emerso già prima della pandemia, inerente quella sensazione di conforto che offrono gli abiti particolarmente ampi e robusti, dalle linee coocon, arricchiti magari di una patina used che non guasta mai; quelli, insomma, in cui avvolgersi per sentirsi al sicuro nella temperie attuale, che la pandemia ha reso ancora più incerta.
Le qualità appena elencate sono presenti in toto in uno dei capispalla di punta della stagione autunno/inverno, ossia il montgomery o duffel coat, il giaccone con gli alamari che ha spopolato nelle sfilate delle fashion week a/i 2020 come nei cataloghi delle griffe più disparate. In realtà questo pilastro del guardaroba maschile, al pari di altri illustri “colleghi”, torna ciclicamente nelle proposte outerwear dei designer, magari ritoccato in modo più o meno consistente per adattarsi ai tempi che corrono.

Le origini, comunque, datano alla fine dell’800, quando i marinai della Royal Navy inglese, per ripararsi dalla furia degli elementi che sferzavano i mari del Nord, cominciano a infagottarsi in pastrani di stoffa pesante, confezionata a Duffel, cittadina delle Fiandre che finisce così con l’identificare l’indumento tout court. L’apice della notorietà viene però raggiunto durante la Seconda guerra mondiale grazie al generale britannico Bernard Law Montgomery, figura cruciale per le sorti del conflitto, che è solito indossare un paltò color sabbia, talmente spesso che le truppe prendono a soprannominarlo “Monty Coat”; da lì alla denominazione attuale, il passo è breve.


picture taken in 1958 showing French fashion designer Coco Chanel (L) strolling down the Veneto street in Rome, in company of French author Jean Cocteau (C) and young friend Miss Weiseveiller (R). (Photo credit should read STF/AFP/Getty Images)

L’apprezzamento dei militari è riconducibile ai tratti essenziali dell’indumento, improntati a rigore e praticità, rimasti pressoché invariati fino ai nostri giorni: l’ampiezza delle forme, strutturate pur senza il minimo accenno di rigidità; il tessuto in panno di lana; il cappuccio; il carré sulle spalle; le due tasche frontali a toppa, in cui riporre il nécessaire; e, ovviamente, la chiusura mediante alamari, i caratteristici cordoncini chiusi da bottoni allungati in corno, pelle o legno, pensati per garantire una presa rapida e agevole anche con le mani bagnate.
Terminata la guerra, le eccedenze finiscono sul mercato, e ad accaparrarsene le maggiori quantità sono i coniugi Morris, che danno vita negli anni ’50 a Gloverall, marchio divenuto sinonimo del capo stesso.

Mentre a perpetuare l’appeal marinaresco del duffel coat provvedono film cult dell’epoca come ‘Mare crudele’ o ‘I cannoni di Navarone’,  gli estimatori si moltiplicano curiosamente proprio tra le fila dei ragazzi (e ragazze) coinvolti nei movimenti di protesta e controcultura che scandiscono i decenni seguenti, dai beatnik americani ai mods, ai sessantottini di ogni latitudine; tutti conquistati dal calore e dalla solidità connaturate al capospalla, insieme ai volumi comfy. Alla lista si aggiungono rapidamente intellettuali, registi e artisti in generale, da Jean Cocteau (che prediligeva una vezzosa versione total white) a Stanley Kubrick, passando per Mick Jagger e Jean Genet, e non tardano ad arrivare le interpretazioni degli stilisti.

Negli anni il montgomery ha mantenuto la propria rilevanza nei circuiti della moda, pur seguendo l’andamento carsico cui è soggetto nell’ambiente qualsivoglia capo o accessorio, fino all’ennesimo revival nelle collezioni per la stagione fredda in corso; in questo senso c’è l’imbarazzo della scelta: indicativo il caso di Burberry, dove Riccardo Tisci dà libero corso alla fantasia tra modelli in nuance tenui – rosa sorbetto o bianco con profili scuri a contrasto – e altri vivacizzati dal celebre check della maison, riprodotto all-over. La varietà delle proposte è assicurata anche da Neil Barrett, che si diverte a ibridare il montgomery con dettagli presi in prestito da altre tipologie di capospalla, qui rivestendolo di soffice shearling a mo’ di teddy coat, lì trasferendogli l’imbottitura del piumino, o ancora inserendo la pelle intorno a spalle e chiusure frontali. Stesso discorso per Dsquared2, le cui versioni (come gli altri abiti dello show, d’altra parte) non conoscono mezze misure, passando dall’overcoat scivolato al giubbotto corto in vita.



MSGM punta invece sulla tonalità eye-catching del paltò rosso; in maniera analoga K-Way, brand simbolo degli impermeabili colorati, in scena a gennaio con il primo défilé in assoluto, sceglie per il duffel coat cromie luminose quali verde smeraldo e arancione, aggiungendovi inoltre le tipiche zip multicolor delle sue giacche waterproof.
I marchi Belstaff e Margaret Howell, all’opposto, omaggiano l’heritage militare dell’indumento, il primo declinandolo in una sfumatura salvia, interrotta sulla parte inferiore e lungo le maniche da bande di colore nero; il secondo portando in passerella un modello che più basico non si può.
Di tutt’altro tenore le variazioni sul tema di Yohji Yamamoto, extra long e fluttuanti, strette sul davanti da lunghi nastri che si rincorrono terminando in grandi bottoni rettangolari.

Una selezione di dieci proposte sulle quali orientarsi per arricchire il proprio armadio non può prescindere da diversi dei nomi appena menzionati, che hanno il vantaggio, tra l’altro, di essere disponibili sui vari e-store: sono infatti a portata di clic il cappotto checked nelle sfumature del beige e cammello, in 100% lana, di Burberry, il coat bicolore dalla texture “orsetto” di Neil Barrett, il montgomery over in pelle, foderato in shearling, di Dsquared2; e ancora, il duffel coat dalla nuance vermiglio di MSGM, quello minimal targato Margaret Howell e il modello di K-Way; l’assortimento dei colori di quest’ultimo, oltre a quelli sgargianti di cui sopra, comprende le tonalità canoniche del blu scuro e grigio tortora.
Chi preferisce l’outerwear classico ma con un twist potrebbe prendere in considerazione il cappotto taupe in misto lana PS Paul Smith, arricchito da strisce dall’effetto dégradé, oppure quello della capsule collection JW Anderson X Uniqlo, in cui all’interno del cappuccio fa capolino un rivestimento tartan.



Per gli amanti del low profile, un’opzione da valutare è il montgomery nero Dolce&Gabbana, dal taglio morbido, che evita qualsivoglia orpello per concentrarsi sulla fattura in sé, ineccepibile come d’abitudine della griffe italiana.
Impossibile non chiudere la lista con il duffel coat per antonomasia, quello cioè del sopracitato Gloverall, le cui prerogative risultano pressoché immutate da decenni: quattro alamari in corno; sottogola per poter eventualmente stringere il bavero; fit asciutto quanto basta; lunghezza al ginocchio; produzione orgogliosamente made in England. Un modello adatto ai viaggi sulle navi del secolo scorso come alla vita nelle metropoli odierne, a conferma della sua intrinseca trasversalità d’uso.

Suprema: il luxury outerwear da avere questo inverno

L’eccellenza e la qualità più alta possibile. E’ questo l’obiettivo di Alfio Vanuzzo e Morena Baldan sin da quando nel 1981 hanno fondato Suprema, azienda leader nella produzione di capi in pelle e in montone di qualità. Oggi, dopo il successo commerciale, la collezione si è ampliata e l’azienda prende il suo posto anche nel ramo della pellicceria reinterpretandola secondo le tendenze attuali, con l’obiettivo di offrire al pubblico prodotti raffinati e contemporanei, ma soprattutto riconoscibili.

Il montone resta certamente il must di Suprema, da oltre 30 anni, e si continua ad innovarlo con tecniche di lavorazione all’avanguardia. Stampati a laser, traforati, dipinti o spalmati. I capi vengono realizzati seguendo uno studio approfondito di forme e geometrie inusuali con forte personalità, ma senza tempo.

In questi mesi, gli iconici capi del brand sono stati apprezzati anche da quattro personaggi amati sui social, che li hanno reinterpretati sui loro profili Instagram per la stagione autunno/inverno 2020.

Alessandro Magni (Lifestyle influencer)

Alessandro indossa giaccone in montone merinos brisa, in colore stone, collo a rever, tasca con pattina e occhielli dei bottoni rivestiti in pelle a contrasto.


Elisa Taviti (Imprenditrice e fashion influencer)

Elisa ha scelto un modello in montone lacon francese costruito esattamente come gli iconici trench in gabardine in tutte le sue parti, ma realizzato nella varietà più pregiata di shearling.


Ludovica Valli (Digital influencer)

Ludovica indossa un parka in montone lacon francese rosso , con interno nappato in contrasto nero e coulisse in vita.


Giorgia Cantarini ( Giornalista di moda indipendente e curatrice)

Giorgia indossa un parka in montone lacon francese rame , con interno nappato in contrasto nero e coulisse in vita.

Münn, l’innovativo processo produttivo nel settore della moda

Il designer coreano Hyun-min Han, dopo aver conseguito una laurea al Samsung Art and Design Institute, fonda nel 2013 Münn, l’esempio di un nuovo processo produttivo nel settore moda. 



Inizialmente rivolto ad un pubblico maschile e successivamente anche a quello femminile, il brand ha l’obiettivo di combinare l’abbigliamento formale al workwear, creando così silhouette moderne e strutturate. La realizzazione dei capi segue una linea precisa, opposta al canonico processo di confezione.



La costante necessità di esplorare lavorazioni e materiali rende l’azienda un esempio di innovazione, così come l’attenzione per il pianeta, che ha portato Münn ad utilizzare tessuti ecologici riconosciuti dal marchio “Join Life” e a bandire pellami e pellicce. Lo stilista è stato vincitore del premio internazionale Woolmark Asia, il quale ha riconosciuto la sua abilità eccezionale nell’utilizzo della lana Merino proveniente da tutto il mondo, facendosi conoscere nel settore dell’abbigliamento.



Avendo studiato visual design e fotografia, il suo approccio alla moda è unico. In qualità di designer fondatore del marchio sudcoreano di abbigliamento Münn, riprende la visione olistica di ogni collezione, infondendone però il suo spirito giovanile. “Quando disegno i vestiti riesco ad immaginare nella mia testa come trasformerò i pezzi in un lookbook, come saranno le immagini, come sarà la sfilata” spiega lo stilista, sottolineando il fatto che la moda nel 20esimo secolo non possa fermarsi alla mera creazione di vestiti. “E’ necessario prendere in considerazione tutti i diversi aspetti.”

Profumi, borse, gioielli, co-lab: la scalata al fashion system di Byredo

Qualche giorno fa la superstar del rap Travis Scott ha presentato il suo ultimo progetto Travx Space Rage, eau de parfum e candela abbinata che ambiscono a restituire le sensazioni, olfattive e non solo, di un viaggio nello spazio; si tratta dell’ennesima partnership di rango per Byredo, label di profumeria artistica cui si è rivolto, da ultimo, il cantante americano per realizzare la sua essenza “galattica”.



Il marchio è stato fondato nel 2006 da Ben Gorham, creativo dal percorso decisamente atipico per un contesto formale quale l’haute parfumerie: svedese nato da genitori indiani e canadesi, cresciuto tra il suo paese, Toronto e New York, ex playmaker di basket professionista, una laurea in Belle Arti al Royal Institute of Art di Stoccolma, decide di lanciarsi nel settore dopo un incontro col connazionale e profumiere Pierre Wulff. Per il nome si lascia ispirare dall’espressione, piuttosto evocativa, contenuta in un sonetto di Shakespeare (“by redolent”), per il resto ha le idee chiare: selezionare le migliori materie prime disponibili, affidarsi a nasi d’eccezione (la scelta ricade su Jérôme Epinette e Olivia Giacobetti, due autorità in materia, arruolati per occuparsi rispettivamente di profumi e candele), puntare su una gamma ben assortita di fragranze, rigorosamente unisex, anziché su un singolo prodotto sperando che sia premiato dalle vendite il prima possibile.

Soprattutto, Gorham pensa che il sillage sia una traduzione in note olfattive della propria personalità, un’espressione dunque di singolarità, della voglia di distinguersi da chiunque altro. Non va dimenticato che, alla metà degli anni Zero, la scena mainstream era dominata da best seller quali cK One di Calvin Klein o Fahrenheit di Dior, e si guardava ai profumi in generale come fossero oggetti branché, un succedaneo del lifestyle associato a una determinata griffe. Lui, al contrario, vuole rivolgersi a una cerchia ristretta di intenditori, offrendogli «un mezzo per celebrare la nostra individualità in modo viscerale».



I riscontri sono immediati, le creazioni – Encens Chembur, Bal d’Afrique, Gypsy Water, Mojave Ghost – rimandano a viaggi colmi di ricordi ed emozioni, i flaconi con il tappo tondeggiante nero diventano un cult grazie al design minimalista, e arrivano le prime collaborazioni di livello, a partire da M/Mink, una EdP pensata per restituire l’odore dell’inchiostro sulla pelle mediante una miscela di aldeidi, incenso, ambra, patchouli, cedro e trifoglio, commissionata nel 2009 dal celebre studio creativo M/M Paris; a seguire, il tandem con la coppia di fotografi Inez & Vinoodh per 1996, un blend di note orientali e legnose – dall’iris al cuoio, dal ginepro alla vaniglia – per trasmettere l’emotività di uno degli scatti più suggestivi del duo, ‘Kirsten 1996’ appunto.
Vanno citati poi il progetto a quattro mani con l’artista Carsten Höller (l’autore, per intendersi, degli enormi funghi penzoloni dal soffitto della Fondazione Prada) dal titolo paradigmatico di Insensatus, un dentifricio in edizione limitatissima, le cui molecole dovrebbero stimolare processi fisiologici tali da indirizzare i propri sogni; e l’edizione speciale della fragranza Mister Marvelous, un omaggio al celebre hairstylist olandese Christiaan Houtenbos, accolta in un pack color arancio.

La consacrazione definitiva a nome di rilievo della niche perfumery avviene, con ogni probabilità, grazie a Elevator Music, una limited edition con il Re Mida della moda odierna Virgil Abloh: oltre al jus eponimo, racchiuso in una boccetta attraversata dalle strisce segnaletiche tipiche di Off-White, la selezione comprende t-shirt, jeans, borse a secchiello e handbag dai profili geometrici, queste ultime corredate delle immancabili zip-tie rosse (le fascette emblema dell’estetica industrial di Abloh, ndr).

Non parliamo però di un unicum: Gorham è intenzionato infatti a rendere Byredo un vero e proprio brand, che proponga abiti, accessori, pelletteria e via discorrendo. Nel 2015 lancia pertanto una serie di borse a trapezio dal gusto clean, realizzate artigianalmente in Italia, seguita dagli occhiali da sole co-firmati da Oliver Peoples, le cui lenti colorate sono influenzate dalle eau de parfum, e viceversa. L’anno scorso debutta poi Byproduct, capsule collection di completi sartoriali dai volumi rilassati, cappellini, bag e sneakers hi-top.



Il côté sportivo del fondatore, amante dell’outdoor, trova invece espressione nella linea Possessions of my Soul, realizzata per la stagione spring/summer 2020 con il marchio skiwear Peak Performance, composta di giacche trapuntate, windbreaker, parka, maglie e pantaloni termici in una mischia di tessuti tecnici e pura lana merino, pensati per affrontare vestiti di tutto punto il meteo estremo delle montagne svedesi a nord del Circolo Polare Artico (l’idea è venuta, in effetti, da un’escursione sulle cime di Riksgränsen, in Lapponia). Tutti gli indumenti sono ultraleggeri e completamente ripiegabili, tanto per ribadire lo spirito utilitaristico sotteso alla collezione.

Non mancano nemmeno i gioielli, per i quali la designer Charlotte Chesnais si concentra sulla struttura della catena, ottenendone bracciali, anelli e collane dalle forme allungate, sinuose.
Lo scorso settembre è il turno dell’esordio nel make up con un assortimento di rossetti, mascara, eyeliner e lip balm, curato dalla truccatrice del momento Isamaya FFrench, già consulente per il maquillage di Tom Ford e Christian Louboutin (sua la firma dei LoubiLooks, i lipstick dal tappo lungo e affilato come gli stiletto dello stilista) e ora responsabile del beauty di Burberry. Passano infine pochi giorni e viene annunciato Osyling, un ventaglio di tredici candele profumate per la casa contenute in vasetti di ceramica colorata, disponibili in esclusiva da Ikea; suddivise in tre categorie basilari – floreale, legnosa, fresca – hanno prezzi contenuti, fino a un massimo di 20 euro.
Proprio la collaborazione con il gigante dell’arredamento svedese prova come Gorham sappia passare senza fare una grinza dal mondo delle fragranze di nicchia e del lusso in generale al mass market; una versatilità che gli tornerà senz’altro utile per rafforzare sempre di più lo stile di Byredo, a 360 gradi.

Stone Island entra a far parte di Moncler

Moncler S.p.A. e Sportswear Company S.p.A., società detentrice del marchio Stone Island, annunciano di aver siglato un accordo secondo il quale Stone Island entrerà a far parte di Moncler, con l’obiettivo di sviluppare una nuova visione del lusso.



Uniti dalla filosofia “beyond fashion, beyond luxury“, i due brand italiani rafforzeranno la loro capacità di interpretare le evoluzioni dei codici culturali delle nuove generazioni, posizionandosi all’interno del segmento del nuovo lusso. Un concetto caratterizzato da esperienzialità, inclusività, senso di appartenenza e contaminazione di significati e mondi diversi.

Remo Ruffini, Presidente e Amministratore Delegato di Moncler S.p.A., e Carlo Rivetti, Presidente e Amministratore Delegato di Stone Island, consolidano così la loro visione del futuro e mettono a fattor comune culture imprenditoriali, manageriali e creative, oltre al loro know-how, per rafforzare la competitività di entrambi i brand. Moncler metterà a disposizione di Stone Island conoscenze ed esperienze per valorizzarne il grande potenziale di crescita nei mercati americano ed asiatico e nel canale DTC (Direct to Consumer), oltre alla sua cultura improntata alla sostenibilità.

Remo Ruffini, CEO di Moncler, commenta: “Da sempre ho lavorato per costruire un brand forte, dove unicità e vicinanza con il consumatore sono stati i principali cardini di uno sviluppo sempre oltre le mode e le convenzioni. La condivisione di una stessa visione ci porta oggi ad unirci a Stone Island per disegnare insieme il nostro futuro. […] I brand Moncler e Stone Island vogliono proporre alle nuove generazioni un nuovo concetto di lusso, lontano dai canoni tradizionali in cui i giovani non si riconoscono più. […] È un’unione che si concretizza in un momento difficile per l’Italia e per il mondo, quando tutto sembra incerto e imprevedibile. Credo però che sia proprio in questi momenti che si debbano stimolare nuove energie e nuove ispirazioni per progettare il domani. […]”.

Carlo Rivetti, CEO di Stone Island, continua: “Io e Remo abbiamo deciso di unire le nostre forze e le nostre visioni per affrontare insieme e più forti le sfide che ci aspettano. Abbiamo radici comuni, percorsi imprenditoriali simili e il massimo rispetto sia per i valori profondi dei nostri brand che per le nostre persone. E siamo italiani. […] Questa partnership rappresenta una grande opportunità per il percorso di sviluppo di entrambe le aziende […]. Sarà un’opportunità di scambio e crescita anche per tutte le persone di Moncler e Stone Island con il contributo delle quali continueremo a scrivere, insieme, una storia di ingegno, creatività e professionalità per fare onore all’Italia nel mondo.”

Narrazioni di una moda “cross-cultural”: incontro tra culture, tradizioni e sostenibilità

Gli abiti con le loro trame e i loro intrecci si trasformano nel racconto identitario di chi li realizza. Tessuti, stampe, tagli e cromie diventano la narrazione visuale di popoli, comunità e luoghi. Esploratori di radici, crocevia di retaggi e di culture condivise. A realizzarli sono giovani fashion designer, figli dell’emigrazione culturale e generazionale, dall’upbringing eurocentrico ma dall’estro nativo. Esportatori di una tradizione che diventa ibrida inclusione con lo spirito innovativo del multiculturalismo metropolitano, ma anche disegn creativo che si fa portavoce della ridefinizione di una moderna mascolinità cross-cultural”. Le collezioni sono un invito ad una riflessione aperta ed a una conversazione senza pregiudizi sulla bellezza e sulla percezione della diversità tra culture e tradizioni.



PARIA FARZANEH |Iran/Londra|

La designer di origini iraniane, dopo la laurea alla Ravensbourne University, si è rapidamente imposta sulla scena dello streetwear, nel 2017, grazie alle sue creazioni di fusione e ad un’armonia sinergica tra i poetici motivi persiani e il brulicante contesto urban londinese. I tagli occidentali si sagomano su pattern e colori della tradizione medio-orientale. Le foglie lanceolate del paisley, le stampe xilografate del Ghalamkar (realizzate a mano nella città dei calligrafi e degli stampatori di Isfahan) e i motivi delle ceramiche iraniane diventano sfondi ed intarsi di gilet, track jacket, maglioni e camicie. Le giacche imbottite si muniscono del crimeano cappuccio balaclava e i pantaloni cargo si colorano del verde militare delle uniformi di combattimento. Il tecnologico Gore-Tex incontra l’artigianalità sostenibile delle stoffe persiane. Uno spaccato dell’Iran che Paria non solo esporta nella creazione dei suoi abiti, ma che fa rivivere anche nella narrazione dei sui show, come “Ceremony”, l’emblematica sfilata ispirata alla tradizione dei matrimoni in Medio Oriente. O quella legata all’influenza del Nowruz, il capodanno persiano dei rituali e dell’equinozio di primavera. “Cerco di accompagnare il pubblico in luoghi nei quali non sono mai stati. Non si tratta soltanto di spingerli verso un prodotto o un trend”.



PAULO E ROBERTO RUIZ MUÑOZ |Perù/Parigi|

Paulo e Roberto sono designer, gemelli, limegni di origine, parigini di adozione e fondatori del marchio D.N.I. (Documento Nacional de Indentidad), il brand di moda sostenibile promotore della visione di un Perù contemporaneo svincolato dai pregiudizi, spesso, legati all’America Latina. Il loro è una narrazione stilistica che parte dai ricordi: la cittadina natale Casa Grande, le vecchie foto di famiglia, i giochi in strada, i barconi da pesca, le botteghe del quartiere, i mototaxi, le persone del posto. Un viaggio emozionale tra passato e presente. Un linguaggio che mescola, con innovativa sapienza creativa, le materie prime autoctone, la cultura chicha, l’artigianalità millenaria del Perù e i suoi simboli: i francobolli, la vigogna, l’aguayo, il lama e il Machu Picchu. D.N.I., inoltre, fonda la sua filosofia sul rispetto di un’economia circolare fatta del riutilizzo di tessuti di alta qualità, provenienti da stock di lusso, e del recupero di materiali di scarto come legno, monete e catene usati per realizzare gioielli.



PRIYA AHLUWALIA |India- Nigeria/Londra|

La giovane fashion designer, nata nel 1992 da padre nigeriano e madre indiana, ha fatto del suo eponimo brand un lavoro stilistico di esplorazione, ricerca e sensibilizzazione alla sostenibilità. Priya mescola gli elementi dell’eredità nativa con le radici londinesi, ispirandosi ai volti che incontra su Goldhawk Road, al Columbia Road Flower Market e a Brixton, e sfruttando le potenzialità del vintage e del riciclo per dare ai tessuti e agli abiti una seconda vita e al guardaroba maschile una nuova identità. L’impegno verso una moda etica nasce dall’esperienza dei due viaggi intrapresi, nel 2017, a Lagos, in Nigeria e a Panipat, la città a 90 km da Delhi conosciuta a livello mondiale come il “cimitero dei vestiti usati”, ultimo approdo dall’Occidente degli abiti dismessi o donati ad associazioni caritatevoli. Muovendo proprio dalle sue radici porta alla luce storie dell’industria dei rifiuti dell’abbigliamento e li traghetta verso una visione contemporanea. Un mix e match di ispirazioni dove i materiali riciclati si legano a doppio filo ai nuovi tessuti eco-compatibili e ai tagli laser, il patchworking da “seconda mano” alle macro geometrie di Barbara Brown e ai check del periodo ska, gli abiti sartoriali allo streetwear e ai lounge pants ispirati alla cultura rave degli anni ‘90.  



AMESH WIJESEKERA |Sri Lanka/Londra|

Amesh Wijesekera è lo stilista cingalese dalle colorate creazioni che raccontano, con uno sguardo immerso nella modernità londinese, il “Made in Sri Lanka”, il design contemporaneo, l’artigianalità locale e la bellezza dell’Asia del Sud. Il suo è un viscerale amore per i tessuti, che si traduce in un prezioso lavoro di cooperazione con gli artigiani e le donne dell’isola, e per le tinte forti e psichedeliche, che rievocano tutta l’energia esotica della sua terra. L’uncinetto, la maglieria, i telai a mano, il batik e i tessuti trafugati nel mercato di Pettah, a Colombo, si incontrano e si fondono con le avanzate tecniche digitali dando vita a creazioni interamente realizzate a mano. È un brand che non solo ha sposato la filosofia della sostenibilità e del riciclo, ma è anche una celebrazione della diversità, della fusione culturale, dell’individualità e del senso di libertà. “La moda è il mio mondo fantastico dove posso esprimere me stesso. Dove non esistono barriere”.



RAHEMUR RAHMAN |Bangladesh/Londra|

Rahemur, nato a Londra da genitori bengalesi, usa la moda come creativo strumento di retell per ritrarre ed esplorare, a suo modo, il fascino identitario della terra di origine, il Bangladesh. Il suo è un colorato mosaico di storia e tradizione, di pattern grafici e texture, di sensibilità sostenibile e consapevolezza ecologica, del folclore dell’Asia del Sud e della vivacità londinese del borgo di Tower Hamlets. Rahman è un elegante e giocoso cromatista, tanto che i suoi sono abiti realizzati “for people who dream in colour”, come testimonia la collezione ispirata alla palette di vecchie foto di famiglia di un matrimonio degli anni ’90: rosa pastello, verde menta, tè blu, marrone rètro. Ma è anche un fervido sostenitore dell’eredità del tessile e della cultura sostenibile fatta di tessuti organici, come la seta biologica e il cotone khadi, e di tinture naturali, come l’indigo. È una cultura di appropriazione restituita come eredità da condividere e proteggere.

Natale 2020: i primi consigli per i tuoi regali

Come saranno le festività ai tempi del Covid è una domanda che tutti ci poniamo. Sicuramente ci stiamo preparando a un Natale per molti aspetti diverso, molto più virtuale che reale. Date le recenti riaperture dei negozi però, abbiamo pensato ad una mini guida per chi non vedeva l’ora dello shopping natalizio!


Accessori: un grande classico per chi vuole scegliere un pensiero originale.

Marsupio – MSGM

Berretto – FILA

Sneakers Master – WUSHU

Occhiali Legacy – RODENSTOCK

Cintura – HTC LOS ANGELES

Berretto Portobello – JAIL JAM

Sneakers Urca CWL White Marsala Black – VEJA


Abbigliamento: una selezione di novità a tema con il periodo

Cardigan – THOM BROWNE

Giacca – ROY ROGER’S

Camicia – HANDPICKED

Cardigan – MCS

Dolcevita – PAOLO PECORA MILANO

Camicia con stampa – BOSS x JUSTIN TEODORO

Slip – CALVIN KLEIN


Beauty: cofanetti e pack speciali con cui non si sbaglia mai

Beard Essentials Pochette – KCG

Rasoio MGK 7220 – BRAUN

The Hydra Ritual – ECHOSLINE

Ultimate Star Treatment – GLAM GLOW

Magnificient Mineral Trio – AHAVA

Aqua + Beauty Box – BIOLINE JATO’

Cofanetto Men – SHISEIDO

Clean Skincare – REN

Atelier di Monica in “La Bella Italia”: un progetto a chilometro zero.

La Bella Italia è un progetto che nasce dall’idea artistica di due ragazzi, Fabio e Gilberto, che si occupano rispettivamente di marketing (per Atelier di Monica) e di arte visuale (per LVCE Visual).

Questa idea consiste nell’esaltare la parte più estetica dell’Italia, quell’idea che tanto viene apprezzata all’estero ma che spesso e volentieri non viene valorizzata a dovere proprio all’interno dei confini nazionali.

Il progetto richiama in maniera esplicita un’estetica retrò e vintage, che è tipica del modus operandi di LVCE Visual, e cerca di trasmettere la qualità dei capi e la passione sartoriale che porta Atelier di Monica alla loro ideazione e alla successiva realizzazione.

Ci sono due elementi principali che danno una direzione ben precisa , oltre alla canzone di sottofondo nel video: la città di Bellagio ed il maggiolino d’epoca.

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Bellagio è stata vista come emblema dell’unicità italiana, ed essendo vicina alla sede fisica dell’Atelier è stata scelta anche in un’ottica di valorizzazione del territorio: spesso si guarda con invidia ciò che è lontano e apparentemente irraggiungibile, quando invece basterebbe apprezzare anche ciò che si ha nelle immediate vicinanze.

Il maggiolino d’epoca invece vuole richiamare il periodo d’oro della Bella Italia, quello del boom economico, che ha fatto sì che la nostra nazione diventasse un punto di riferimento anche e soprattutto all’estero per quanto riguarda l’artigianalità e la qualità, che sono di fatto gli assi portanti del Made in Italy e di tutti i lavori sartoriali di Atelier di Monica.

L’utilizzo di questi “stereotipi” riguardanti un’Italia prosperosa è volutamente in contrasto con la natura del progetto, realizzato a chilometro zero. Questo aspetto non va sottovalutato, in quanto l’obiettivo è quello di trasmettere valori ed emozioni a chi guarda, piuttosto che vendere un prodotto o servizio.

La scelta di far posare delle modelle amatoriali vuole sottolineare che la bellezza e l’estetica tipicamente italiane sono alla portata di tutti. Proprio per questo sono state scelte personalità eterogenee, perché la Bella Italia risiede nel modo di essere e non nel modo di apparire.

Atelier di Monica ha da poco lanciato il nuovo sito web (www.atelierdimonica.com) nel quale racconta la propria storia ed i propri valori, oltre a descrivere i servizi personalizzati che offre e mostrare alcune delle collezioni nella sezione dedicata all’e-commerce.

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Credits:
Clothing: Atelier di Monica (@atelierdimonica)
Photo & Video: Gilberto Tommasi
Artistic Direction: Gilberto Tommasi (@ohhgil) & Fabio Meneghin (@fabiomeneghin_)
Models: Giovanna Arumugam (@giovannaarumugam), Elena Valetti (@elevaletti) & Gaia Gandellini (@gaia.gandellini)
Car: The Petrol Heart (@the_petrolheart)

WRÅD e FIAT presentano la capsule “WRÅD x Nuova 500”, all’insegna del design responsabile e dell’innovazione

WRÅD e FIAT sviluppano insieme una capsule innovativa, che verrà lanciata il prossimo 3 dicembre, per celebrare il lancio della Nuova 500, icona del Made in Italy dal 1957. Una collaborazione ispirata alla sostenibilità che ha innescato sinergie creative uniche, manifesto di una nuova cultura del design, sempre più inclusivo.



Con l’indicazione di re-immaginare la felpa, per veicolare i valori della Nuova 500, WRÅD punta in primis su sostenibilità, innovazione e tecnologia. Il tono di grigio è ottenuto con g_pwdr technology, un processo di tintura che ricicla grafite altrimenti scartata, recuperata dall’azienda torinese TECNO EDM. Il progetto restituisce dunque valore ad un minerale prezioso, recuperando fino a 40gr di grafite per ogni capo.



Tingere con grafite riciclata consente a WRÅD di assolvere ad una funzione ambientale, evitando il viaggio in discarica ad un minerale che può rendere i terreni sterili, ad una funzione per la persona, in quanto la tintura con polvere di grafite non è tossica per la pelle ed infine ad una funzione sociale perché l’utilizzo di questa tecnologia consente di continuare una tradizione tintoria che stava pian piano scomparendo. Grazie alla sinergia con l’azienda bresciana 1TrueID, ogni capo della capsule sarà dotato di una smart label con tag NFC per consentire ai clienti di accedere attraverso il proprio smartphone ad informazioni sulla sua origine e sul processo produttivo.

Il primo capitolo verrà presentato il 3 dicembre e a seguire in primavera il chapter 2. Le prime destinazioni sono gli store fisici e online dei partner del brand, quali Boutiques (Milano e Bergamo), Capuzzi Moda (Casoli), Cose (Cremona), GreenPea (Torino), OnYou.it (Arzignano), Tozzi Bologna, Rinascente Milano Piazza Duomo, Spinnaker Boutiques (Alassio e Sanremo) e YOOX. Il coinvolgimento di ogni partner diventa un mezzo per aumentare i kg di grafite riciclati e, più in generale, per avvicinare un pubblico sempre più vasto al tema moda e sostenibilità.

I look in lana Merino di Luna Rossa Prada Pirelli per un guardaroba sportivo e cool

Tutto pronto per la 36^ edizione dell’America’s Cup presented by Prada. In occasione dell’evento alcuni look creati in esclusiva per il team Luna Rossa Prada Pirelli vengono resi disponibili al pubblico. Grande news per tutti gli appassionati del più antico trofeo velico al mondo che potranno acquistare ed indossare i prodotti della mini-collezione, disponibili dal 22 novembre presso selezionate boutique Prada, sull’e-commerce Prada.com e da Luna Rossa store, nel Villaggio America’s Cup di Auckland, in Nuova Zelanda – dove si svolgeranno le regate dal 6 al 21 marzo 2021.



Grazie alla partnership tecnica con The Woolmark Company, annunciata in occasione della 96° edizione di Pitti Uomo a Firenze, sono stati realizzati per la squadra diversi capi in lana Merino: tecnici, altamente performanti e sostenibili da usare durante tutte le attività, dall’allenamento alla gara. Con l’impiego delle tecnologie più innovative la fibra, naturale ed ecologica, risulta essere ideale e confortevole per affrontare ogni tipo di sfida in mare. Tre i prodotti disponibili per tutti coloro che vogliono provare l’emozione di indossare sulla propria pelle parte dell’uniforme del Team Luna Rossa.



La giacca, composta per il 54% da lana Merino australiana, gode di un tessuto traspirante e termoregolante, insieme ad una speciale membrana impermeabile resistente fino ad 11 colonne d’acqua. La polo a mezze maniche è realizzata al 100% in lana Merino: morbida, facilmente lavabile in lavatrice, soffice ed incredibilmente adatta sia durante l’estate che sotto maglioni e felpe, nelle stagioni più fredde. Presente anche la T-Shirt, casual e adatta ad ogni occasione, contenente il 36% di lana Merino. Un capo versatile da mettere anche sotto un blazer scuro o con un jeans.

“L’abbigliamento che utilizziamo durante le nostre attività è fondamentale: i capi che indossiamo devono essere isotermici, elastici, traspiranti e possibilmente impermeabili. Ho scoperto sulla mia pelle che la lana Merino è tutto questo. È una fibra davvero performante, oltre ad essere sostenibile e biodegradabile. Devo ammettere che le nostre nuove uniformi sono state una magnifica sorpresa e riescono a farci star bene sia nel fisico che nello spirito” – Queste le parole di Max Sirena, Team Director e Skipper di Luna Rossa Prada Pirelli, intervistato da noi nel mese di settembre e soddisfatto della collaborazione con l’autorità globale della lana Merino che accompagna la squadra in questo viaggio.

Diego-Go, il magico incontro fra fashion e homeware

Diego-Go è un progetto nuovo che si affaccia al fashion system con entusiasmo e tanta voglia di diversità. Diego-Go è sorriso e colore; afferma diversità ed inclusione, scopre l’universo latino e il valore di una famiglia nuova, imperfetta e sincera, la cosiddetta “familia desastre”.



Questo brand appena nato è frutto di un incontro magico e fortuito tra Diego Marquez, con una lunga esperienza come direttore creativo nella moda, e Massimiliano Lanza, proveniente dal mondo del digitale con una passione e un background artigianale nel mondo del pottery. Una sintonia inaspettata porta al concepimento di un marchio contemporaneo che il prossimo Gennaio 2021 presenterà la sua prima collezione di camicie unisex.



Il 2020, anno che verrà ricordato come un terremoto mondiale, può rappresentare un’opportunità di comunicare un messaggio forte e non convenzionale, dove le discipline, le categorie di prodotto e i background creativi più diversi si fondono. Ecco che al duo di Diego-Go si aggiunge Ana Villegas, illustratrice dall’immaginario poetico e dall’estetica dolce ma al contempo potente. Insieme pensano alle grafiche per la collezione in prossima uscita e decidono di tradurre la loro visione in una linea divertente e dissacrante di homeware e tableware con una proposta di ceramiche, in primis di piatti, coordinata alla collezione stessa. La casa mai come in questo momento rappresenta un luogo cruciale di personalità e ricerca visiva oltre che emozionale. Il piatto non solo diventa un oggetto da esibire e scegliere con grande attenzione, ma porta nella mise en place una nuova comunicazione.



A questo si aggiunge infine l’incontro con un altro artista dell’eyewear, Marco Melis, che dagli anni ‘90 si specializza in montature custom made per celebrity del calibro di Spike Lee e Monica Bellucci. Qui nasce il primo occhiale Diego Go, un unico modello in colori classici e lenti piattissime, che connota una personalità vintage e outsider.

Il loro goal? Creare un mondo personale e multidisciplinare.



Carhartt WIP: stile, qualità e resistenza. Così il brand streetwear ha conquistato il mondo

Resistenza e durevolezza. Queste sono le parole più utilizzate per descrivere i capi di abbigliamento e gli accessori prodotti da Carhartt WIP (work in progress) che puoi trovare su Urban Jungle. Caratteristiche che il brand riprende dall’abbigliamento da lavoro prodotto dall’azienda madre fondata nel lontano 1889 da Hamilton Carhartt. Questa è l’etichetta streetwear ideale per gli uomini che amano indossare maglie e pantaloni comodi e funzionali ma senza rinunciare allo stile. Passiamo in rassegna i capi Carhartt WIP che non possono assolutamente mancare nel tuo guardaroba invernale


Felpe Carhartt WIP: un must-have per qualsiasi stile

La felpa è tra i capi più comodi e versatili in assoluto. Carhartt WIP offre tantissimi modelli con i quali puoi creare outfit sportivi e casual. Si va dalla classica felpa con cappuccio e ampia tasca a marsupio a quelle più basic a girocollo con il logo ricamato sul petto. A tinta unita o con grafiche e fantasie più estrose come il camouflage. La particolarità delle felpe Carhartt WIP è quella di essere realizzate con tessuti traspiranti che offrono un’ottima copertura dal freddo. Un grande classico è la felpa Car-Lux che presenta un design pulito ed è caratterizzata da un isolamento termico senza pari. Guardando le ultime sfilate della stagione autunno-inverno 2020 la felpa è diventata protagonista anche di outfit più eleganti e raffinati. Non sono pochi gli stilisti che l’hanno abbinata a pantaloni dal taglio classico, cappotti oversize e sneakers. Vuoi replicare l’outfit? Acquista una felpa Carhartt WIP nella tonalità che preferisci e crea il tuo look. Un consiglio: preferisci felpe a girocollo rispetto a quelle con cappuccio per poterla indossare senza problemi con qualsiasi cappotto. 

Pantaloni Carhartt WIP: dai classici pantaloni della tuta ai modelli cargo

In quanto a pantaloni c’è l’imbarazzo della scelta. Carhartt WIP copre praticamente tutti gli stili: casual, sportivo ed urban. Il brand è noto per i pantaloni con tasche cargo realizzati in cotone pesante e con cuciture rinforzate. E poi ancora pantaloni della tuta per i più sportivi, pantaloni casual, jeans e salopette. Il design come sempre è pulito e ciò ti consente di abbinarli con qualsiasi tipologia di maglia (felpa, cardigan, pullover) ed anche con le camicie

Giacche corte o parka? 

Carhartt WIP vanta una vasta gamma di giacche e cappotti invernali che si contraddistinguono oltre che per la resistenza e la durevolezza anche per l’ottimo mantenimento del calore. Sei per le giacche di media lunghezza con design semplice? Il Michigan Coat di Carhartt WIP fa per te. Colletto a camicia, chiusura con bottoni a pressione e quattro tasche frontali. Zero fronzoli e massimo comfort. Preferisci i cappotti lunghi? Carhartt WIP propone diverse tipologie di cappotti e parka: dai modelli più standard come il Trent Parka a quelli con cappuccio con pelliccia fino alla linea di cappotti termici ed idrorepellenti GORE-TEX INFINIUM.

Berretti ed altri accessori

E veniamo agli accessori, dettagli preziosi per completare i look. Parliamo di calzini, berretti, piccole borse, zaini e cinture. Anche per tutti questi prodotti l’obiettivo di Carhartt WIP è offrire ai propri clienti accessori pratici e funzionali che durano per tantissimi anni. Un must-have per l’inverno è sicuramente il cappellino. Punta su un modello evergreen: il beanie. Quelli prodotti dal brand americano presentano il classico design con risvolto e logo frontale. Realizzati in lana pregiata ed in tessuto acrilico sono disponibili in tantissimi colori. Con Carhartt WIP ti assicuri accessori di qualità che ti accompagneranno per diverse stagioni e che non passeranno mai di moda. Ottimi anche per fare regali utili ma trendy. 

Sociale & Sostenibile: il progetto SHARE

Un progetto in cui la sostenibilità fa da protagonista, insieme alla solidarietà. Una moda sostenibile che trasforma gli abiti usati in progetti solidali. 



Si chiama Second Hand REuse il progetto che dal 2014 permette di fruire di capi moda usati, a un prezzo davvero accessibile a favore di progetti solidali. Con ben tre mega store a Milano e altri dislocati in altre parti di Italia, SHARE è oggi una realtà che permette al settore della moda Second hand di essere presente e di risultare come un aiuto a coloro che non possono permettersi il lusso dei capi firmati ma non solo. 



Un’iniziativa solidale in cui capi arrivano dalle capitali europee più importanti come Parigi, Berlino, Amsterdam per poi venderli con uno scopo totalmente solidale. Oggi SHARE conta una realtà tutta italiana, con ben sei punti vendita sparsi sul territorio (l’ultimo aperto in via Paravia agli inizi di Novembre), che ha come obiettivo quello di sviluppare un’attività commerciale sostenibile e no profit legata alla moda che possa sostenere progetti sociali nel territorio. Visti i risvolti sembra essere di più anche una vera e propria tendenza che oggi trova sfogo nei vintage store, ma qui naturalmente si parla  di “moda solidale”, totalmente no profit. I vestiti, presentati in modo pulito, ordinato, non superano mai la soglia dei 10/15 euro. Una tendenza che da diversi anni già all’estero è diventata un vero e proprio stile di vita, con tantissimi clienti e un riscontro molto positivo sulle vendite e gli acquisti di capi usati.



Ma non solo: SHARE, con l’assunzione di personale per i propri store, ha così contribuito alla creazione di occupazione di giovani e donne in difficoltà . Infine vi è anche un fine più ambientale grazie al recupero e alla riutilizzazione dei capi che altrimenti sarebbero finiti nelle discariche. I negozi di Milano e Varese sono gestiti da Vesti Solidale, quelli di Lecco e Napoli invece da altre due cooperative sociali senza fine di lucro.

Lo stesso concept retail di SHARE, sviluppato da FASEMODUS ARCHITETTURA, punta sulla creazione di spazi dall’aspetto smart e moderno, ma impiegando materiali naturali e riciclati. Racconta Stefano Cellerino, founder di FASEMODUS, studio di architettura la cui attività di progettazione si basa sulla interpretazione dei molteplici modi d’uso dello spazio contemporaneo per immaginarne nuove evoluzioni: “I negozi SHARE sono ambienti curati, luminosi e con un design unico dove far sentire a proprio agio la clientela che sceglie una moda sostenibile. Negozi intesi come divulgatori di valori, dove vivere un’esperienza speciale dove si percepisce il valore di SHARE basato su temi sempre più importanti per tutti: ambiente e sostenibilità, riciclo e riuso, progetti sociali a sostegno delle fasce di popolazione più deboli”.

Secondo il Presidente  Ing. Matteo Lovatti “SHARE è una proposta di economia circolare e rappresenta un modello di moda sostenibile di alta qualità attento all’ambiente e in grado di creare nuove opportunità di lavoro e di sostegno a progetti sociali del territorio. Attraverso il lavoro diamo la possibilità, anche a persone ritenute ai margini della società, di riscattarsi e di mostrare che hanno ancora un valore per la realizzazione del bene comune.”

Scopri il mondo di SHARE e i punti vendita più vicini

Matteo Ward lancia il suo nuovo progetto per il sociale: School of WRAD

“Sostenibilità: se ne parla tantissimo ma c’è sempre più confusione. Oggi più che mai la verità attorno al tema “moda e sostenibilità” è artificiosamente controllata da realtà il cui unico interesse continua ad essere il profitto, ai danni di milioni di persone e dell’ambiente. Anche l’educazione attorno ad un tema così importante per la vita sul pianeta è diventata puramente un business invece che un servizio inclusivo ed accessibile per tutti” afferma Matteo Ward, CEO e co-founder di WRÅD.



Da questa consapevolezza nasce l’esigenza del brand di lanciare SOW – SCHOOL OF WRÅD, la prima piattaforma indipendente e digitale dedicata interamente alla cultura della sostenibilità. Una community con un obiettivo ambizioso e urgente, vista la criticità della situazione contemporanea: catalizzare l’ascesa di una nuova forma di attivismo sostenibile nelle nuove generazioni attraverso la diffusione della verità attorno al tema moda e sostenibilità in modo chiaro e semplice.

Prima di iniziare con l’annuncio, Matteo ci ha raccontato del suo percorso, iniziato nel 2015, quando, dopo anni di carriera nel mondo tessile, ha compreso l’impatto ambientale dello stesso e, partendo da questa verità, spesso celata agli occhi di tutti, ha deciso di uscire dalla sua zona di comfort e di diventare parte attiva di un cambiamento. Come? Innanzitutto comunicando la sostenibilità, partendo da workshop nelle scuole. Dal suo piccolo liceo di Vicenza di 65 studenti, è arrivato oggi a comunicare con 11 mila studenti delle scuole superiori e università italiane.



L’ispirazione per il secondo step gli è proprio arrivata da loro, gli studenti; infatti, una volta compreso il reale impatto ambientale della moda, la prima domanda che gli veniva posta era “E quindi? Cosa possiamo fare per cambiare tutto questo?”. Per rispondere al quesito Matteo Ward, con l’aiuto di Susanna Marcucci fonda WRAD Innovation, da cui cominciano gli investimenti in ricerca e sviluppo. WRAD e i suoi 27 partner lavorano a diversi progetti; il loro primo brevetto è la tintura con grafite riciclata, grazie alla quale hanno vinto diversi premi in tema sostenibilità. Anche in ambito medico non si sono lasciati sfuggire l’opportunità di lasciare il segno: a Vicenza è da poco diventata obbligatoria una loro creazione: un tessuto in grado di prevenire la proliferazione batterica. Ma non si sono fermati qui, anche in campo informatico si sono fatti conoscere, tramite una blockchain capace di calcolare e comunicare l’impatto ambientale.


Nel 2017 decidono di iniziare a dare in licenza ad altri brand queste tecnologie innovative. Ward inizia a viaggiare il mondo alla ricerca di partner, ma ben presto si rende conto che è troppo prematuro, i potenziali clienti non sono ancora interessati alla sostenibilità. Decidono dunque di fondare un brand, WRAD Design, con lo scopo di coniugare in un capo sia il prodotto che il servizio, nel modo più responsabile e funzionale. Il primo a credere in loro è YOOX, per cui cominciano ad avere anche un ruolo di consulenza e a creare insieme campagne sul tema sostenibilità. Questo pattern si ripete poi coi futuri collaboratori. Successivamente collaborano anche con brand al di fuori del mondo tessile, come Starbucks e Acqua Di Parma. Questa scelta, spiega Matteo Ward, è stata fatta in quanto, quando si parla di sostenibilità, ciò che conta è la missione finale: rispondere alle esigenze dell’umanità.


Nel frattempo Ward si accorge che col passare degli anni, sì, ‘sostenibilità’ è diventata una parola sempre più in uso, ma al contempo è spesso abusata e manipolata dai player del mercato: la moda sostenibile non esiste, al massimo può essere realizzata con più responsabilità. L’educazione in tema poi spesso rimane un discorso elitario, esclusivo, accessibile a pochi, anche per problemi di barriere linguistiche; ma non si può più aspettare, dice Ward, e per questo fonda oggi School Of WRAD: una piattaforma dedicata alla cultura della sostenibilità, organizzata in pacchetti ultra funzionali, economici e disponibili in moltissime lingue. Lo scopo è quello di rendere i lavoratori attivi sul fronte della sostenibilità, mettendo a disposizione dei tools. Il servizio educativo sarà pro bono per coloro che vivono in paesi in difficoltà, ma rilevanti per il mondo tessile (ad esempio il Bangladesh). Ogni partecipante pagante aiuterà la partecipazione gratuita di altri studenti.

Il 24 Novembre verrà aperta una crowdfunding campaign nella piattaforma Indiegogo, dando la possibilità al pubblico di partecipare alla costruzione del progetto e diventare fondatori della scuola. La campagna di raccolta fondi alla quale tutti sono chiamati a partecipare e che scadrà a fine anno è necessaria per supportare WRÅD nella produzione finale della piattaforma digitale e nella traduzione dei contenuti in più lingue locali come Hindi e Farsi, step necessario per rendere ancora più inclusivo il progetto abbattendo le barriere linguistiche.

Editorial: “Il neo-punk non ha stagioni”

Fashion Editor : Francesco Vavallo @francesco_vavallo
Photographer : Niccolo Cacace @thenicspics
Model: Francesco @francescogianfrate
Location: Circolo Filologico Milanese @circolofilologicomilanese

Dal 430 di King’s Road alle boutique delle Champs-Élysées, borchie ed irriverenza anglosassone lasciano spazio a fresco di lana e bon-ton.


Motorcycle jacket and boots – Archive Saint Laurent by Hedi Slimane
Tailored trousers – Archive Tagliatore


Il punk non è morto, è cresciuto, masticato e rielaborato negli anni dalle più importanti maison, divenendone una versione neo-punk capitanata da giovani ragazzi “grunge-twink”, una visione che probabilmente distorce dall’immaginario comune della cultura punk ma non dagli ideali di ribellione che essa rappresenta.
Per definizione la nascita del punk è imputabile alla regina dell’anticonvenzionale, Vivienne Westdood che negli anni 70 con il suo ex-compagno e manager dei Sex Pistols, Malcolm Mclaren, decide di dar vita ad uno store di abiti stravaganti e fuori dal comune, creando una corrente di pensiero liberale e anarchico in grado di attraversare l’oceano, sbarcando negli USA e finendo sulle copertine dei più importanti magazine di moda.


T-shirt – Archive Vetements

Un’estetica riconoscibile ed affascinante in grado di diffondere sicurezza e pieno controllo della propria identità. Acconciature hardcore, spille da balia, jeans strappati e sguardo soporifero lasciano oggi spazio a completi sartoriali, capelli lunghi e curati, occhi di ghiaccio e fascino malinconico. Il nuovo punk è francese, più precisamente della capitale, giovane e dannato, dai capelli lunghi dei Ramones o dai tagli alla Mia Wallace, ascolta musica dai suoni elettronici ed indossa grandi firme rubate dagli archivi del padre o madre matching con look dalle ultime stagioni delle passerelle di haute couture parigina. Da Patti Smith, Luu Reed e Bowie massimi rappresentanti del punk e post-punk ad Andreas Kronthaler, Raf Simons, Billie Ellish ed Hedi Slimane, nuovi patrioti di questa sub-cultura nati dalla ricerca di un’entità mutabile, avanguardista ed ispiratrice.


Suit – Archive Saint Laurent by Yves Saint Laurent
Boots – Archive Saint Laurent by Hedi Slimane


L’iconico chiodo in pelle di Joey Ramone, frontman della band statunitense Ramones  fondatrice del movimento punk-rock newyorkese nel 1974, viene sostituito dal rifinito motorcycle jacket della maison francese Saint Laurent con direzione artistica di Hedi Slimane capitano della guerra contro lo streetstyle, l’acconciatura spettinata di Patti Smith e Luu Reed viene domata e curata, la maleducazione è velata da perbenismo sub-urbano ed infine l’espressione artistica passa attraverso i runway show di Undercover e Maison Margiela.
Il neo-punk parigino non è solo estetica ma una costante ricerca di nuove forme di espressione prendendo come riferimento tutti coloro che negli anni ’70 fecero della protesta interiore uno stile di vita.


Tailored wool suit – Archive Tagliatore
Popeline shirt – Archive Mauro Grifoni
Shoes – Archive Saint Laurent by Hedi Slimane


Ma se il neo-punk parigino è sartoriale ed annoiato dai trend della società, a Los Angeles i giovani latino-americani ritrovano un rifugio nella musica dei Germs e Led Zeppelin, costantemente alla ricerca di nuove forme di evasione, la comunità della città degli angeli è al centro di una bufera sociale che ha come protagonisti piccole band di quartiere con lo spirito di rockers e metallari di fine anni ’70.  Non interessa la politica e non interessano i movimenti culturali, vogliono solo essere liberi di esprimere ciò che sono e che vorrebbero essere con chitarra e batteria e se ciò non dovesse andare bene alla società la risposta è “Non ci importa!”.

Photo 1: Oversize Coat – Archive Del Mare 1911
Sunglasses – Archive Dior by John Galliano

Photo 2: Necktie – Archive Uniform Experiment
Jeans – Levi’s
Belt and boots – Saint Laurent by Hedi Slimane


Che sia a Los Angeles con i ricordi del passato o a Parigi con tailoring e disprezzo per i trend passeggeri della cultura urbana, ciò che accomuna questa onda di millenials irriverenti è la necessità di ritagliarsi un piccolo spazio nel mondo, allora perché non unirsi a questo mosh-pit.
 

Blown Away – The Wind Season

It’s an evening after work. A guy is coming back from work after 10 hours in the office. Surprised by a bad weather, holding a broken umbrella, he is heading home through the night… 

This story is about stress and the struggle of an employee. Colorful accents opposed to grey surfaces of the styling pieces on a black background pointing out the model’s expressions and the movement of hair and clothes. We can see that he was dressed up this morning but now he’s tired with no neat appearance anymore. 

Special content direction, production & styling Alessia Caliendo

Photographer Kristijan Vojinovic

Make up Eleonora Juglair using Armani Beauty

Hair Piera Berdicchia  @thegreenappleitalia

Model Alexander @Thelabmodels

Stylist assistants Andrea Seghesio and Laura Ronga

Digital and light assistant Federico Zotti

Special thanks to Blue Majik Cafè and We make up






Striped suit: VIVIENNE WESTWOOD
Wool turtleneck: CORNELIANI
Leather booties: HTC LOS ANGELES
Felt hat: WOOLRICH



Total Look: TOD’S
Pointed brogues: CARLO PIGNATELLI


Total Look: MONCLER


Gente Roma: “In bad times beautiful things are necessary”

“In bad times beautiful things are necessary” è il messaggio della nuova campagna 2020 di Gente Roma, storica catena romana di boutique multibrand del luxury fashion, punto di riferimento per l’estetica del bello in tutte le sue forme a livello internazionale. La profonda conoscenza della moda, l’attenzione verso l’universo femminile e l’eleganza sono le caratteristiche che distinguono Gente Roma dai propri competitors. Le sue boutique sono punto di ispirazione di numerose celebrità internazionali, quali Francis Ford Coppola, Dustin Hoffman, Jennifer Lopez, Tom Cruise, Zaha Hadid, Giuseppe Tornatore, Richard Gere, Kanye West, Kim Kardashian e molti altri ancora.



La campagna è apparsa lo scorso 7 Novembre con un’inaspettata affissione presso Piazza di Campo dei Fiori a Roma, comunicando un messaggio sociale forte e non un semplice prodotto. In un momento oscuro, in cui il mondo ha vissuto grandi stravolgimenti, Gente Roma lancia un messaggio importante volto alla sensibilizzazione del pubblico nei confronti della cultura in tutte le sue declinazioni. Un grido di speranza e un appello di solidarietà a supporto di tutto il mondo della moda, del cinema e dell’arte in generale, gravemente colpito dal Covid.



Gente ha nominato come art director Giulio Paternò che ha ideato il concept e la comunicazione della nuova campagna delle note boutique luxury fashion. Il risultato finale è un video emozionale che ripercorre le fasi della creazione e del lancio del manifesto finale, svelando il mistero dell’inquietante affissione anonima comparsa una settimana prima a Campo Dei Fiori.



L’attitudine a creare e a cogliere la bellezza costituisce la vera essenza che distingue l’uomo da qualsiasi altra forma vivente sulla Terra. La ricerca della bellezza deve essere un diritto alla portata di tutti; da qui l’idea dell’istituzione di un bando per borse di studio al quale potranno partecipare tutti i giovani creativi, presentando una creazione artistica sul tema “In bad times beautiful things are necessary”.

Smart 360 Flex Dockers® una nuova versione per i pantaloni dal massimo comfort

Dockers® ha lanciato il nuovo Smart 360 Flex nella versione corduroy. Parliamo dell’iconico pantalone caratterizzato dallo stretch quadrielastico che lo rende super versatile e confortevole.


Perfetto sia per il lavoro che per il tempo libero, è al passo con le tendenze moda uomo, pur mantenendo tutte le qualità che caratterizzano da sempre i modelli Smart 360 Flex Dockers. I pantaloni in velluto sono realizzati in due diversi fit: skinny o con gamba dritta, sono dotati di una cintura flessibile per garantire il massimo della comodità. Ultra funzionali sono anche le due tasche con chiusura a zip, una frontale e una sul dietro.



La gamma di colori, che include nero, grigio, cachi e blu carta da zucchero, si adatta ad ogni guardaroba che spazia dal casual al semi formale.

Dockers ha avviato una partnership con Jon Rose, fondatore di “Waves For Water”

La partnership nasce dall’idea che tutto può essere realizzato, non importa quanto possa essere difficile, finché ci sono l’impegno e il duro lavoro. “Work Forward”, ‘Do what you love, and change your world’.

“Waves For Water” vuole porre fine alla crisi idrica globale fornendo sistemi di filtraggio portatili alle comunità che non hanno accesso all’acqua pulita, scavando e rinnovando pozzi e costruendo sistemi di raccolta e stoccaggio dell’acqua piovana. Ad oggi, “Waves For Water” ha fornito la possibilità di avere acqua pulita a oltre 3 milioni di persone in più di 44 paesi.



I due brand hanno molto in comune: entrambi nati in California, “Waves For Water” da dieci anni contribuisce a fornire acqua potabile pulita in tutto il mondo e Dockers® ha trascorso gli stessi dieci anni utilizzando WaterLess, il processo che consente di risparmiare fino al 73% della quantità d’acqua normalmente utilizzata durante le fasi di tintura e finissaggio, per contribuire a ridurre il proprio impatto ambientale. Solo per la Primavera 2020 sono stati risparmiati oltre 20 milioni di litri d’acqua durante i processi di finissaggio della produzione Dockers®. E anche se questo è solo l’inizio, Dockers® mira a diventare uno dei brand di abbigliamento più sostenibili del pianeta. Questo è ciò che rende la nuova partnership triennale con Jon Rose e “Waves For Water” una prospettiva molto interessante: sfruttare le potenzialità di entrambi per garantire un futuro migliore a tutta l’umanità.




Grazie ai valori che Rose e Dockers® condividono, ovvero la volontà di non arrendersi mai, il riconoscimento del potere della comunità, l’amore per la natura e il desiderio di vedere la giustizia sociale e la sostenibilità ambientale raggiungere ogni parte del globo, è stata creata anche una piattaforma per ispirare gli altri ad agire senza remore.

Casablanca, il brand che unisce effortless chic parigino e influenze marocchine

Nell’immaginario comune il nome Casablanca, oltre alla città nel nord del Marocco, evoca le scene di uno dei film più celebri di tutti i tempi, espressione dello star system hollywoodiano incarnato dai protagonisti Humphrey Bogart e Ingrid Bergman. Da due anni a questa parte, tuttavia, identifica anche una tra le più interessanti griffe di ready-to-wear maschile, nota innanzitutto a connoisseur e frequentatori dell’ambiente creativo di Parigi (città dove ha esordito in passerella nel 2019) ma in grado di farsi conoscere, ed apprezzare, ben oltre i confini nazionali.

Dietro l’ascesa fulminea di Casablanca c’è lo stilista franco-marocchino Charaf Tajer, distintosi in precedenza come co-fondatore di Pigalle (marchio street molto quotato oltralpe), collaboratore di Virgil Abloh e animatore della nightlife parigina con il locale Le Pompon, deciso a riportare in auge una visione assai sofisticata e nostalgica dell’abbigliamento vacanziero – quello che un volta caratterizzava il relax nelle località turistiche più elitarie – unendo idealmente le due città della sua vita, la Ville Lumière e Casablanca, appunto. Il nome omaggia il luogo in cui i genitori si sono conosciuti e hanno lavorato (nello stesso atelier) prima di trasferirsi nella capitale francese, dove Tajer è cresciuto in un milieu improntato su moda, arte ed architettura, specializzandosi all’università proprio in quest’ultima disciplina.

L’identità della label, come detto, risulta da un amalgama dello stile parigino e nordafricano, in cui l’eleganza studiata ed effortless al tempo stesso del primo si fonde alle linee morbide e alle cromie, ora intense ora soffuse, del secondo. Lo stesso designer racchiude il concetto nella definizione di «brand francese con un souvenir del Marocco».
Gli abiti Casablanca sprigionano un flair tipicamente seventies: bandite le vestibilità fascianti divenute ormai prassi nel menswear, le forme sono quasi sempre abbondanti, i pants sciolti bilanciano il taglio sagomato delle giacche, generalmente doppiopetto e dai revers a lancia, mentre i jeans, più accostati, seguono la silhouette senza però costringerla. Parliamo di mise che, in passato, avrebbero potuto sfoggiare gli avventori di un resort tropicale a cinque stelle, o di un hotel di montagna altrettanto esclusivo, per godersi un cocktail dopo una sessione in palestra, un trattamento nella spa e via dicendo.



Nonostante la prima collezione risalga alla primavera/estate 2019 e sia stata mostrata in uno showroom improvvisato in casa, raccogliendo comunque il favore dei buyer arrivati a Parigi per i défilé stagionali (incuriositi, pare, da alcuni scatti pubblicati su Instagram), il debutto vero e proprio coincide con lo show per la successiva stagione autunno/inverno 2019-20. Sono qui già presenti quelli che diventeranno i must della griffe, vale a dire camicie in seta dalle stampe lussureggianti (nel caso specifico paesaggi marini, frutti, colonne in marmo), tracksuit dalla mano soffice, completi pajamas, grafiche acquerellate distribuite sull’intero outfit, il tutto declinato in una palette che alterna tonalità sorbetto e nuance piene quali arancione, blu cobalto e bordeaux.

Nella successiva sfilata p/e 2020 aumenta la varietà della proposte, includendo polo lavorate a maglia, giubbini in camoscio, shorts con coulisse, abiti décontracté, pantaloni fluidi alternati a modelli più lineari. Per l’a/i di quest’anno cambiano le reference – una vacanza invernale sul Lago di Garda – ma non la sostanza, perché le uscite in passerella rivelano un gusto decisamente vintage, tra maglioni intarsiati in cachemire, shearling jacket, suit simili ai tailleur femminili, giacconi trapuntati, vezzosi foulard stretti al collo, check e pattern geometrici dalle dimensioni extra. In occasione della Paris Fashion Week Men’s dello scorso luglio, invece, Tajer opta per una presentazione digitale, consolidando la propria vocazione al leisurewear tra completi da tennis ricamati, flared pants con piega al centro, sahariane, pullover marinière e tute percorse da bande laterali.


Credits Foto 1: Charles Michalet


Proprio l’annus horribilis che stiamo vivendo ha finora rappresentato uno snodo cruciale nel percorso di crescita del brand: a gennaio viene infatti svelata la collaborazione con New Balance, che vede le sneakers 327 dell’azienda Usa colorarsi di quelle sfumature di arancio e verde così ricorrenti nell’abbigliamento Casablanca (la partnership proseguirà poi con due nuove versioni della medesima silhouette, accese da tocchi di colore scuro sulla tomaia). Arriva, quindi, la selezione nella rosa degli otto candidati alla finale del LVMH Prize 2020, successivamente cancellata a causa della pandemia di Covid-19, seguita qualche mese dopo dalla prima prova nel womenswear, inaugurato con una selezione di quindici tra capi e accessori venduti in esclusiva su Net-a-porter. A settembre è infine la volta di un’altra capsule per 24S, la piattaforma dedicata all’e-commerce della holding del lusso LVMH.

Va sottolineato come Casablanca mantenga fin dall’inizio un rapporto privilegiato con i retailer di alto profilo: se le prime collezioni sono state selezionate da boutique del livello di Maxfield  e United Arrows, scorrendo l’elenco degli attuali rivenditori troviamo nomi quali Harvey Nichols, Selfridges, Lane Crawford, Tsum e Galeries Lafayette, per un totale di oltre cento store.
Risultati di tutto rispetto per chi, come Tajer, elude ogni categorizzazione – a cominciare da quella di ennesima rivisitazione dello streetwear – sostenendo semplicemente che il proprio marchio, al di là di «cosa sia o non sia il cool, è incentrato invece sulla bellezza».

Record di Kraler a Bolzano: apre il nuovo store solo per 1 giorno

Il nuovo negozio di Franz Kraler di Bolzano ha già il suo record, forse mondiale: è stato aperto un solo giorno, ieri, per altro senza feste e inaugurazioni. Da oggi, per l’ordinanza contro la pandemia, sono chiuse le saracinesche di via Leonardo da Vinci, che erano state alzate solo ieri mattina e sarà così fino al 22 novembre.



Ma Daniela Kraler è comunque positiva e ottimista. «Ci abbiamo pensato tanto prima di chiudere l’outlet Alexander’s e aprire un vero e proprio negozio Franz Kraler. Abbiamo lavorato tutta l’estate, per rifare gli interni, anche se gli interventi degli architetti Marastoni sono stati sobri e delicati. Per fortuna ci sono venute incontro anche tutte le ditte che ci riforniscono, le quali ci hanno fatto avere la merce senza dei veri e propri ordini. Abbiamo saputo il giorno prima che il giorno dopo avremmo chiuso, ma l’abbiamo aperto lo stesso e l’abbiamo presa con filosofia. Sul momento mi è venuto un colpo al cuore, dopo tutto il lavoro fatto, i tanti progetti, le speranze, ma abbiamo pensato che valeva la pena aprire anche se per un solo giorno. Per noi era importante dare un messaggio alla gente e alla città: bisogna reagire, bisogna combattere, bisogna rimboccarsi le maniche e credere in quello che ci fa. E non dobbiamo lasciarci abbattere. Era da tanto che pensavamo di aprire anche qui il nostro negozio, in una città e non solo nei luoghi di villeggiatura. È stata una scommessa e dovremo aspettare un po’ per sapere se l’abbiamo vinta. Ma non dobbiamo lasciarci prendere dalla depressione, anche se è una situazione straziante. Io sono positiva, innamorata del mio lavoro e lo faccio con passione e cerco di reagire alle delusioni e ai momenti di sconforto. Non sono triste o delusa, cerco di trovare la forza dentro di me. Accetto e rispetto le re-gole perché sono fatte per difenderci, non per danneggiarci. Sono previste delle proteste anche a Bolzano, ma io non ci prenderò mai parte».



Anche Daniela Kraler, come buona parte della popolazione sarà costretta a lavorare da casa. Cos’è cambiato nel mondo della moda?

DK: «È cambiato tutto, ma non tutto in peggio. Non si fanno più sfilate e fashion week, non corriamo più come trottole in giro per il mondo. Si fanno acquisti più mirati, le stagioni sono molto più lunghe. Si lavora da casa, in tele-conferenza. Il clima è più rilassato e vengono le idee migliori. È cambiata anche la moda, che è diventata molto più portabile. Adesso va l’abbigliamento comodo e pratico, quasi da sport, da tenere in casa e quando si esce. Anche il lusso fa i conti con la crisi, che non è solo economica, ma anche sanitaria, psicologica, una crisi che mette in dubbio tutte le nostre certezze. Noi vogliamo dare un segnale positivo di speranza: prima o poi tutto questo finirà, riprenderemo in mano la nostra vita, si spera prima possibile se rispetteremo tutti le regole. Anche noi ne usciremo diversi. Forse migliori. Daremo il giusto valore alle cose. E ultimamente ci siamo lasciati prendere un po’ troppo la mano, sopravvalutando cose che in questo momento ci appaiono poco importanti o viceversa dando poco valore a cose che sono invece importanti». 

Un percorso di benessere e cultura ai piedi della Madonnina – L’arabesque

Esiste, nel cuore di Milano, un tempio per rinascere e prendersi cura di sé, in cui l’arte della bellezza è un percorso che parte dal cuore, viaggia intorno al mondo alla ricerca di elementi unici e introvabili, per tornare in questo luogo di cultura, dedicato alla cura del corpo e dello spirito, nel rispetto della nostra unicità.

L’idea è di Chichi Meroni visionaria con il pallino della condivisione, che, con il suo cult store L’Arabesque, racconta il lusso con il rispetto e la cura necessarie per design e materiali, seguendo un flusso creativo che risponde alla sua idea di estetica sofisticata e affamata di creatività. 

Le sue collezioni, hanno un’eleganza senza tempo, ispirate da pezzi di design degli Anni ’50 e ’60, un importante archivio di abiti e accessori vintage, sfavillanti bijoux d’epoca, libri “introvabili” di design, moda e arte, fragranze Haute Parfumerie e servizi di couture esclusivi. Il tutto accompagnato dal meglio delle ricette tipiche della cucina di una Milano dimenticata.

Una fucina in cui bellezza e ricerca estetica si fondono con il culto della cura dei sensi. E oggi più che mai, prendersi cura di sé è una necessità, non un lusso. In un’epoca di pandemia precedente alla nostra, Joseph Pilates ebbe modo di notare che nessuno di coloro che si erano sottoposti al suo training fisico, era incorso nel contagio. È, per l’appunto, una delle pratiche a cui ci si può dedicare al Nautilus, sotto la guida di istruttori esperti che creano un programma mirato per ogni individuo e in totale sicurezza, in base a condizioni fisiche, età o eventuali traumi pregressi. Questo luogo deve il suo nome a una romantica idea di un sottomarino, un luogo di rifugio e benessere sotto le acque del naviglio milanese, composto da sale divise da eleganti porte, anch’esse frutto di accurata ricerca.

Il personale specializzato segue con dedizione piccoli gruppi o singoli individui in discipline basate sull’allenamento funzionale a corpo libero, o con attrezzature di altissimo livello, disposte nelle eleganti sale arredate con pezzi vintage da set cinematografico, per vivere quest’esperienza in un ambiente fuori dall’ordinario.
“Stabilire un rapporto di fiducia col cliente è di primaria importanza” ci racconta
Francesco Ludicelli, osteopata e chinesiologo, che come un vate ci mostra i segreti di quelle mura di benessere, fino all’area relax dove ogni cliente prima di cominciare il suo percorso personalizzato, viene sottoposto a una seduta di osteopatia per stabilire l’attività più adeguata al proprio stato fisico, tra un massaggio shatzu e una lezione personale di yoga. “Chi varca questa soglia, segue il suo percorso con costanza, non perde l’interesse, come avviene nella stragrande maggioranza dei centri sportivi, in cui la metà degli iscritti mollano dopo pochi giorni”, “il nostro obiettivo è far innamorare il cliente attraverso l’accompagnamento costante e lo stimolo a superare sempre i propri limiti”.

Al termine dell’attività, lo spogliatoio offre l‘accesso al bagno turco, dove rilassarsi, prima di una visita alla Librairie con salotto. Lì troviamo una vera libraia in vecchio stile, in grado di procurare edizioni speciali su richiesta, oltre alle già presenti pubblicazioni selezionate, riviste internazionali e rari contenuti di case editrici indipendenti che ruotano attorno al modo della moda, il design e l’arredamento, la fotografia, la grafica, i gioielli, i tessuti, l’arte. Un vero rifugio dove raggiungere uno stato di grazia, attraverso la cultura.

Libreria L’Arabesque

Le collezioni di Chichi Meroni rappresentano un punto d’incontro tra culture differenti e il buon gusto mai scontato di una personalità esigente come la sua. I suoi accessori hanno il sapore di una ricerca approfondita in ogni parte del mondo, mischiati sapientemente con i filati pregiati del nostro Made In Italy e una cura sartoriale d’altri tempi, perchè il 90 per cento della sua produzione è su misura. Anche nei suoi ricercati gemelli riscontriamo i motivi tipici della tradizione estetica orientale, come il bamboo, a cui lei è particolarmente legata per il suo significato simbolico: una pianta forte e resistente alle intemperie, che si piega ma non si spezza. Un concetto di flessibilità e resilienza che dovrebbe essere coltivato tutti i giorni da ognuno di noi.

Le collezioni maschili di questa stagione sono, infatti, caratterizzate da tweed, velluti consistenti e maglieria con motivi originali, interamente creati dalla designer. Capi di alta manifattura che durano una vita, proprio come quelli che hanno fatto la storia della moda. Completano i look una scelta di preziose cravatte vintage scelte con diligenza e passione, insieme alle iconiche Heschung che s’ispirano alla ghetta, delle irresistibili sneakers direttamente da Kioto che richiamano il dettaglio dell’infradito tradizionale, l’handmade l’inglese di Northampton Crockett & Jones e nomi che danno lustro alla calzoleria del Made In Italy come Rivolta.




Brand alert: Canada Goose x Y/Project

Y / Project, il celebre marchio d’abbigliamento parigino, e Canada Goose, uno dei principali produttori di abbigliamento luxury, hanno collaborato per la realizzazione di un’esclusiva capsule collection unisex. Presentata inizialmente alla Paris Fashion Week 2020, la capsule si compone di 6 pezzi, fra cui parka asimmetrici, maglioni e berretti reversibili; quest’ultima rispecchia a pieno gli stili più iconici di Canada Goose, reinventati attraverso lo stile caratteristico di Y / Project.



La collaborazione sarà presentata in anteprima il 23 ottobre 2020 a 9 partner commerciali internazionali, quali Ssense, Browns, Mytheresa, Leclaireur, Modes, Tsum, Joyce, Galeries Lafayette China, Boon the Shop. Sarà invece disponibile presso tutti gli altri rivenditori selezionati a partire dal 28 ottobre 2020.



Per celebrare l’arrivo della capsule nei negozi, il direttore creativo di Y / Project, Glenn Martens, ha collaborato con il fotografo francese Arnaud Lajeunie e lo stilista britannico Robbie Spencer, direttore esecutivo di Dazed & Confused, per creare una serie di immagini iconiche, ispirate a racconti leggendari, che rispecchiassero le origini di Canada Goose. La campagna, trasmessa a partire dal 23 ottobre in occasione del lancio della capsule collection, riflette la filosofia di Y / Project, che incoraggia l’espressione individuale, la versatilità e il divertimento, onorando il design senza tempo e la leggendaria esperienza outdoor di Canada Goose.

Tancredi Galli: il tiktoker che sbarca al cinema

Ha solo 21 anni Tancredi Galli (Roma 5 Agosto 1999)  e per lui tutto comincia nel 2014, anno in cui in cui apre il suo canale YouTube diventando rapidamente una webstar grazie ai vlog, alle video reaction e ai commenti sui videogiochi, che sono del resto uno dei suoi passatempi preferiti, in particolare Call of Duty. Lo abbiamo incontrato poco prima del suo debutto al Festival del Cinema di Roma con il film Cosa Sarà per la regia di Francesco Bruni, dove recita il ruolo di Tito, figlio diciassettenne del protagonista interpretato da Kim Rossi Stuart.



Come è iniziato il tuo percorso?

Il mio percorso è stato piuttosto lungo, ho iniziato un po’ per gioco facendo video su YouTube con i miei amici. Avevamo solo 13 anni e giravamo questi video per divertimento, senza però pubblicarli. Dopo qualche anno, io e il mio gruppo abbiamo preso strade diverse ed è proprio in quel momento che è iniziata la mia carriera. Ho iniziato a chiudermi nella mia stanza e girare video in completa autonomia, senza nessuno che potesse aiutarmi. Inaspettatamente, ho raggiunto un numero di seguaci elevatissimo, che mai avrei pensato di ottenere. I follower non erano di certo il mio obiettivo; lo facevo per hobby e per passione.

L’avvento di Musical.ly, che oggi prende il nome di Tik Tok, mi ha dato l’opportunità di conoscere tre nuovi amici, Diego, Gian e Lele ( con cui Tancredi forma la Crew Q4. ndr) con i quali sono riuscito a trasformare ciò che prima era solo un gioco in una vera e propria professione. Al momento, loro sono diventati i miei soci , anche se non mi piace definirli tali perché in primis sono rimasti degli amici. Questa collaborazione ha richiesto una riorganizzazione del nostro “mondo” e l’introduzione di nuove e precise regole. Sono molto fiero ed orgoglioso di ciò che siamo riusciti a costruire insieme.

Quando hai capito che dal mondo digital saresti voluto passare al mondo della recitazione?

Inizialmente non mi rendevo bene conto di tutto ciò che mi stesse accadendo, non ci prestavo molta attenzione. Ho iniziato a prendere tutto più seriamente solo quando sono stato selezionato per recitare in un film; è proprio in quel momento che ho capito che la mia passione per il cinema si sarebbe potuta trasformare in una vera e propria professione.

Oltre al cinema, sei appassionato di videogiochi, disegni e fumetti. Come convivono questi elementi nella vita di tutti i giorni?

Ho sempre avuto una passione per i videogiochi, essendo l’unico figlio maschio della famiglia passavo tanto tempo a giocarci da solo. Per quanto riguarda la mia vena artistica, sicuramente mi è stata tramandata da mia mamma, che si diletta nella pittura, così come la passione per il cinema e la moda. Lei è certamente un punto di riferimento molto importante nella mia vita.

Su Instagram hai un seguito di 1 milione di follower, mentre su TikTok sfori il milione, arrivando ad un 1,7 milioni di seguaci. Che rapporto hai con il tuo seguito?

Come dicevo precedentemente, il mio percorso è stato piuttosto lungo; con il tempo, ho imparato a rapportarmi con loro. Essendo quotidianamente in contatto, siamo riusciti ad instaurare un legame molto forte, tanto è vero che spesso ci scambiamo anche messaggi. Chiaramente sento di avere una forte responsabilità nei loro confronti, infatti cerco di rendere pubblico solo ciò che può essere un buon esempio per loro, tralasciando invece le parti più brutte e tristi della mia vita.

Che rapporto hai con la moda?

Ho sempre avuto uno stile un po’ particolare, per così dire alternativo, che si è sviluppato durante gli anni trascorsi al liceo artistico. Inoltre, essendo cresciuto in una famiglia composta esclusivamente da donne (mamma e due sorelle), sono stato quasi obbligato ad entrare in contatto con il mondo della moda. Spesso mia madre si divertiva a vestirmi in maniera piuttosto bizzarra, facendomi indossare i più svariati capi di abbigliamento. A 16/17 anni, ho invece iniziato a sperimentare un po’ da solo. Adesso, dopo il mio trasferimento a Milano, il mio stile si è un po’ modificato; ho acquistato nuovi capi più vicini allo streetwear, che non avevo mai considerato prima d’ora.

Ultimamente diversi brand e designer si stanno sempre più interessando a quella che è la nuova generazione. Hai già dei progetti futuri?

Si, ho già alcuni progetti piuttosto imminenti; sabato parteciperò al Festival del Cinema di Roma, dove sfilerò per la prima volta su un Red Carpet, in occasione della presentazione del mio primo film (Cosa sarà). Sono molto felice ed entusiasta di anticiparvi che il mio outfit sarà di MSGM, un brand che mi piace moltissimo. Ci vediamo sul Red Carpet!

Special thanks MSGM

Il trend delle mascherine: l’emergenza stimola la creatività

Che il coronavirus rappresenti un cambiamento permanente delle abitudini è una domanda al centro di molte polemiche, in cui ogni teoria sembra meno probabile dell’altra.

I periodi di crisi, nazionale o globale, portano inevitabilmente al ridimensionamento delle necessità, accompagnato dalla nascita talvolta di bisogni totalmente nuovi. È proprio in periodi del genere che le aziende e le attività produttive si trovano a rispondere al cambiamento, rispettando la nuova domanda del consumatore. Il settore moda è particolarmente allenato in questo ambito, abituato da decenni, in particolare dall’insorgenza del fenomeno del fast-fashion, a rispondere tempestivamente agli ultimi trend stagionali o a delinearne di nuovi. Una delle ultime “tendenze”, se così può essere definita, è certamente rappresentata dalla mascherina personalizzata: sono molte le aziende produttrici di mascherine con stampe a fantasia, in grado di soddisfare la necessità di proteggersi pur mantenendo un tocco casual e personale.


Fra le ultime idee ispirate dall’emergenza spicca la camicia “Rotta Di Collo”, frutto della creatività della sartoria Parafioriti Confezioni & Co. di Lorena Fantozzi, con base a Gambettola in Emilia-Romagna. L’azienda, specializzata in produzione di abbigliamento donna conto terzi, vanta un’esperienza ventennale nel settore fashion, collaborando con alcune tra le maggiori case di moda italiane. In seguito all’emergenza CoVid19 il sistema produttivo ha subito un cambiamento ed è stato concentrato sulla produzione di mascherine di protezione. La nuova mission aziendale è quella di unire la qualità della sartoria Made in Italy alla necessità della mascherina come mezzo di protezione. Il motto del progetto, che è stato brevettato circa 3 mesi fa, è “Proteggersi con stile ai tempi del Covid19” – un pelo fatalista se vogliamo, ma è innegabile la contemporaneità dell’idea e del capo in sé. La camicia presenta infatti una mascherina nascosta sotto al colletto che può facilmente essere sganciata, aperta e indossata. La mascherina presenta la stessa fantasia della camicia alla quale è abbinata, oltre che essere interamente fatta di cotone biologico. Il capo presenta una serie di vantaggi, primo fra i quali spicca il fattore estetico. La comodità è sicuramente un altro dei punti di forza del progetto, in quanto i bottoni del collo della camicia fungono da gancio per il mezzo di protezione, evitando così di metterlo in borsa o intorno al braccio, dove spesso e volentieri viene dimenticato.


Vale sicuramente la menzione il caso di “Vattinn’”, la prima cravatta che si trasforma facilmente in mascherina. La safety tie nata dall’ingegno dell’azienda napoletana Ulturale presenta in corrispondenza del codino una mascherina che può rapidamente essere aperta e indossata. Ciò che contraddistingue Vattinn è anche la metodica di lavorazione: la cravatta ha infatti subito un procedimento antibatterico agli ioni d’argento, il che garantisce un tessuto “100% incontaminato”. L’accessorio è ora disponibile in tre diverse varianti cromatiche e in vendita sul sito internet aziendale.


Un’altra realtà che ha contribuito allo status di mascherina come accessorio è lo storico negozio genovese Ghiglino 1893, il quale ha creato una linea di cover 100% seta per mascherine. Si tratta sostanzialmente di copri mascherine a fantasia realizzate con le sete delle cravatte Ghiglino 1893. Le cover presentano nel retro un’apertura nella quale è possibile inserire la mascherina chirurgica, al fine di garantire la massima sicurezza al cliente. Per i veri fan dell’eleganza classica la mascherina può essere inoltre abbinata al fazzoletto da taschino.

These (chunky) boots are made for walking: come gli stivali “esagerati” sono passati dalle sfilate alle collezioni a/i 2020 dei brand di riferimento

Si parla da tempo di un declino incombente, se non già in atto, delle sneakers chunky, che negli ultimi anni hanno rappresentato una cartina di tornasole dei cambiamenti nel fashion system. Le scarpe massicce, tuttavia, oltre a infarcire i cataloghi dei brand hanno ormai contaminato, con le loro forme grosse e sgraziate, il design di altre calzature, da ultimo quello degli stivali comparsi in gran numero nelle collezioni della stagione odierna.

Il capofila di questo sdoganamento dei chunky boots è stato probabilmente Daniel Lee, artefice del rilancio in grande stile di Bottega Veneta: nel 2019 i BV Lug – stivali al polpaccio dall’imponente para sagomata – sono diventati un autentico tormentone tra addetti ai lavori e celebrities assortite. Del resto il designer inglese, vincitore nel 2019 di ben quattro riconoscimenti ai British Fashion Awards, dal suo debutto al timone della maison l’anno precedente ha inanellato una serie di borse e calzature instant cult. In effetti le sfilate dell’autunno/inverno 2020 se da un lato prevedevano, dopo l’abbuffata di felpe, tracksuit et similia, il ritorno a mise sofisticate, dal piglio formale, dall’altro certificavano di avere ormai assimilato i codici dello streetwear. I boots stagionali si distinguono così per i volumi esagerati, che trovano massima espressione nella suola, dai contorni sinuosi o, al contrario, risultato dell’innesto di più strati uno sull’altro.

È sufficiente comunque uno sguardo alle passerelle di riferimento per rendersi conto della pervasività di questa silhouette nell’odierno footwear, iniziando da Bottega Veneta, of course: nel suo défilé a/i 2020 le mise maschili, severe, allungate e ben accostate al corpo, vengono completate da ankle boots bombati dal fondo tondeggiante. Spostandosi da Fendi, invece, rubano la scena gli stivaloni dall’enorme para dentellata, con il motivo FF inciso sulle estremità; sono ciclopiche anche le piante dei modelli Versace, che ricordano le galoche antipioggia, contraddistinti dal finish lucente e dalla gomma nella parte inferiore.
Diversa l’interpretazione di Sarah Burton per Alexander MqQueen, secondo cui gli ankle boots vanno abbinati a cappotti, trench e completi dal taglio millimetrico; stringati o pull-on, hanno puntali tinti in colori metallici e una suola oversize scanalata, piuttosto sinuosa.


Backstage at Sacai Men’s Fall 2020

Credits Photo 4: Alessandro Garofalo for NOWFASHION, Credits Photo 5: Photo Vanni Bassetti/WWD


Da Sacai gli outfit sapientemente decostruiti di Chitose Abe prevedono Chelsea in vitello liscio o hiking boots scamosciati, entrambi con suola a triplo strato. Non manca di estro nemmeno la proposta di Dries Van Noten, che completa il suo caleidoscopio di pattern, stampe e decorazioni con stivali dalla base svettante, a mo’ di platform. Persino il guardaroba uber luxury di Hermès adotta le peculiarità dei chunky boots, pur temperandole: nella collezione della griffe i carrot pants sartoriali, stretti alla caviglia, evidenziano proprio gli stivaletti scuri in pelle lavorata, provvisti di spessa suola carrarmato.

Chi apprezzasse le qualità dei boots in questione potrà scegliere tra un’ampia varietà di opzioni, a partire ovviamente da quelle dei marchi menzionati: il modello Tire di Bottega Veneta, ad esempio, versione riveduta e corretta dei suddetti Lug, di cui mantengono gambale alto, doppio tirante, elastico laterale e para ipertrofica aggiungendo, però, un outsole in gomma disponibile in diverse colorazioni, dal vermiglio al verde acceso. Oppure l’anfibio nero Versace, chiuso da lacci bianchi e innestato su un fondo di dimensioni extra, solcato dal profilo di quella greca tanto cara alla maison; più lineari i Chelsea boots in suede firmati McQueen, bordati da una suola flat, nelle nuance del sabbia, blu e total black.

In generale i brand sembrano seguire due approcci opposti: uno massimalista, teso a esasperare le proporzioni già considerevoli degli stivali chunky, aggiungendo inoltre materiali inconsueti, cromie d’effetto, loghi e così via; l’altro meno incline alle esagerazioni, che limita la dose di eccentricità alla suola, appariscente di per sé, prediligendo tomaie sobrie ed essenziali.


Rientrano senz’altro nella prima categoria i Monolith Prada, dal nome esplicativo visto che si tratta di combat boot dall’enorme para frastagliata, muniti di minuscolo pouch logato da agganciare, in caso, al cinturino apposito; una particolarità che probabilmente ha contribuito a renderli all’istante un feticcio fashionista, al pari della “concorrenza” di Bottega Veneta. Di tenore simile i modelli griffati Burberry e 1017 Alyx 9SM, nell’ordine uno stivaletto in pelle spazzolata avvolto dalla maxi suola tricolore (nelle sfumature del senape, mattone e rosso brillante); e un boot dal côté futuribile, espresso attraverso il mix di materiali sintetici (neoprene, nylon, PVC ecc.), la texture opaca della tomaia e l’alternanza, sulla pianta, di pieni e vuoti, linee nette e ondulate.

Il filone minimal annovera invece stivali di Jil Sander, Both e Grenson. I primi racchiudono tutte le prerogative del Chelsea boot, ad eccezione del “solito” fondo dilatato al massimo, rifinito con una suola Vibram; le specificità dei classici stivaletti alla caviglia sono rispettate anche dai secondi, sui quali si alternano superfici lucide e mat grazie all’impiego di nappa e gomma. Gli ultimi, declinati in una calda gradazione di marrone, si distinguono per l’allacciatura con occhielli rubata alle scarpe da trekking; per il resto, sono scarponcini puliti, robusti, in linea con la tradizione di un marchio che, per quanto riguarda la calzoleria made in Uk, è un’istituzione.

Chiude la rassegna la variazione sul tema di Hunter: gli stivali waterproof per antonomasia sono in questo caso arricchiti dalla para sovradimensionata; uno strato aggiuntivo che, certamente, aiuta a mantenere riparato il piede, ammiccando però il giusto alle ultime novità in fatto di calzature maschili. Dopotutto pure un’azienda ultracentenaria come quella britannica, sostanzialmente estranea alla frenesia di tendenze, show, street style e altri riti della moda, subisce in una certa misura l’attrattiva dei chunky boots.

Streetwear: brand to watch

In pochi decenni la cultura Hip-Hop (dunque lo streetwear) è passata dall’essere una subculture di nicchia a una forza dominante nella cultura mainstream. Harlem, la cultura skate, l’NBA hanno attraversato gli oceani, declinandosi con il savoir-faire e la migliore cultura europea. Il risultato? La nascita di brand streetwear espressione del miglior metissage culturale, di ibridazione e scambio, capaci di cogliere i migliori tratti da entrambi questi mondi soltanto in apparenza inconiugabili, ma in realtà più simili di quanto si pensi.

Abbiamo selezionato per voi quattro brand emergenti streetwear di cui, scommettiamo, sentiremo parlare.

BASEDODICI

L’idea di Basedodici è quella di far nascere qualcosa di diverso, di unico e nuovo nel suo genere. Qualcosa che a primo impatto può sembrare simile a tante altre realtà, ma con quel pizzico di diversità, fantasia e creatività che questo giovane brand si impegna sempre a trovare. Le collezioni di Basedodici nascono dalla ricerca di un collegamento trascendentale tra moda e arte, mediante capi esclusivamente Made in Italy, realizzati con precisione e cura dei dettagli. Il nostro paese, riconosciuto in tutto il mondo per l’arte, è da sempre simbolo della Moda. Basedodici con le sue collezioni, grazie a un incessante dialogo con gli artisti del momento, propone uno streetwear genuino ed autentico.

HG/LF

HG / LF nasce nel 2019 a Milano, da Lorenzo Del Serra e Letizia Grace. Più artisti che designer, hanno fin da subito posto l’accento sull’individuo, conferendo alle proprie creazioni un’estetica sovversiva. Silhouettes androgine decostruite e tagli sartoriali. Attitude punk e sostenibilità. Look genderless. L’obiettivo della label è quello di utilizzare la propria piattaforma per comunicare tematiche di interesse comunitario.

HUGE UNDERGROUND BUSINESS

Diversi input culturali e tematiche sociali attraverso sperimentazioni che incoraggiano le connessioni umane: questo il diktat di Huge Underground Business. Fondato due anni fa da Alessandro e Jamila, i designer propongono un design funzionale attraverso tessuti hi-tech e di alta qualità. Grafiche uniche come stampe: questo il codice stilistico di questo giovane marchio.

PLUS QUE MA VIE

Heritage veneziano e celebrazione delle sottoculture: l’imprinting di stile di Plus que ma vie è questo. L’espressione di sé e la libertà comunicativa sono due concetti cardine dell’indagine stilistica della label. La comunità globale che sta costruendo con dedizione il marchio ben apprezza il prodotto made in Italy essenziale e timeless proposto.

Artigianalità e sostegno, i brand da non perdere

C.a.p.a.f. 


Tra i primi in Italia a creare borse in rafia e vimini quando ancora il design non li aveva eletti protagonisti con la sedia dei ’70, l’azienda C.a.p.a.f. utilizzava materiali naturali per creare delle elegantissime borsette fatte a mano già dal ’46. 
Oggi quei modelli sono diventati delle icone del marchio, che da allora ha implementato la sua collezione per forme e abbinamenti materici differenti. Midollino, rafia, vimini, cotone ritorto, juta, lana e pelle al servizio delle mani esperte di Giuliano Bonechi, che con sua moglie segue le orme del padre fondatore di C.a.p.a.f., già allora creatore di secchielli ultra moderni, cestini con manici rigidi e clutch dalle preziose chiusure a gioielli, un innovatore avanti con i tempi. 

C.a.p.a.f. 

Fabio Rusconi


Dalla città dei grandi artigiani, Firenze, arriva anche il brand Fabio Rusconi, il connubio equilibrato tra gusto, qualità e tendenza. 
Le scarpe di Fabio Rusconi fanno del suo punto forte l’eccellenza dei materiali, che conferiscono alla scarpa una calzata comoda e duratura nel tempo. Sono accessori per donne femminili e alternative, che sposano l’originalità al classicismo, la storia alla modernità. 
Must have della stagione Primavera Estate 2021 la stringata in pelle morbida con tacco basso e punta quadrata, un po’ collegiale un po’ Mary Poppins. 

Maison Falneur

Indossarla è come abbracciare la propria nonna, mentre è intenta a fare la maglia; Maison Flaneur ha il sapore della memoria, della tradizione e delle cose fatte bene, è l’azienda veneta diretta da Valeria Cremonese. 
Non c’è capo che non porti con se’ l’orgoglio dei processi di cento anni fa, quello dei filati su telai manuali e del metodo senza cuciture, chiamato oggi seamless.
Quando il maglione è una seconda pelle.

Maison Flaneur 

Roberto Collina

Se esiste il re delle fibre nobili, quello è Roberto Collina, brand che già nei ’50 si distinse per la specializzazione nella produzione di maglieria di qualità, oltre che per lo spiccato senso imprenditoriale. Made in Italy ma venduto in tutto il mondo, Roberto Collina regala capi unici in mohair, cashmere, angora, alpaca, cammello, lana merinos super lingh, seta, ice-cotton. Insomma ce n’è per tutti i gusti e tutte le tasche. 

Roberto Collina 


Gilberto Calzolari

Gilberto Calzolari è sempre in prima linea quando si tratta di eco-sostenibilità, ecco perchè ogni collezione rispetta l’ambiente senza tralasciare la poeticità che la contraddistingue. Così la sua persona, così i suoi abiti, Gilberto Calzolari è idea e valore, è moda e green, è rispetto e anticonvenzionalità. 

Gilberto Calzolari 

Made For A Woman di Eileen Akbaraly

Moltissimi paesi nel mondo vivono ancora situazioni di grave disagio economico, sociale e politico; tra questi purtroppo c’è anche il Madagascar, dove però non mancano le donne combattive che da lì hanno preso sangue e cuore, e che hanno voglia di lottare e aiutare e far sapere al mondo di quanto bisogno c’è nel far luce a questo disagio. 
Made For A Woman di Eileen Akbaraly è il brand portavoce di un piccolo gruppo di donne che vivono un presente vulnerabile, ma che con l’aiuto di chi utilizza la moda può sperare in un futuro migliore. Sono lavoratrici che producono a mano delle bellissime borse in rafia (e cappelli) con pigmenti naturali, sono donne che attraverso il lavoro sentono di essere utili acquistando autostima e quel sorriso che cambia la giornata. La fondatrice del brand è attiva nel paese con programmi educativi e di empowerment. E’ davvero il caso di dire che le donne hanno una marcia in più. 

Made For A Woman di Eileen Akbaraly

Leandro Cano lancia la linea uomo

Eclettico e promettente , il giovane fashion designer Leandro Cano, madrileno d’origine , lancia la sua visione artistica della moda creando per la prima volta una collezione Uomo . 

Con “Siempre a tu vera” (Sempre dalla tua parte ) Leandro Cano debutta nel mondo del menswear scollegando ogni cliché e proponendo una “visione artistica” , é così che la chiama, attraverso la creazione dei suoi capi. Una collezione che ha in se quindi  un monito di speranza , già dal suo nome, per il periodo difficile che tutti noi stiamo attraversando a causa della pandemia da Covid -19. 

Una vera espressione artistica quella del designer andaluso che si traduce in capi innovativi, creati con materiali di prima qualità , dallo stile ricercato e visionario. 

Con Siempre A Tu Vera , Leandro Cano si appella alle grandi donne che si sono distinte nella societa come ispirazioni e modelli da seguire per il progresso . Così, l’uomo protagonista oggi nelle sue creazioni , mascolino e senza pregiudizi di ruolo, sicuro di se è pronto a lasciarsi travolgere dalla forza di queste donne.  

L’uomo Leandro Cano si presenta spavaldo, determinato, super moderno, proprio come i dettagli che indossa. 

I pezzi chiave della nuova linea menswear è composta da dei veri e propri pezzi artistici come le tute elastiche con stampe concettuali, la maxi camicia dalla lunghezza esagerata che presenta stampe astratte  , bomber oversize in neoprene   declinata in verde bottiglia e abbinata a leggings con applicazioni a forma di stella , giacche “cropped in rafia color crema abbinata a pantaloni a vita alta con stampe. I materiali di qualità impiegati per la creazione dei capi sono: organza , pelle, neoprene , tessuti tecnici , jacquard e rafia . 

Non mancano proposte eccentriche come le scarpe platform by Musseo, (create dietro la direzione creativa di Leandro Cano) , collane placata in oro con maxi lettere e intimo “imbottito”, totalmente rosa, che incorona l’uomo Leandro Cano come simbolo dei tempi moderni in cui l’io si scompone per assumere nuovi connotati grazie ai capi che indossa . Non una questione di generi , ma di natura creativa e stilistica che scompone la figura dell’uomo per dare vita, invece , a una nuova immagine , specchio della molteplicità di sfaccettatura che l’uomo contemporaneo presenta. 

Fenomeno Tik Tok: 6 fashion brand da seguire

Lo sappiamo tutti, i social oggi hanno rivoluzionato il modo di fare business da parte del fashion system, prima con Facebook, poi il boom su Instagram, oggi il nuovo protagonista é Tik Tok.

Da semplice piattaforma per teenagers, il social network si è trasformato in breve tempo in un vero e proprio canale di marketing, spopolato soprattutto durante i mesi di lockdown. Oltre un miliardo di utenti in tutto il mondo con oltre due miliardi di download, oggi TikTok conquista anche i brand della moda mondiale detenendo oggi una quota di mercato maggioritaria. Da Dolce & Gabbana, passando per Burberry, Fashion Nova, Tory Burch, Prada che ha recentemente lavorato con il numero uno dei TikToker Charli D’Amelio raggiungendo ben 5,7 milioni di like, senza aver un proprio profilo ufficiale.  Tante le strategie di marketing ai tempi di TikTok che spopolano tra le case di moda, pensate per raggiungere in modo più efficace gli utenti della Gen-Z, fetta di mercato dei più giovani, principali fruitori del social network. 

Ma quali sono i brand di moda che hanno spopolato sulla piattaforma più discussa del momento ? Ecco la nostra analisi.  

Calvin Klein

Già lo scorso anno il brand americano ha ingaggiato nomi come Shawn Mendes, Noah Centineo, Kendal Jenner solo per citarne alcuni, per la campagna #myCalvins che ha raggiunto in poco tempo engagement  dieci volte di più rispetto alla precedente campagna del 2015 che vedeva come protagonista Justin Bieber. Come anche la campagna in occasione del Pride con #proudinmyCalvin, ricevendo più di 16 mila visualizzazioni. 


ASOS 

Il brand colosso online ASOS, a fine agosto ha lanciato una challenge alla sua community ingaggiando influencer britannici e statunitensi. Una campagna durata tre settimane con l’hashtag #AySauce, utilizzando un mix di annunci nel suo feed e un’esperienza di realtà aumentata interattiva. Agli utenti è stato chiesto di mostrare tre capi a loro scelta, dando vita a un look in 15 secondi. Il tag ha attualmente 3,3 milioni di visualizzazioni. 


Ralph Lauren 

Per celebrare i campionati di tennis degli Us Open nel 2019, il brand americano ha chiesto ai suoi utenti su TikTok di condividere un momento in cui hanno vinto una sfida nella vita reale, utilizzando l’hashtag #winningRL, con una campagna con Diana Silvers. Attraverso la serie di video era possibile acquistare pezzi della collezione , raggiungendo 821,1 milioni di visualizzazioni.


Gucci 

Sbarcato lo scorso febbraio, il brand conta già 253 mila followers, a cominciare già dalla prima campagna per promuovere le sneakers Tennis 1977 #accidentalinfluencers. Da lì in poi Gucci ha condiviso short video di personaggi alle prese con divertenti #guccimovies, fino ai video realizzati dalla cantante britannica Celeste Waite, protagonista della sfilata Gucci autunno/inverno 2021.


Burberry 

Il brand inglese é stato uno dei primi a sbarcare su TikTok. Burberry, diretto da Riccardo Tisci, conta oggi più di 23 mila followers, ha lanciato la campagna #TBchallenge, invitando i suoi utenti a filmarsi ricreando il logo TB con le mani, raggiungendo migliaia di views e follower. 


Crocs

Tra i brand che hanno creato più engagement sul social, Crocs con le sue campagne interattive, tra cui la challenge “thousandDollsrCrocs: il brand, avvalendosi della collaborazione del rapper Post Malone, ha invitato gli utenti a personalizzare le proprie Crocs e pubblicare un video utilizzando lo slogan “Come as you are”. Più di 2,5 miliardi di visualizzazioni e più di cento mila followers in una settimana. 


Loewe Show-on-the-Wall: quando i contenuti digitali arricchiscono la show experience

Il brand di origine spagnola decide di donare un’anima mainstream alla presentazione della Primavera Estate 2021 dandole voce grazie ad eventi trasmessi sui propri canali social. Gli artisti coinvolti hanno avuto il compito di creare un’esperienza atta a valorizzare i key code del brand con tangibili risvolti culturali. Una maratona no stop che ha visto l’alternarsi vari nomi di spicco del panorama mondiale intervallati dall’intervento del direttore creativo Jonathan Anderson.

Adam Bainbridge, produttore musicale angloasiatico, conduttore radiofonico e insegnante con base a Londra, ha diretto un’interpretazione dello ‘Spem in Alium’ di Thomas Tallis, scelta come colonna sonora di Show-on-the-Wall. Una registrazione esistente de ‘The Tallis Scholars’, il complesso musicale pluripremiato più celebre al mondo di rinascimentale polifonia, è stata mixata con i contributi di Kindness, la compositrice e cantante americana Hanna Benn, il pianista e compositore francese di origine malgascia Mathis Picard, il Dj-cantante e performer svedese Robyn, e l’interprete jazz Vuyo Sotashe. 

A seguirlo ‘Akimbo Stylee’, il documentario su Anthea Hamilton. L’artista e regista cinematografica Ayo Akingbade ha diretto il film sulla creativa britannica che ha creato la carta da parati ‘Sr Jeanne Wavy Boots w. Gazanias and Snails, 2020’ per lo Show-on-the-Wall. Il film è stato girato nello studio di Hamilton a Stockwell a Londra, all’Open School East, Margate dove l’artista risiede, e alla Thomas Dane Gallery, dove espone le sue opere.

A concludere la rapsodia ancora una volta un film, ‘Du Samedi au Mardi’, di Hilary Lloyd, costituito da riprese ed interviste sul set fotografico di Show-on-the-Wall. Il film è stato realizzato tra Londra e, a distanza, anche a Parigi. Lo stile cinematografico di Lloyd consiste nel montare svariati filmati per creare una narrazione dal ritmo compresso. In questo caso il suo obiettivo è stato quello di trasmettere ciò che la regia stava sperimentando in quei tre giorni: l’emozione di fare qualcosa tutti insieme; l’essere liberi e creativi; l’amore, il piacere e l’esuberanza.

Show- on-the- wall on Loewe.com

Dai jeans cuciti in un seminterrato alle migliori boutique multimarca: il successo di Amiri

L’ultima partnership eccellente nell’ambito retail è stata svelata qualche settimana fa da Mr Porter: una capsule collection composta di 31 articoli tra jeans destroyed, felpe con cappuccio e bowling shirt stampate. Del resto la scalata al fashion system di Mike Amiri, fondatore e designer della label eponima, è stata caratterizzata proprio dal sodalizio con i retailer, a partire dalla piccola selezione di denim venduta in esclusiva da Maxfield – mecca losangelina dello shopping di lusso – nel 2014, che di fatto sancì la nascita del marchio. Nel tempo, Amiri è approdato in oltre cento insegne multibrand, da quelle di ricerca come Layers, Antonioli o Patron of the New ai department store, agli e-tailer quali LuisaViaRoma, Matchesfashion e Mytheresa.

L’ingresso nelle migliori boutique ha perciò accompagnato l’evoluzione della griffe, per la quale si potrebbe scomodare l’epopea del sogno americano: un’impresa avviata con mezzi di fortuna e diventata rapidamente un modello di business; se l’anno scorso, in effetti, il giro d’affari dell’azienda ha raggiunto i 60 milioni di dollari, soltanto sette anni fa Mike Amiri cuciva di persona i jeans in uno scantinato nei pressi di Sunset Boulevard.
Prima di mettere la sua firma sul denim, questo 43enne di origini iraniane, crescendo a Beverly Hills, si è potuto immergere nell’atmosfera di grande fermento che, negli anni ’90, animava la metropoli, iniziando a gravitare intorno al Viper Room e ad altri locali simbolo di quella fase.

Dopo le consulenze per alcune aziende di abbigliamento e, soprattutto, dopo aver curato le mise dentro e fuori dal palco di Steven Tyler e Usher, decide di mettersi in proprio, lanciando una griffe in cui condensare le sue ossessioni passate e presenti, musicali in primis. Amiri attinge infatti a piene mani dall’iconografia del rock, codificata dai look di mostri sacri come Jim Morrison, Jimi Hendrix, Keith Richards o Axl Rose, mescolandola però con il repertorio stilistico di surfisti, skater, artisti underground; per dirla con le parole del diretto interessato, si tratta di «California e rock’n’roll, [filtrati] attraverso una lente di lusso». A tutto ciò, il creativo aggiunge la passione per il vintage, affinata fin dall’adolescenza setacciando mercatini dell’usato e negozi second hand, e le lavorazioni sartoriali, indispensabili per infondere ai prodotti una patina lussuosa e giustificare le cifre sui cartellini, che spesso superano abbondantemente i 1000 dollari.

Fatte queste premesse, si comprende meglio la profusione di abiti e accessori délabré, sgualciti ad arte. Per conferire all’abbigliamento un aspetto il più possibile vissuto, Amiri non disdegna soluzioni “estreme”, dichiarando ad esempio di sparare con un fucile alle maglie pur di ottenere gli squarci desiderati. Al di là degli eccessi del caso, si spiegano così i jeans a sigaretta logorati fino allo stremo, tra abrasioni, macchie e patch in tessuto a contrasto; le camicie check in flanella dagli orli grezzi; le giacche percorse da ricami, toppe e grafiche all-over, oppure sottoposte a tinture tie dye per un risultato technicolor; gli stivaletti ornati da fibbie, cinturini stampati o catenelle; le t-shirt used, istoriate con i loghi della band di turno (Guns ‘N Roses, Mötley Crüe, Grateful Dead ecc.) e via discorrendo.

In pratica, un assortimento di capisaldi dello streetwear e urban style, riletti però in chiave deluxe: i pantaloni appaiono sì sbrindellati, ma vantano tele giapponesi o italiane, mentre per la confezione dei vari bomber, overshirt, felpe, biker jacket e sneakers vengono selezionati materiali di prim’ordine (dalla seta alla nappa, passando per cashmere, velluto, suede e quant’altro). Capi realizzati per oltre l’80% nello stabilimento del brand a Los Angeles, da artigiani impegnati in laboriosi procedimenti manuali, seguendo dunque il modus operandi degli atelier delle maison più rinomate.   

Non va poi dimenticato come nel periodo in questione la figura di riferimento per il menswear fosse quella di Hedi Slimane, che trionfava da Saint Laurent tratteggiando il profilo di un giovane bohémien californiano, emaciato, androgino, strizzato in abiti tagliati col bisturi, aderenti come una guaina. Specialmente all’inizio, quando insiste sugli ensemble da rockettaro in libera uscita, è perciò evidente il debito di Amiri con l’estetica affilata di Slimane, tuttavia la qualità di materiali e finiture viene premiata dalla clientela, per non dire dell’aura di esclusività trasmessa da capi esposti negli store più prestigiosi in assoluto. I dati delle vendite superano le migliori aspettative, supportate anche dalla nutrita schiera di fan d’eccezione: tra le celebrities vestite Amiri troviamo infatti Justin Bieber, Michael B. Jordan, J Balvin, Jay-Z, e l’elenco potrebbe proseguire a lungo.

Jay-Z

La strada è ormai tracciata: nel 2016 viene introdotta la linea femminile, seguita a stretto giro da calzature e accessori. Anche le istituzioni del settore notano il successo di Amiri, che nel 2018 concorre al premio assegnato dai CFDA Fashion Awards al miglior talento emergente, aggiudicandosi la vittoria, nella stessa categoria, ai Footwear News Achievement Awards. L’anno dopo il Council of Fashion Designers of America lo inserirà nuovamente nella rosa dei candidati.

Da parte sua, la Fédération de la Haute Couture et de la Mode lo invita a partecipare alle sfilate maschili per l’autunno-inverno 2018-19: Amiri debutta nella Ville Lumière portando in passerella una rassegna dei suoi abiti più identificativi, tra vestibilità risicate, giacche in pelle, tuxedo, frange e glitter sparsi ovunque, oltre ovviamente alle “scorticature” ricorrenti negli outfit. Nei cinque show parigini successivi il designer esplora quindi ogni possibile declinazione dello stile à la West Coast, spaziando tra l’ispirazione grunge della collezione s/s 2019 (pullover sformati, tonalità acide, maglie legate in vita, stratificazioni…) e le uscite dal sapore militaresco della sfilata seguente, una sfilza di cappotti strutturati su jeans stretch infilati negli stivali; e arrivando, con la stagione s/s 2020, ad omaggiare gli hippie della Summer of Love attraverso silhouette fluide, pattern psichedelici, pantaloni scampanati e completi color pastello.

Guardando al futuro, Mike Amiri non esclude «un giorno, di disegnare mobili»; considerato il suo cursus honorum, nell’eventualità non potrebbe che celebrare, ancora una volta, il lifestyle della sua California.

Brand alert: il 75 esimo anniversario della Church’s Consul

Church’s celebra quest’anno il 75 esimo anniversario della Consul, una delle sue calzature più iconiche nonché uno dei modelli più amati del brand, grazie al suo fascino raffinato ed elegante.

Creata nel 1945, questa calzatura deve il suo nome alla classe politica e aristocratica britannica che la indossava. Per questo anniversario speciale, il brand ha creato un’edizione speciale che ripercorre tutte le evoluzioni di questo modello.

Realizzata in pregiata pelle di vitello, ogni calzatura viene lucidata a mano, in modo da esaltare la bellezza originale della pelle; vi è infatti un gioco di contrasti tra la pelle nera e un rinforzo posteriore rosso. Anche la suola è caratterizzata da un elegante bicromatismo, nonché dalla presenza del nome “CONSUL” e dalla data “1945” stampati a mano in color oro. Un’altra particolarità è l’uso di tre chiodini decorativi in ottone, utilizzati per fissare l’estremità del tacco. La spuntatura sull’angolo interno dello stesso ha un significativo valore storico e riproporre questo dettaglio è indice dell’autentica artigianalità di queste calzature.

Il modello è già disponibile in negozi selezionati e online.

LEVI’S® 1969 517 for Valentino, il denim contemporaneo

Pierpaolo Piccioli rivisita i classici jeans Levi’s®️ 1969 – 517 boot cut, resi estremamente popolari alla fine degli anni ’60, per la collezione primavera / estate 2021 della Maison Valentino.

Il marchio Levi’s®️ è costruito su valori storici e lo show di Valentino incarna perfettamente il principio di uguaglianza costituito da un capo come il jeans, condividendo il racconto di un’estetica esclusiva, romantica e senza tempo.

Il Direttore Creativo di Valentino, Pierpaolo Piccioli, ha riflettuto a lungo su ciò che significasse dare un nuovo valore a dei capi che hanno già di per se una storia, così partendo da simboli, idee, luoghi, atmosfere che provengono da momenti diversi nel tempo ha potuto comunque parlare a una generazione contemporanea legata ancora oggi all’uso del denim.

Rimanendo fedele al rinomato stile 517, Pierpaolo Piccioli concepisce con occhi nuovi uno stile familiare a tutti. Una versione esclusiva, che trasmette tutto il romanticismo della collezione, creata sia per uomo che per donna e che racchiude elementi estetici sia di Valentino che di Levi’s®️.

Un cartellino speciale è stato disegnato per celebrare la collaborazione e l’inizio di una nuova esplorazione della moda. L’originale Levi’s®️ 517 del 1969, come visto sulla passerella dello scorso 27 Ottobre a Milano sarà disponibile nelle boutique Valentino in tutto il mondo a partire dalla primavera del 2021.

White Milano: cinque brand made in Italy

L’edizione fisica di White, il salone milanese con focus sulla sostenibilità, i nuovi talenti e la moda contemporanea, ha chiuso il sipario domenica 27 settembre. Circa 200 sono stati i marchi che hanno presentato al pubblico e agli addetti al settore le collezioni dedicate alla primavera estate 2021. Noi ne abbiamo selezionati cinque, a valorizzare l’artigianalità italiana.

EDITHMARCEL

Brand veneto dall’allure avanguardista e a-gender. Fondato nel 2015 da Gianluca Ferracin e Andrea Masato, Edithmarcel esce dai confini di genere, annienta le distanze tra maschile e femminile, sperimentando un concetto di moda lontano da ogni stereotipo. Linee geometriche e forme pulite si alternano a look audaci, con forti richiami al mondo dello sport e a quello dell’abbigliamento formale. Il denim eco fa il suo ingresso nel guardaroba Edithmarcel, con una palette delicata ma decisa che va dal color lavanda al rosa, bianco e nero.

Sito: edithmarcel.com

IG: @edithmarcel_official


THE BESPOKE DUDES EYEWEAR

Raffinati ed eleganti, prodotti interamente in Italia dalle mani esperte dei migliori artigiani. Gli occhiali da sole e da vista firmati TBD eyewear nascono dall’idea e dalla passione per il fatto a mano di Fabio Attanasio e Andrea Viganò. In occasione di White, il marchio ha presentato la collezione eco-friendly chiamata Earth Bio, una linea di occhiali da sole biodegradabili e riciclabili al 100% grazie a montature eco in bio-acetato, materiale derivante da fonti naturali, nel pieno rispetto di una filosofia sostenibile e nella salvaguardia dell’ambiente.

Sito: https://www.thebespokedudeseyewear.com/it

IG: @tbdeyewear


DELIRIOUS EYEWEAR

Delirious Eyewear nasce a Milano dal talento e dalla passione per gli occhiali di Marco Lanero. Design minimale e linee semplici, ogni occhiale viene creato con manifattura artigianale italiana e sulla filosofia del no brand: senza logo, può essere personalizzato con iniziali, nomi e date.

Sito: deliriouseyewear.com

IG: @deliriouseyewear_com


BLUE OF A KIND

Know how made in Italy e in chiave green. Fondato nel 2015 da Fabrizio Consoli, Blue of a Kind è una rivoluzione nell’universo del denim: produce jeans esclusivamente da capi riciclati e lavorati con tecniche artigianali italiane. Il risultato sono pezzi unici e innovativi, arricchiti sempre da dettagli di alta qualità. Per un’etica basata sulla sostenibilità e l’economia circolare.

Sito: blueofakind.com

IG: @blueofakind


VADERETRO

L’unione creativa dei designer emergenti Antonio D’Andrea e Hanna Boyer dà vita al giovanissimo brand Vaderetro, finalista di Who Is On Next 2020, il progetto di talent scouting promosso da Altaroma e Vogue Italia. Vaderetro è un inno al passato, un ritorno ai capi iconici di un tempo reinterpretati in chiave originale e attraverso una visione estetica attuale che prende le distanze dalla moda mainstream. Le loro creazioni abbracciano un’etica sostenibile, privilegiano la qualità alla quantità e la maggior parte dei capi di abbigliamento Vaderetro sono realizzati da artigiani locali con tessuti riciclati o inutilizzati, per valorizzare le risorse del territorio partenopeo e la sartoria napoletana. Tutti rigorosamente made in Italy.

Sito: vaderetrolab.com

IG: @vaderetro.mag

Colmar svela la nuova collaborazione con Vision of Super

Colmar presenta la collaborazione con Vision of Super, destinata a colpire l’anima underground di consumer attenti alla cultura trap, rap, street e contemporanea. La nuova capsule collection young svela le iconiche giacche Colmar impreziosite dalle grafiche che hanno fatto il successo del brand, nato nel 2018 da un’idea di Dario Pozzi. 

Si tratta di una collezione total look, composta da sei giacche (tre da uomo più slim fit e tre unisex più puffy) e una scelta di felpe (con e senza cappuccio), T-shirt, pantaloni, berrettini e uno zaino. Il rosso, il nero, il bianco sono mixati dentro a tessuti lucidi e opachi e sono il core della collezione disegnata dalle irrinunciabili fiamme, segno distintivo di Vision Of Super che accendono letteralmente il logo Colmar. Il risultato è una rivisitazione decisamente unica e accattivante dell’iconico “bollo”.  «Collaborare con Colmar è stato un sogno divenuto realtà», ha spiegato Dario Pozzi, founder di Vision of Super. «Per realizzare questa collezione, abbiamo lavorato a stretto contatto, insieme, per più di un anno. Il risultato è una serie di capi unici, realizzati in materiali di altissima qualità e da collezione, dedicati all’universo dei Millennial». 

Per l’occasione, Colmar e Vision of Super hanno realizzato un progetto fotografico digitale in collaborazione con la scuola di moda Istituto Marangoni Milano. Cecilia Rossini, Gianluca Sacchetti e Valentina Volpe, neodiplomati del corso di Styling & Creative Direction, hanno realizzato insieme al fotografo Paolo Santambrogio una serie di scatti di grande effetto. 



La collezione Colmar A.G.E. x Vision of Super sarà in vendita in store selezionati, nei monomarca Colmar e online su visionofsuper.com e col, a partire dal 28 settembre. 

Dietro le quinte della prima settimana della moda phygital : ‘Vièn’

Gli stakeholder del Made in Italy raccontano i propri eventi nella prima settimana della moda metà fisica e metà virtuale nel pieno del cambiamento epocale Covid19

Production & interview Alessia Caliendo

Ph Matteo Galvanone

Le sue creazioni hanno persino conquistato Lady Gaga, da Putignano, patria della manifattura pugliese, a Milano dove rientra ancora una volta nel calendario di Milano Moda Donna. Parliamo di Vincenzo Palazzo in arte ‘Vièn’ un brand da sempre vicino e affine al mondo della musica nato con l’obiettivo di diffondere il 100% Made in Puglia in giro per il mondo.

Manintown lo incontra, a seguito del fashion show, presso lo spazio espositivo riservatogli al WHITE.

Parlaci dell’evento svoltosi durante la prima settimana della moda phygital e quali sono le misure adottate per garantire uno svolgimento che mantenesse lo stesso appeal dell’era pre Covid

Abbiamo seguito rigidamente tutti i protocolli, dal distanziamento alle mascherine e nonostante, i vincoli, l’evento si è svolto in maniera molto fluida e gratificante per tutti coloro che hanno fatto parte dell’organizzazione.

Qualche mese fa si parlava della fine degli eventi fisici a favore di una rivoluzione digitale sempre più avanguardista. Essere qui, oggi, smentisce tali affermazioni a favore di una nuova forma di eventi sempre più selettivi e di pari passo con la velocità dei social. Secondo te quali di questi cambiamenti segneranno esponenzialmente il modo di presentare una collezione al pubblico?

Mi auguro che il prima possibile si possa tornare a sfilare e a confrontarsi secondo le dinamiche pre lockdown. Da buon empatico meridionale mi piace trasmettere la mia vena avangardista mixata all’espansività Made in Sud.

Tutta la passione che mi contraddistingue vede le radici nel mio paese (Putignano ndr) dove si respira la manualità di chi produce anche per grandi nomi della moda.

La realtà aziendale è cambiata post lockdown? E il suo mindset creativo e progettuale?

La collezione presentata è figlia del Covid. L’aver trascorso tanti mesi in Puglia mi ha consentito di riaprire gli scatoloni dei CD della mia pre adolescenza. Ho rivisto il tredicenne affascinato dai capi chiave figli degli anni 90 reinterpretati secondo la mia moderna tradizione. Fuori esplodeva la primavera quindi ogni tinta dark ha assunto cromie pastello.

Gli stakeholder della moda hanno provato ad immaginare, e di conseguenza a proporre, una donna segnata da una pandemia globale. Quali sono le caratteristiche che contraddistinguono la tua?

Vi racconto una donna dal gran carattere e dalla forte indipendenza che, con molta responsabilità e coscienza, vuole e chiede di andare avanti.  Siamo nel pieno di una rivoluzione socio culturale generata da un periodo di breakdown che stiamo ancora vivendo appieno e, come in tutti i pregressi storici, avremo tanto da raccontare per farla evolvere.

Stiamo vivendo una fashion week decurtata delle presenze internazionali. Se dovessi fare proiezioni per i prossimi mesi quale sarebbe lo scenario in termini di comunicazione e vendita del prodotto?

Ciò che mi spaventa dell’approdo alle piattaforme digital è l’ottimizzazione delle vendite effettivamente valida solo per i grandi colossi.

Per le new entry come Vien il contatto fisico con il buyer è fondamentale quindi mi auguro che il Governo possa riuscire a supportare  coloro che segneranno il futuro del Made in Italy,  onde evitare un collasso senza precedenti.

Guida ai cardigan dell’autunno-inverno 2020, tra heritage e nuove interpretazioni

Sarà per le sue caratteristiche di indumento caldo, avvolgente e serioso, un bene rifugio del guardaroba che sembra rassicurarci in tempi piuttosto cupi e turbolenti, anche prima del Covid-19; sarà per la richiesta sempre più diffusa dei consumatori di abiti comodi e possibilmente versatili, alla quale la quantità di tempo passato in casa, durante (e dopo) il lockdown, ha dato ulteriore impulso; sta di fatto che, per la stagione fredda ormai imminente, il cardigan è tornato prepotentemente in auge, come certificato dalla gran varietà di modelli apparsi nella tornata di défilé dell’autunno-inverno 2020.

A ben guardare, le avvisaglie di un ritorno del capo nell’orizzonte del menswear risalgono all’ottobre 2019, quando era stato venduto all’asta, per oltre 330.000 dollari, il celeberrimo esemplare verdognolo indossato da Kurt Cobain nel 1993, durante il concerto MTV Unplugged in New York dei Nirvana. Neppure due mesi fa, poi, i dati del Lyst Index Q2 2020 hanno sancito la rinnovata centralità di questo ibrido di golf e giacca presso gli utenti della piattaforma, attribuendone il merito in particolare a Harry Styles, che lo scorso febbraio è apparso nel programma mattutino della NBC con un modello patchwork di JW Anderson, XXL e dall’effetto sferruzzato, furoreggiando sui social a colpi di hashtag (#HarryStylesCardigan), tanto da spingere centinaia di fan a filmarsi su TikTok mentre lavoravano ai ferri, per crearne una replica più o meno fedele.   

D’altro canto la storia del capo in questione testimonia di una sua certa trasversalità d’uso, in equilibrio tra formalwear e controcultura, elitarismo e pop, alto e basso: da un lato, tenendo fede al blasone delle origini (la “paternità” pare spetti infatti al generale inglese, nonché settimo conte di Cardigan, James T. Brudenell) dagli anni ’50 diviene sinonimo di preppy style, sfoggiato dunque dagli studenti delle università dell’Ivy League americana; dall’altro, si insinua nelle mise più casual di attori, sportivi e star della musica come Paul Newman, Steve McQueen, Mick Jagger o George Harrison, giusto per fare qualche esempio.

Nonostante i corsi e ricorsi, connaturati all’idea stessa di moda, e sulla scia di illustri estimatori – dal suddetto Harry Styles a Pharrell Williams, da David Beckham a Tyler, the Creator – il cardigan torna adesso a punteggiare le collezioni F/W 2020 di molte maison del lusso e marchi high-end; pur tenendo conto della disparità delle proposte, un trait d’union può essere individuato nell’estro delle decorazioni e nelle dimensioni abbondanti, spesso talmente generose da permetterne l’utilizzo al posto di cappotti, parka & co.

Uno specialista del genere come Missoni, ad esempio, esalta le possibilità espressive del colore mescolando su modelli dal piglio rilassato linee, sfumature, pattern geometrici e floreali in una palette ravvivata da toni caldi di rosso, ocra e azzurro. Anche i cardigan di Marco De Vincenzo sono un tripudio di fantasia, tra superfici sfrangiate e righe color block. Da Balmain si vivacizza il classico motivo argyle attraverso il dinamismo ottico del binomio bianco e nero, accentuando inoltre la bombatura delle spalle, mentre Ferragamo pone l’enfasi sulla linearità di volumi e materiali, allungando la silhouette dei maglioni declinati in nuance tipicamente autunnali; caratteristiche simili a quelle del modello in cachemire cammello di Hermès, la cui texture è però intarsiata di patch in pelle colorate. Da ultimo A.P.C. richiama i fasti del grunge con un cardigan a stampa animalier.

Volendo passare in rassegna alcune variazioni sul tema, disponibili anche nei migliori e-store, si potrebbe cominciare da Alanui, brand nostrano che fa dei cardigan in jacquard oversize la propria ragion d’essere: il modello Seattle Sound compendia tutti i must della casa, dalle grafiche folk alle frange lungo i profili. Gucci, da parte sua, insiste sull’icasticità dei propri simboli per una maglia su base blu interamente percorsa dal monogramma della doppia G. Thom Browne si ispira invece all’eleganza dei college Usa d’élite, trasferendola in un golf candido a trecce, rifinito dagli stilemi del designer, cioè fettucce tricolori lungo l’abbottonatura e quattro strisce a contrasto sulla manica.

Se Prada stempera l’austerità del golf accollato, realizzato in un blend di mohair e lana, utilizzando una gradazione accesa di rosso e la lavorazione a punto largo, Valentino viceversa ravviva il total black del suo cardigan grazie a bande di colore bianco e fluo. Sceglie al contrario l’essenziale Acne Studios, con una maglia monocroma scura interrotta solo dal piccolo ricamo “emoticon” sul petto. Prediligono la discrezione, infine, anche le interpretazioni stagionali di NN07, Stone Island, Roberto Collina e Polo Ralph Lauren, contraddistinte, nell’ordine, da un taglio regolare e lana color ruggine; dalla tonalità verde militare e chiusura a zip; dal filato dalla trama grossa e forme over; da cotone mélange blu navy con collo a scialle.

È evidente insomma come il cardigan riesca a soddisfare tanto i puristi del less is more quanto i fashion addict più inveterati, potendo contare, oggi come ieri, su uno dei suoi principali atout, ossia la versatilità.

5 colab da non perdere

Settembre è il mese del back to school, della moda e ovviamente delle fashion colab. Ecco la nostra selezione da non perdere.

Sacai x Ten c 

Per la stagione fw 2020, Sacai ha collaborato con il brand italiano Ten c ad una esclusiva capsule collection, composta da capi da esterno, che accostano un abbigliamento sportivo ed un abbigliamento militare. I tre modelli che la compongono sono: un Mods coat creato dalla combinazione del Bal collar coat di Sacai e il PARKA di Ten c; un blouson con il fronte che richiama il TEMPEST ANORAK di Ten c; un piumino il cui interno ha come fodera il modello ANORAK di Ten c.

Questa capsule collection è caratterizzata dall’utilizzo dell’Original Japanese Jersey (OJJ), un tessuto composto da fibre di nylon e poliestere lavorate a maglia ad alta densità, resistente al vento e all’acqua. Ha una capacità di invecchiamento simile al denim, dovuta ad un particolare processo di tintura del prodotto.

La collezione sarà disponibile in tutti gli store d’abbigliamento maschile Sacai a partire dal 19 settembre.

Levi’s Made & Crafted x White Mountaineering

Per la Fashion Week di Settembre 2020, è nata una speciale capsule collection Levi’s Made & Crafted® e White Mountaineering®.
La collezione mixa elementi tipici del design di White Mountaineering®, quali funzionalità, eleganza e tessuti innovativi, con l’heritage e la manifattura di Levi’s Made & Crafted®.

La capsule è interamente pensata utilizzando design, tecnologia e utilità; infatti, i classici capi in denim vengono riprogettati con tessuti tecnici e l’estetica dell’outerwear iconico incontra lo streetwear di White Mountaineering®. Altri pezzi includono una versione “innovativa” di una camicia popover Levi’s® Sunset, una Trucker Jacket da donna e una versione in denim e nylon dei jeans Levi’s® 505™, oltre che una serie di pezzi di cobranding.

Ralph Sampson by Puma x Replay

Replay ha recentemente siglato una partnership con Puma per reinterpretare, con il suo DNA da premium denim brand, l’iconica sneaker “Ralph Sampson”.

Si tratta di un progetto creativo, con il quale si vogliono integrare il denim e i trattamenti di ECO-washing, sviluppati da Replay per dare ai suoi capi un look autentico e vissuto, senza ripercussioni negative sull’ambiente, alla struttura originale della sneaker.
Le calzature vengono trattate con Ecostone, una nuova pietra con potere abrasivo che non lascia però tracce che richiedano successivi risciaqui, e vengono rifinite a mano con abrasioni e colorature, ideali per dare loro un aspetto unico.

La limited edition sarà in vendita negli store Replay e sullo shop online a partire da Settembre 2020.

Li-Ning x Neil Barrett

Il celebre designer di abbigliamento maschile, Neil Barrett, ha dichiarato l’uscita della sua collaborazione con Li-Ning, uno dei più celebri brand di abbigliamento sportivo.

Integrando all’estetica minimal la produzione high-tech di Li-Ning, il nuovo modello di calzature ESSENCE combina i punti di forza di entrambi i marchi. Questa calzatura è caratterizzata da un design semplice, pulito ed essenziale, ma allo stesso tempo moderno; il designer si è infatti concentrato su dettagli hardware altamente funzionali e su una tavolozza di colori dai toni neutri e versatili.

La collezione sarà disponibile a partire da fine Settembre, non solo nei negozi di Neil Barrett a Milano e Londra e su www.neilbarrett.com, ma anche presso Printemps, Ssense, Harvey Nichols, Harrods, Tsum e molti altri store.

Ruohan Wang x Nike

L’illustratrice berlinese Ruohan Wang presenta per il secondo anno Flyleather, un progetto in collaborazione con Nike.

L’artista rielabora tre modelli iconici di Nike, quali l’Air Force 1, la Blazer Mid ’77 e l’Air Max 90, le quali diventano la base per una miscela di colore e movimento che rimanda alle forze naturali della terra e all’equilibrio, caratteristiche insite nella formazione dell’artista. Nata in Cina e cresciuta a Berlino, il suo stile è caratterizzato dalla coesistenza di entrambi questi luoghi, i quali si manifestano attraverso silhouette grafiche esaltate dai colori. I modelli di questa collaborazione ne sono un esempio: infatti, i caratteri cinesi stampati sull’intersuola significano “circolo naturale” e “potere-amore”, mentre la città di Berlino viene rappresentata attraverso le tavolozze presenti sulla tomaia, realizzata con almeno il 50% fibra di cuoio riciclata.

I modelli Flyleather saranno disponibili a partire dal 24 settembre su nike.com

Pasha de Cartier, il lancio del nuovo orologio della maison francese

Anche quello del lusso, così come tutti gli altri settori, si è dovuto fermare durante questi mesi di emergenza. Oggi le case più note hanno ormai ripreso la loro attività, come ad esempio Cartier, che ha sfruttato la circostanza per rinforzare il proprio canale e-commerce, esportandolo anche in mercati come quello cinese, dove fino a poco tempo fa era assente. Non solo, perché il noto marchio si è anche reso protagonista di eventi e iniziative importanti, su tutte la mostra di Tokyo dedicata alle creazioni del brand. Ma la vera novità del momento è il nuovo modello di uno degli orologi più amati della maison francese: il Pasha de Cartier.

Le caratteristiche del nuovo Pasha de Cartier

A regalare ancora più lustro alla già scintillante nomea della prestigiosa maison francese ci ha pensato una nuova collezione di orologi Pasha tutta da scoprire. Realizzati in acciaio, oro giallo o rosa, abbelliti da diamanti che adornano i pezzi nati come gioiello, o disegnati in versione “scheletrata” per gli intenditori, alcuni di questi sono pezzi preziosissimi e dal design unico e inimitabile, in tutti i suoi caratteristici particolari. Tali molteplici e unici modelli vanno a costituire l’innovativa collezione Pasha de Cartier, i cui ricercati pezzi posso essere acquistati, insieme agli orologi delle principali collezioni, nei punti vendita ufficiali di Cartier, come ad esempio nel Flagship Store di Pisa Orologeria a Milano. È bene però sapere che la garanzia di qualità di questa collezione deriva non solo dal prestigio del marchio, ma soprattutto dalla lunga e gloriosa storia dell’orologio che l’ha ispirata. Il primo Pasha de Cartier infatti apparve nel 1980 nell’esclusiva veste maschile e divenne in poco tempo oggetto di desiderio anche per il mondo femminile. L’attuale versione ricalca quella originale in chiave moderna, aggiungendo oltre alla corona impreziosita da uno spinello blu o uno zaffiro, la possibilità di molteplici personalizzazioni.

La campagna per il lancio del segnatempo Pasha

Per celebrare la nascita della nuova collezione ispirata allo storico orologio, il colosso del settore lusso non solo ha coinvolto cinque illustri star del calibro di Rami Malek, Troye Sivan, Willow Smith, Maisie Williams e Jackson Wang, ma anche il celebre fotografo di moda newyorkese Craig McDean. Il fatto più innovativo e singolare è però il progetto utilizzato per dar luce al lancio del nuovo segnatempo Pasha, che consta di un vero e proprio film e di una serie di cinque cortometraggi, che hanno come scopo quello di dare spazio al talento. Tale campagna multimediale diffusa a livello mondiale è stata infatti interamente dedicata alla creatività unica che ha portato al successo i suoi protagonisti. Per i più curiosi sarà importante sapere che tutti i contenuti che hanno accompagnato il lancio del nuovo Cartier possono essere visionati sul sito web della nota casa, oltre che nei profili ufficiali su tutte le piattaforme social media.

Un lancio in grande stile per un orologio che ha saputo farsi apprezzare e continua a suscitare le brame di molti appassionati dei segnatempo di lusso.

Dietro le quinte della prima settimana della moda phygital : Redemption

Gli stakeholder del Made in Italy raccontano i propri eventi nella prima settimana della moda metà fisica e metà virtuale nel pieno del cambiamento epocale Covid19

Production & interview Alessia Caliendo

Ph Matteo Galvanone

Manintown incontra a Palazzo Bovara Bebe Moratti, anima di Redemption, il brand responsabile del Made in Italy amato dalle star internazionali.

Sua l’idea di lanciare, la scorsa estate, uno dei primi Festival musicali digitali connessi al fashion, per dar voce ai musicisti di tutto il mondo. Il DNA del marchio, infatti, è puramente legato al rock ‘n roll – tanto nell’iconografia di stile quanto nella ricerca di un cambiamento positivo.



Parlaci dell’evento svoltosi durante la prima settimana della moda phygital e quali sono le misure adottate per garantire uno svolgimento che mantenesse lo stesso appeal dell’era pre Covid

Premetto che prima del lockdown le sfilate non mi facevano particolarmente impazzire perché erano eventi davvero poco inclusivi. La scelta di raccontare in maniera organica la storia di una collezione, grazie ad un video, è la soluzione più responsabile. 

Qualche mese fa si commentava della fine degli eventi fisici a favore di una rivoluzione digitale sempre più avanguardista. Essere qui, oggi, smentisce tali affermazioni a favore di una nuova forma di eventi sempre più selettivi e di pari passo con la velocità dei social. Secondo te quali di questi cambiamenti segneranno esponenzialmente il modo di presentare una collezione al pubblico?

Viviamo un momento storico particolare, ma è anche vero che eravamo ad un punto il cui il sistema non stava funzionando. Alcune dinamiche stavano invecchiando mentre ora abbiamo la possibilità di rivoluzionarlo. Bisogna puntare sulla creatività, sull’artigianalità e sul puro Made in Italy focalizzandosi sulla giusta mole di collezioni.

La realtà aziendale è cambiata post lockdown? E il suo mindset creativo e progettuale?

La realtà aziendale non è cambiata di molto. Il mindset creativo invece si. Prima eravamo al servizio di un sistema ultra rapido con un’ingente richiesta. Adesso sono al servizio di me stesso e di ciò che mi piace fare con gli artigiani con cui amo collaborare.

Gli stakeholder della moda hanno provato ad immaginare, e di conseguenza a proporre, una donna segnata da una pandemia globale. Quali sono le caratteristiche che contraddistinguono la tua?

La mia donna è una rockstar, come lo è sempre stata, ma sempre più attenta alla sostenibilità. Comunichiamo ad un vastissimo numero di persone ed abbiamo una responsabilità sociale. Grazie alla ricerca e allo sviluppo, manteniamo un animo glam ma rispettiamo l’ambiente.

Stiamo vivendo una fashion week decurtata delle presenze internazionali. Se dovessi fare proiezioni per i prossimi mesi, quale sarebbe lo scenario in termini di comunicazione e vendita del prodotto?

Bisogna puntare sul contenuto e i mezzi che abbiamo a disposizione ci consentono di realizzarlo. Ringrazio costantemente coloro che sviluppano app e che lavorano per i social media, consentendo una comunicazione ottimale del prodotto. Oramai siamo padroni di mezzi infiniti.

White Milano settembre 2020: 5 marchi da non perdere

Tutto è pronto per l’inizio di White Milano settembre 2020, la fiera (dal vivo e non solo digital) del capoluogo lombardo che strizza l’occhio alla sostenibilità, alle ultime tendenze, alla diversity e all’incisività. Fino al 27 settembre, in mostra 200 aziende, 130 marchi sul sito b2b, che presentano le nuove collezioni dedicate alla primavera-estate 2021. Abbiamo selezionato cinque marchi, presenti in fiera nei prossimi giorni, da non perdere e su cui puntare. 

FEDERICO CINA

Romagna everywhere. Per Federico Cina, designer vincitore del contest Who Is On Next? 2019, il suo paese d’origine è davvero tutto. E lo si nota in tutte le sue collezioni: solari, ironiche, colorate e, senza dubbio, armoniche. «La moda è l’espressione di ciò che voglio parlare. Ogni collezione è un capitolo nuovo della mia vita», racconta il creativo.


WOOD’D

Wood’d è un lifestyle brand che realizza accessori. Il marchio prende forma nel gennaio 2012 dalla creatività e dalle capacità produttive dei fratelli Andrea e Stefano Aschieri. L’idea nasce dalla necessità di creare qualcosa insieme, partendo dal know-how che ha caratterizzato gli affari di famiglia che da oltre 40 anni produce accessori in legno per l’industria della moda. «Per me, quest’ultima è appartenenza, fiducia, sperimentazione, cultura, passione, creatività, cambiamento», spiega Stefano Aschieri. 


MICHELE CHIOCCIOLINI

Family business. A tutti gli effetti. Nel 2015, Michele Chiocciolini ha fondato l’omonimo brand, un progetto «in progress» di accessori Made in Italy che fa seguito alle sue esperienze giovanili come costumista per il cinema e per il teatro. «La moda è l’esigenza di esprimere una necessità, uno spaccato di cultura del momento, la trasposizione di sensazioni che si respirano nell’aria, attraverso la musica, leggendo un libro, viaggiando… Spesso un’ombra, una nuvola, un colore di muschio su un sasso di montagna come uno scoglio levigato dal mare comunicano queste sensazioni che diventano materiale, stampa, taglio, idee. La natura è la cosa che forse mi influenza di più, quindi la moda è natura che poi io rielaboro con una mia visione pop», spiega il designer.


ACBC

ACBC è una startup innovativa che progetta e produce calzature sostenibili. Nato nel 2017 da due giovani Italiani, Edoardo Iannuzzi e Gio Giacobbe, il marchio diventa subito globale grazie a un video che raggiunge 50 milioni di visualizzazioni e oltre 2500 clienti worldwide. A oggi, ACBC ha inaugurato 25 store monomarca in 9 paesi e vanta collaborazioni in co-branding con marchi tra cui Moschino ed Emporio Armani. La filosofia del brand è infatti di condividere il proprio know-how su materiali e tecnologie sostenibili per ridurre l’impatto ambientale proveniente dalla produzione di scarpe nel mondo.


VÌEN

Passione, determinazione e cultura. Secondo Vincenzo Palazzo, founder di VÌEN, sono questi gli ingredienti fondamentali per raggiungere l’obiettivo. A Putignano in Puglia, il creativo, come un maestro d’orchestra, dirige il proprio team, tra uffici, sartoria handmade e persino un dehors ricco di piante, dove meditare e riflettere. Per questa edizione, Vincenzo Palazzo è lo special guest di White Milano. «Non mi piace definirla e chiamarla moda. Moda vuol descrivere una cosa del momento. Per me i capi sono pensati per resistere al passare del tempo e per far propria storia attraverso i codici socio-culturali del contesto in cui essa nasce e vive nel futuro. VÌEN non è fatta per il momento: vive più in un passato proiettato nel futuro», racconta Palazzo. 


5 realtà sostenibili da conoscere

Green e digital stanno ormai rivoluzionando l’industria della moda, favorendo un cambiamento epocale senza precedenti.

Sostenibilità e tecnologia sembrano essere le nuove parole d’ordine di molte aziende di moda, alcune delle quali tendono a farsi carico di interpretare quei valori che vanno nella direzione della responsabilità sociale ed etica, altre diventano invece promotori di una vera e propria trasformazione digital.

Man In Town ha individuato alcune realtà di cui tener d’occhio sia per la loro filosofia green sia per la loro idea di far leva sulla capacità di innovazione digitale.

Acbc

Fondata da Giò Giacobbe ed Edoardo Iannuzzi, questa start up ha lanciato sul mercato un prodotto innovativo che non solo permette di viaggiare in modo confortevole, ma riduce fortemente l’impatto ambientale: si tratta di una scarpa modulare (una zip unisce tomaia e suola) e sostenibile (le suole si possono smaltire e riciclare grazie all’uso di materiali biodegradabili). Acbc permette di creare svariati modelli di scarpe con 1000 combinazioni, 10 suole e 100 tomaie per qualsiasi esigenza quotidiana. È una giovane impresa che si impegna e investe soprattutto per la salvaguardia del pianeta, con la necessità di mettere un freno all’impiego intensivo di risorse naturali e all’aumento senza sosta dei rifiuti.

Un percorso iniziato con un video su Kickstarter, in poco tempo diventato virale raggiungendo 50 milioni di view. “Qualcuno ci ha persino definito la Apple della calzatura”, ha dichiarato Giò Giacobbe, ceo di Acbc. Una vera e propria novità nell’universo del fashion che trova spazio in un segmento in forte crescita: quello delle scarpe da ginnastica, diventate ormai un must del guardaroba unisex. Acbc ha collaborato inoltre con importanti maison italiane, tra cui EA7 Emporio Armani e Moschino. La sua scarpa è stata definita dal quotidiano americano Wwd (Women’s Wear Daily) come la scarpa più sostenibile del mondo, e di recente Acbc è stata incoronata come migliore startup dell’anno, aggiudicandosi uno dei quattro investimenti dell’edizione 2020 di B Heroes, programma televisivo dedicato al mondo delle startup italiane.

Sito web: acbc.com

IG: @acbc.official

Sease

Nato nel 2016 da un’idea di Franco e Giacomo Loropiana, Sease è un brand maschile di outwear dallo stile contemporaneo che unisce tradizione, tecnologia e sostenibilità. La sua mission consiste nel valorizzare la filiera italiana, privilegiando la qualità dei processi di lavorazione e della materia prima, adottando soluzioni innovative nel pieno rispetto dell’ambiente. Da qui la riscoperta di lane autoctone, delle tinture chemical free e delle non tinture, come la lana al naturale, il lino e la canapa per la prossima calda stagione. Sease è rinomato per il suo tessuto tecnico Sunrise, ovvero lo storico tessuto Solaro rivisitato e re-ingegnerizzato in nylon bio-based e lana.

Sito web: sease.it

IG: @seaseofficial

Niccolò Pasqualetti

Giovane stilista toscano con un master alla Central Saint Martins a Londra, ha lavorato come designer da The Row, Alighieri e Loewe, ma è stato durante un tirocinio da Stella McCartney che ha approfondito la sua passione per la sostenibilità. I suoi capi, realizzati sia con vecchi vestiti sia con tessuti provenenti da stock delle migliori aziende artigianali tessili del mondo basate in Italia, sono il risultato di un’unione tra forme scultoree e fluide, quasi primitive e senza genere, che si integrano perfettamente con il corpo. L’intento è reinterpretare le tecniche della tradizione sartoriale in chiave moderna. Niccolò Pasqualetti crea anche collezioni di gioielli in materiali naturali.

Sito web: niccolopasqualetti.com

IG: @niccolopasqualetti

Tresarti

L’App Tresarti lanciata da cinque ragazzi italiani apre una nuova dimensione per il settore sartoriale e dà vita a un’esperienza digitale accessibile a chiunque abbia uno smartphone a disposizione, così che il consumatore può acquistare la propria camicia da qualsiasi parte del mondo. Si tratta di un’app che permette al cliente di creare la propria camicia online con 20 milioni di combinazioni possibili, e di essere misurato digitalmente attraverso due foto prese dal suo telefono. Un sistema di misurazione digitale che raggiunge il 97% di accuratezza sulle misure anatomiche in maniera sicura e veloce, elaborando le immagini senza intervento umano. Dai dati rilevati dalle due foto, l’App estrae il modello digitale di camicia e poi cancella i dati, per garantire la privacy. Il modello digitale può essere utilizzato per l’acquisto in seguito di altre camicie, senza effettuare la misurazione digitale. Alla fine il consumatore riceverà il capo scelto direttamente a casa, evitando di passare dal sarto. Il tutto in partnership con Canclini Tessile, azienda storica nel settore del tessile di alta qualità italiano. Tresarti presta anche attenzione al tema della sostenibilità: infatti, per la realizzazione delle camicie su misura, è possibile scegliere tra una vasta gamma di stoffe biologiche e riciclabili, prodotte con tecniche a basso impatto ambientale.

Sito web: tresarti.com

IG: @tresarti

Vitelli

Brand di knitwear dal design contemporaneo fondato nel 2016 da Mauro Simionato e Giulia Bortoli, si caratterizza per una lavorazione innovativa dei capi attraverso processi di produzione sostenibili e per la collaborazione con laboratori locali indipendenti. Il suo progetto 100% sostenibile, chiamato Doomboh, consiste nel creare capi attraverso un particolare procedimento di agugliatura dei filati di scarto provenienti dai maglifici vicentini. Tutte le creazioni di Vitelli sono realizzate esclusivamente con filati organici italiani certificati GOTS e RCS. Vitelli inoltre è parte del progetto The Sustainable Style, dedicato alla moda sostenibile e firmato Pitti Immagine, online sulla piattaforma digitale Connect fino al 9 ottobre.

Sito web: vitelli.eu

IG: @vitelli_official

Manintown supporta i giovani talenti e sceglie REAMEREI

In occasione della Milano Fashion Week 2020, Manintown supporta i giovani talenti e ospita dal 24 al 28 Settembre, nel suo nuovo spazio di via Felice Casati 21 il progetto REAMEREI.

Il marchio – nato nel 2019 dall’incontro creativo tra Enrico Micheletto, Marzia Geusa e Davide Melis  – ambisce a definire uno stile unico in cui la distinzione di genere diventi una linea sempre meno percettibile, adottando un approccio narrativo

REAMEREI è un palcoscenico, un viaggio tra realtà ambigue che affiancano la nostra. La loro vision si basa sulla volontà di far riaffiorare sogni perduti e speranze infantili distrutte dalla maturità. L’indagine estetica invece è incentrata sullo scontro tra la vita in città, con le sue comodità e le sue forzature, ed il bisogno di fuggire verso un ignoto illeggibile, riscrivendo la propria identità. Lo sguardo è volto anche verso diverse icone della cultura musicale e artistica italiana, combattendo un’ironica guerra contro la rinuncia al decorativismo maschile e, più in generale, contro il dimorfismo sessuale nello stile di vita e nell’abbigliamento.


Ogni pezzo è progettato come un portale narrativo, da interpretare al ne di diventare protagonisti di un racconto. Il brand si caratterizza per le stampe surreali che celebrano un’idea di bellezza fuori dagli schemi classici e razionali.

In esclusiva per Progetto Nomade + Manintown Gallery, REAMEREI presenta  la nuova capsule di t-shirt sostenibili, “Gnōthi Seautón” un invito per le persone a conoscere se stessi per  riscoprire i valori della generosità e dell’altruismo.

Nato durante il periodo di lockdown, Gnōthi Seautón, rappresenta il punto di partenza: una massima appartenente al tempio di Apollo a Delfi, che invita le persone a conoscersi al meglio, ma anche a non sconfinare in ruoli che non ci possono appartenere. Una scelta determinata da un’analisi sociale, in relazione al periodo storico che stiamo vivendo, segnato da violente propagande di odio e scontri sociali sempre più intensi, in una reinterpretazione che consiste nell’invito a riscoprire i valori della collettività. Le t-shirt sono realizzate in cotone biologico rigenerato e sono disponibili in due varianti, un’anticipazione della nuova linea artistica e filosofica del marchio che pone in primo piano il concetto di consapevolezza ambientale. I soggetti delle nuove stampe sono una dichiarazione dello stile REAMEREI. Realizzati in 3D, partono dal mito dell’Androgino di Aristofane per ridiscutere l’idea di Amanti Futuri: creature di ambigua provenienza, rivoluzionarie e immerse in un’atmosfera cyber-punk, prive di ogni etichetta, normalmente libere di vivere l’amore in libertà. Il progetto segna un punto di svolta per il brand che  vuole stimolare a costruire una realtà alternativa e fantasiosa nel quale natura e tecnologia convivono in armonia, interrogandoci sulla visione del futuro che accomuna le generazioni d’oggi.

Vaderetro: il brand vincitore del Pitti Award

Il nome sembra uscire da un fumetto horror anni Settanta, immediato e decisamente pop: Vaderetro. Mi ha colpito subito una loro felpa con la scritta ‘Nostalgia’, trovandola spiritosamente perfetta per i nostri tempi di malinconia, ricordo e paura del presente.

Ma il marchio fondato da Antonio D’Andrea e Hanna Boyer ha molte frecce al suo arco e non si ferma ad una sentimentale citazione del passato; dietro alla ricerca del duo c’è un’attitudine al recupero di tessuti, che li pone in piena sintonia con le istanze socio/eco-friendly che si stanno facendo giustamente largo nella moda contemporanea. Il brand Made in Italy realizza gran parte della collezione grazie ad artigiani locali che utilizzano tessuti riciclati o inutilizzati. E così dietro all’immaginario pop, la scatola della confezione ricorda un vecchio gioco da tavolo e subito fa pensare a momenti invernali passati nella tavernetta della nonna, c’è una precisa valorizzazione delle risorse del territorio partenopeo e della sartoria napoletana. 

Finalisti al prestigioso concorso ‘Who Is On Next?’, Vaderetro si è meritato il Pitti Award e noi li abbiamo intervistati alla vigilia del concorso. Ve lo facciamo conoscere!

Come vi siete avvicinati alla moda?

Un amore per gli “indumenti” in realtà c’è sempre stato. Non è mai stata una passione per la “moda” intesa come un qualcosa di glamour, di irraggiungibile, di costoso, “di marca”.  Piuttosto un’attrazione verso quegli elementi che poi sono l’essenza di questo mondo: i capi. Che sia una semplice canotta bianca, una felpa o una giacca doppiopetto interamente ricamata a mano, a prescindere dai brand o dai trend che si sono susseguiti negli anni. 

E come avete iniziato?

Negli ultimi 11 anni abbiamo vissuto rispettivamente a Londra (Antonio) e Parigi (Hanna). Sin dall’inizio abbiamo sempre lavorato nel settore moda, coprendo diversi ruoli nei vari department (dal creativo, all’amministrativo, dal commerciale al logistico etc) per brand molto prestigiosi, di cui non possiamo fare nomi  (P*ada, L**is Vui**on, Viv**nne West***d, Y*es S**nt Lau**nt, Arm*ni, shhhhh!)

Queste esperienze per noi sono state più che fondamentali per avere una comprensione a 360 gradi del settore e del suo funzionamento e che, successivamente, ci hanno portato a sviluppare un progetto interamente nostro.

Come è nato il progetto e perché questo nome?

L’idea del progetto Vaderetro è nata a Londra, dove ci siamo conosciuti. In seguito si è sviluppato in totale “isolamento” in Marocco, dove ci siamo trasferiti per circa 1 anno, ed infine, concretizzato interamente in Italia, dove viviamo e lavoriamo, per il momento.

La necessità di voler creare il mondo Vaderetro, che non reputiamo solo un brand, ma una vera e propria Art De Vivre, è scaturita dall’analisi del settore moda dove ci siamo resi sempre più conto che spesso ci si sforza troppo nella ricerca di “creare” il nuovo trend, la nuova “cosa”, la cosa “più cool”, di affermarsi come i creatori di un qualcosa che in realtà già è stato fatto. 

Con la nascita di Vaderetro noi vogliamo semplicemente bypassare questa parte “effimera”, dove ognuno esalta sé stesso per qualcosa che in realtà, spesso, non ha creato. Noi semplicemente vogliamo riprendere e riportare in vita elementi del passato (da qui nasce uno dei nostri motti “You have seen it before.”) e riproporle ai giorni nostri, senza nascondere, anzi accentuando il più possibile la fonte d’ispirazione. Da qui nasce anche il nome Vaderetro, dal latino, “tornare indietro”.



Sapete che sono innamorato di una vostra felpa che recita “Nostalgia”. Da più parti sembra forte l’esigenza di recupero, reale come ri-uso, ma anche come malinconia del passato. Da cosa nasce tutto questo, secondo voi?

Crediamo che la malinconia del passato provenga principalmente da un situazione attuale (economica, politica, sociale, ambientale) dove il panorama è tutt’altro che soddisfacente e rassicurante. L’unico modo per poter “scappare” da questa realtà è quello di rifugiarsi, anche solo per qualche istante, in un momento, in una sensazione provata durante l’infanzia, in un profumo o addirittura raggiungere il punto di essere nostalgici di epoche mai vissute, ma che ci sono state tramandate, raccontate come dei paradisi perduti che non torneranno più.   

Mi raccontate cosa proporrete in questi giorni a WION?

Nel secondo Capitolo delle nostre “Memorie” esploriamo e approfondiamo il tema dell’immigrazione – un tema molto attuale nel panorama mondiale che non risparmia l’Italia, ed esploriamo più precisamente la storia dell’immigrazione italiana negli Stati Uniti. La capsule si focalizza sul fiorire della cultura italo-americana negli anni ’50 e ’60. Per farlo, ripensiamo alla persistenza dell’identità etnica tra gli italoamericani di seconda generazione, attraverso una fittizia trattoria familiare nel centro di Little Italy: Ria Rosa’s.

Con il passare del tempo sembra che si tenda a dimenticare questa parte di Storia, forse perché non vissuta in prima persona. Abbiamo ritenuto necessario affrontare certi eventi, ricordando attraverso questa collezione il tempo in cui eravamo noi italiani ad avventurarci su “barconi” in cerca di una vita migliore.



Da dove nascono le ispirazioni? Un luogo, un artista, una città capaci di ispirarvi? 

La particolarità è che il nostro concept non segue nessuna linea guida. Si resetta sistematicamente in ogni collezione e come conseguenza è molto imprevedibile. Prima di realizzare le nostre capsule, passiamo anche mesi ad analizzare, studiare l’epoca scelta e le sue sub-culture, movimenti artistici, eventi storici rilevanti etc. per far sì che la realizzazione finale possa far immergere, il più possibile, chi osserva nello zeitgeist dell’epoca scelta. 

Senza dimenticare l’arricchimento culturale personale che si acquisisce durante il processo di studio e creazione. Ad esempio la nostra capsula f/w 2020 è interamente dedicata agli anni ’80/’90, più precisamente all’infanzia e adolescenza di quegli anni. Come conseguenza, anche la scelta dei modelli, come potrai notare nella campagna ed e-commerce, sono ragazzi giovani, dall’aria semplice e spensierata, che stanno a ricordare il feeling che si aveva nel vivere la propria gioventù di quegli anni. 

Lo stesso lo si identifica nei capi dove tutta la capsule gira intorno ad un look maggiormente informale, con hoodies cropped che richiamano il merchandise delle famose rock band indossate dai teen dell’epoca, felponi in stile maglia da calcio anni ’80, uno degli sport più popolari dell’epoca tra i ragazzini, T-shirt che si rifanno ai famosi magneti con letterine sui frigoriferi o alla nascita di Windows 3.2, giacche doppiopetto che ricordano i neon quando si entrava in una sala giochi Arcade…in poche parole una “mise en abyme”!

Cosa non deve mancare nel guardaroba di un uomo?

Vaderetro è un brand interamente genderless, quindi la cosa che non devo mai mancare nel guardaroba, a prescindere dal genere, è l’immortale T-shirt bianca.



Un consiglio di stile per i nostri lettori?

Se ti “stai sforzando”, forse ti stai sforzando troppo. Lo stile parte dall’accettare la tua unicità, le tue particolarità, le tue differenze, accettandole e soprattutto amandoti. Una volta che questo lavoro è finito, e lungi dall’essere il più semplice, lo stile arriverà. Lo stile riguarda la nostra natura unica.

Vostro motto personale?
Come disse il pittore Carlo Levi: “Il futuro ha un cuore antico”. Come diremmo noi, in stile Vaderetro: “The past is the present’s future.”

Progetti e sogni per il futuro?

Il sogno sarebbe riuscire ad affermarci non solo come brand di “abbigliamento”, ma come un vero e proprio movimento culturale, avere la possibilità di lavorare con enti ed associazioni che lottano per cause a cui noi teniamo in modo particolare.  Disegniamo vestiti per trasmettere un messaggio, ma non basta: c’è bisogno di una partecipazione pro-attiva e di un impegno concreto.

Progetti ed idee future ne nascono ogni giorno; nel concreto, stiamo sviluppando una collab con una famosa cantina vinicola italiana e lanceremo per l’inverno prossimo la nostra prima collezione di “accessori”, non inteso nell’ambito della moda, ma bensì pezzi di arredamento… e non possiamo svelare dire altro. Stay tuned!

La fiaba di Riccardo Tisci: “In bloom” Burberry Spring/Summer 2020

Riccardo Tisci, direttore creativo di Burberry, ci trasporta virtualmente nella campagna britannica per la sua collezione spring/summer 2021.
Seguendo ogni norma di sicurezza anti Covid19, lo show ha preso vita con la perfomance dell’artista tedesca Anne Imhof ed il live musicale di Eliza Douglas, accompagnando la fiaba d’avanguardia proposta da Tisci.

Photo: courtesy of Burberry

“È iniziato tutto pensando all’estate Inglese; abbracciando gli elementi con un trench sulla spiaggia, mescolando sabbia e acqua. Ho immaginato le persone in questo contesto, come se fossi il guardiano del faro, e una storia d’amore tra una sirena e uno squalo, con l’oceano sullo sfondo, poi vissuta sulla terraferma” – commenta Riccardo Tisci in merito alla sua collezione “IN BLOOM”.
Il DNA britannico entra così in armonia con il moderno streetwear attraverso l’elemento naturale che ha da sempre caratterizzato il brand, l’acqua – il fondatore della maison Thomas Burberry ha inventato il gabardine, il primo tessuto tecnico progettato per respingere l’acqua e per proteggere il corpo, utilizzato per creare l’iconico trench, ad oggi ancora fulcro del brand.

Ma l’acqua è anche simbolo di rinascita e rigenerazione ed è così che Tisci decide di dare una “rinfrescata” ai capi iconici della maison.
L’uomo Burberry trae ispirazione dell’abbigliamento marinaresco, con capispalla sana maniche e un carcoat con motivo a pinna di squalo scolpito in neoprene 3D e una camicia con dettagli di resina traforata con anellini.
La donna al più vanta uno spirito ribelle e giovanile con giochi di tessuti e trasparenze come nei pantaloni di chiffon trasparente con dettagli di shorts stampati e nell’abito con corsetto di raso elasticizzato sovrapposto a strati di tulle arruffati, mentre la sera sfoggia cristalli e punti luce.

Lo show è concepito come un’installazione che esplora la libertà di espressione – trasformando la finzione in fatti mentre la realtà diventa irreale, il tutto accompagnato da una lieve oscurità dettata evidentemente dalla paura che ha “inondato” le nostre vite quest’anno.


La sostenibilità secondo Matteo Ward

Parliamo di nuovi scenari sostenibili legati al settore del fashion con Matteo Ward, co-fondatore del brand responsabile Wråd e art director della sezione di White dedicata ai progetti green. Nell’intervista ci racconta il suo percorso e la visione per il futuro.“Siamo nel mezzo di una rivoluzione sistemica che va ben oltre aspetti come il cotone organico o il nylon riciclato. Oggi il prodotto deve avere uno scopo e offrire un servizio».  



Raccontaci come è iniziata la passione per la sostenibilità? 

Mentre lavoravo in Abercrombie, il ruolo che ricoprivo mi ha portato ad intraprendere un percorso di scoperta della verità circa il reale costo dell’industria di cui facevo parte. I dati sono spaventosi: per produrre una maglietta occorrono fino a 2.700 litri di acqua, per la tintura e finissaggio dei capi possono essere utilizzate tra le 1.600 e 2.000 sostanze chimiche dannose per la nostra salute e gli ecosistemi. E ancora, pensare che più della metà dei nostri capi contiene polyestere e che questi, acquistati e consumati ad un tasso sempre più elevato, possono impiegare fino a 200 anni per essere smaltiti o ragionare attentamente sull’impatto sociale della produzione tessile. La scoperta di tutti questi fattori e molti altri hanno contribuito a far crescere in me la voglia di mettere in discussione lo status quo. Decido quindi di licenziarmi e di investire la mia liquidazione per dar vita ad un progetto con un impatto sociale e ambientale, educativo in primis. Non potevo più accettare di contribuire involontariamente a rendere l’industria della moda una delle più inquinanti al mondo. Quindi assieme a Victor Santiago e poi Silvia Giovanardi diamo vita a WRÅD ispirare il mercato a manifestare valori sociali e ambientali attraverso prodotti tangibili al fine di catalizzare il cambiamento. 

C’era e c’è ancora, un’enorme asimmetria informativa rispetto al vero costo della moda. Questa è stata la vera motivazione ad abbandonare la mia zona di confort per dedicarmi a trovare soluzioni finalizzate a generare consapevolezza attraverso il design, l’educazione e la comunicazione. 



Quale è il tuo approccio a questo mondo? 

Bisogna lavorare con approccio e visione sistemica, ragionare a compartimenti stagni nel campo dello sviluppo sostenibile è rischioso e potenzialmente controproducente. Dobbiamo tenere a mente che tutto ciò che produciamo nel campo tessile (anche se fatto con materie prime naturali considerate responsabili) ruba comunque risorse naturali necessarie per rispondere alle reali esigenze di una popolazione in aumento. Non possiamo continuare a rubare acqua a persone e paesi in crisi di risorse per produrre milioni di tonnellate di vestiti di cui nessuno ha reale bisogno. 

Noi lavoriamo su tre fronti: educazione, innovazione e design. Ogni business unit è sinergica alle altre e lavoriamo per ispirare il pubblico a voler seguire modelli di consumo più responsabile e al tempo stesso per mettere sul mercato progetti e processi innovativi, smart e responsabili, in risposta alle rinnovate esigenze dell’umanità. Il prodotto deve essere ri-allineato con i veri bisogni delle persone, salute in primis – e il sistema deve passare da uno stato di individualismo lineare, che sta distruggendo l’ambiente e le persone, ad una nuova forma di collaborazione circolare. 

Quali le figure di riferimento che sono state di ispirazione? 

A livello lavorativo Susanna Martucci, founder & CEO di Alisea e Perpetua. È stato il nostro primo investitore, con lei abbiamo fatto una partnership che ci ha portato a inventare una nuova forma di tintura che recupera la polvere di grafite scartata dai processi di lavorazione industriale. 



I tuoi prodotti più significativi e innovativi? 

Nel 2016 ha preso appunto forma la partnership con Susanna Martucci di Alisea che ci ha messo a disposizione la sua esperienza nel campo dell’economia circolare per portare innovazione nelle filiere tessili. Frutto di questa sinergia è G_pwdr technology, un processo innovativo di tintura con grafite riciclata, oggi brevettato. Una tecnologia che ci ha consentito di giustificare la creazione di nuovo prodotto in un mondo che di certo non ha bisogno di altre t-shirt e jeans in quanto ci rendiamo subito contro che attraverso la tecnologia g_pwdr anche una semplice maglietta poteva diventare molto di più – un reale servizio. G_pwdr technology consente infatti di ridurre il consumo d’acqua in fase di tintura del 90% e di eliminare l’utilizzo di pigmenti chimici riciclando il sottoprodotto inevitabile della produzione di elettrodi in grafite. Un processo unico, ispirato da una tradizione di tintura minerale che affonda le sue radici nell’antica Roma, che WRÅD ha riscoperto e re- immaginato grazie agli abitanti di Monterosso Calabro che per secoli si sono tramandati oralmente questa pratica. Questa scoperta consente la creazione di GRAPHI-TEE endorsed by Perpetua. La prima t-shirt che recupera 20 grammi di grafite altrimenti destinata alla discarica. 

Come sta evolvendo il mondo della sostenibilità? 

C’è molta più attenzione da parte del mercato (Gen Z in primis) anche se il value-action gap, la distanza cioè tra chi manifesta la volontà di volere prodotti responsabili e di adottare uno stile di vita piu smart e chi poi effettivamente mette in atto questi principi, è ancora alto a causa di barriere di diverse tipo che dobbiamo abbattere. 

Ci sono vere rivoluzioni in corso nella filiera tessile, anche con diverse eccellenze italiane, che stanno mettendo a punto processi innovativi per ridurre sempre piu il consumo e deturpazione di risorse naturali fondamentali per l’umanità.
Persiste però il problema che se i brand e il sistema pensano che basti fare uno switch a modelli produttivi più responsabili per potersi definire “sostenibili” senza cambiare il loro modello di business allora non vedo evoluzioni sul fronte dello sviluppo sostenibile. Crescita incrementale e idea di profitto che non considera il capitale umano e quello naturale nell’equazione non sono compatibili con il concetto di sostenibilità. Fondamentali diventano i servizi e le tecnologie funzionali a rendere anche il prodotto tessile un servizio, riducendo cosi significativamente la sovra-produzione, in un sistema che deve riportare il rispetto per la salute dell’uomo e di tutte le specie viventi al centro. 

Boutique dal mondo: 6 store di tendenza

Da Copenaghen al North Carolina, da Dubai a Parigi, ecco gli indipendent store con proprie interpretazioni sulle tendenze.

Thanx God I’m a VIP

Lanvin e Chanel sono 2 dei brand che si possono trovare nella boutique parigina di Sylvie Chateigner e conservano, nonostante tutto, un aspetto decisamente moderno. Il suo approccio scrupolosamente curato ha reso lo store uno dei luoghi vintage più venerati e rispettati della città.

“I vestiti non sono interessanti solo perchè firmati Saint Laurent”, afferma Chateigner. “Non venderò mai una giacca imbottita sulle spalle, perchè non è adatta per questo periodo”.

12 Rue de Lancry, 75010, Paris 


Sylvie Chateigner e il suo partner Amnaye Nhas al Thanx God I’m a VIP © Mathias Depardon

Holly Golightly

Nessuno incarna lo stato d’animo della moda massimalista meglio di Barbara Maj Husted Werner, la proprietaria della boutique Holly Golighlty di Copenaghen.

“Ho un intransigente approccio nei confronti dei pezzi che scelgo – infatti, considero quelli che personalmente mi piacciono e quelli che penso possano interessare ai miei clienti” dice Barbara, il cui negozio è familiare ed eclettico allo stesso tempo. 

Borgergade 17B, 1300 Copenhagen K  


Barbara Maj Husted Werner, proprietaria de Holly Golightly © Rasmus Weng Karlsen

Alára

“Le persone non vengono qui in cerca di pezzi basic, bensì glamour”, afferma Reni Folawiyo, fondatrice del nigeriano concept store Alára.

Situato nel fiorente quartiere di Victoria Island di Lagos, il negozio è il sogno di qualsiasi amante del design: un edificio teatrale su più livelli, progettato dall’architetto ganese-britannico David Adjaye, il quale ospita un eclettico mix di moda, arte, arredi e oggetti decorativi – alcuni provenienti dall’Europa, mentre molti altri provenienti da differenti parti dell’Africa, comprese le montagne del Marocco.

Dietro la suggestiva facciata di vetro, gli oggetti sono posizionati in stile espositivo: il primo piano è dedicato alle etichette di abbigliamento femminile, come YSL, Dries Van Notes e Duro Olowu, anche se sono gli abiti al ginocchio della nuova collezione di Kenneth Ize a incarnare l’ethos di Alára.

 12a Akin Olugbade Street, Victoria Island, Lagos


Alára proprietaria del Reni Folawiyo nel suo emporium di Lagos © Lex Ash

Tiina the Store

Se Georgia O’Keeffe avesse aperto un concept store a Tokyo, avrebbe potuto essere molto simile al negozio che Tiina Laakkonen ha creato – non nella capitale giapponese, ma a Amagansett sulla South Fork degli Hamptons.

Austericamente chic, l’omonimo negozio di Laakkonen è il culmine di una sfavillante carriera nella moda – infatti, la proprietaria ha lavorato nello studio di design di Chanel, come stilista per Vogue e come modella per Alexander McQueen.

Oggi vende i pezzi dei più esclusivi fashion designers del mondo – con molti dei quali ha anche legami personali.

216 Main Street, Amagansett, NY 11930


Tiina Laakkonen nel suo store © Mark C O’Flaherty

The Cartel

“È sempre stato difficile comprare vestiti interessanti a Dubai”, afferma la pluripremiata architetto, diventata art curator e proprietaria di una boutique, May Barber.

Oggi, tuttavia, si è creato un movimento indirizzato verso la moda in città. E in prima linea vi è The Cartel, uno dei più audaci store di Dubai, nato dalla passione per la moda all’avanguardia di Barber.

“The Cartel è una casa creativa, una galleria e uno studio di design, nonchè un incubatore di start-up di moda e, naturalmente, una boutique multimarca”.

Building 9, Showroom 105, Dubai Design District, Dubai


May Barber nel suo store di Dubai © Siddharth Siva

Capitol

Una boutique su due piani nel cuore di Charlotte, nel North Carolina, potrebbe non essere il posto più ovvio per trovare la risposta a Colette o Dover Street Market. Capitol è un emporio di 6,000 metri quadrati, pieno di marchi di moda, alta gioielleria, accessori di culto e perfino couture.

Linee poco conosciute e pezzi dei più importanti designer sono stati portati a Capitol sin dal suo inizio nel 1998.

“Noi facciamo le cose in maniera differente qui”, afferma Vinroot Poole. “Mentre a New York si potrebbe trovare l’ultima collezione di Balenciaga in nero, qui noi la offriamo in rosa. I nostri clienti vogliono pezzi unici e io voglio che i nostri clienti facciano delle scoperte qui e che si trattengano per un po’.

4010 Sharon Road, Charlotte, NC 28211


Laura Vinroot Poole © Weston Wells


Fonte: Financial Times, “Eleven of the world’s best fashion boutiques”, 19 Agosto 2020

Occhiali da vista: come sceglierli in base al volto

Gli occhiali possono essere una gioia o un dolore per chi è costretto a indossarli, anche se negli ultimi anni hanno avuto la loro rivincita, diventando da accessorio ingombrante, a simbolo di personalità e stile.

Dipende molto dal modello e dal colore che scegliamo, che possono più o meno donare al nostro viso. Vi lasciamo quindi una piccola guida per scegliere l’occhiale da vista perfetto per il vostro volto.  

Tipo di volto: occhiali da vista ideali

Viso ovale

Se la struttura del viso è di tipo ovale, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Questa forma di viso è infatti quella più regolare ed armonica e si adatta bene a diverse forme di occhiali. Sbizzarritevi ed osate!

Viso tondo

Se il contorno del viso tende alla forma tondeggiante, allora il consiglio è quello di scegliere una montatura che aiuti a creare l’illusione ottica di un viso più allungato, per bilanciare le proporzioni. I modelli più consigliati, di conseguenza, sono quelli con una forma rettangolare o comunque con bordi spigolosi. Sceglieteli con lenti abbastanza grandi e larghe da fuoriuscire un po’ dal viso, per aumentare l’effetto “allungante”. State alla larga invece dalle forme tonde e tondeggianti, che invece creerebbero l’effetto opposto.

Viso romboidale, detto anche a diamante

La caratteristica che contraddistingue questa forma di viso sono certamente gli zigomi, naturalmente alti e pronunciati. In questo caso dovreste evitare gli occhiali troppo grandi, ma piuttosto optare per le linee ovali, oppure quadrate, ma con spigoli più morbidi ed abbombati, per mettere in risalto lo sguardo.

Viso a cuore

La fronte più ampia rispetto al mento, sono le caratteristiche del volto a cuore, detto anche a triangolo. L’obiettivo in questo caso è di riproporzionare la parte alta del viso con quella inferiore, quindi “ridurre” otticamente la larghezza della fronte. Via libera quindi alle forme morbide ed ovali, magari con montature in metallo o senza montatura soprattutto nella parte inferiore.

Viso quadrato

Se il vostro viso ha la mascella ben pronunciata, l’obiettivo degli occhiali sarà smorzare la spigolosità dei tratti con forme morbide, smussate e non troppo piccole, in modo da avvolgere meglio il volto. Molto indicate anche le forme a goccia e a occhi di gatto.

Viso rettangolare

Se oltre ai lineamenti un po’ spigolosi, il viso è anche allungato, allora la vostra face shape è di tipo rettangolare. In questo caso si può bilanciare l’armonia delle proporzioni in due modalità: allargando la parte superiore del viso, oppure facendo in modo che il viso appaia, “meno allungato”. Le possibilità quindi variano dalle forme squadrate a quelle più tondeggianti o ovali, l’importante è che ci si diriga verso uno dei due modi di “spezzare” le linee del volto.

Questi piccoli trucchi possono aiutarvi a farvi sentire più a vostro agio indossando gli occhiali da vista, ma la cosa più importante è che vi vediate belle e valorizzate dalla forma e dal colore di questo accessorio, che più di ogni altra cosa deve esprimere la vostra personalità ed assecondare il vostro stile.

Rolex, la nuova linea dal carattere moderno e iconico

Simbolo di eleganza e ricercatezza dell’alta orologeria, Rolex lancia una nuova linea di esemplari dal carattere moderno e dal design iconico. Novità che fanno parte della collezione Oyster Perpetual. Abbiamo pensato a due look, uno da nightclub e l’altro per il vostro leisure time durante la giornata, perfetti se abbinati ai nuovi modelli Rolex accattivanti, iconici e simbolo di eleganza senza tempo.

SUBMARINER 

Un legame indissolubile quello tra Rolex e il mondo subacqueo: il nuovo modello Submariner e Submariner Date. Oggi, entrambi gli orologi presentano una cassa dal design rinnovato e ingrandita fino a 41 mm di diametro, le cui forme sono valorizzate dai riflessi di luce sui fianchi della carrure, e un bracciale di proporzioni rivisitate.

Impermeabile fino a 200 metri, é fedele al design iconico della casa con alte prestazioni durante le immersioni, ma anche sulla terra ferma: questi orologi si confermano esemplari “d’azione”. I dettagli delle lunette sono in ceramica, grande alleata Rolex per la creazione di orologi ad alta definizione.

Come ogni orologio Rolex, l’Oyster Perpetual Submariner e l’Oyster Perpetual Submariner Date vantano la certificazione di Cronometro Superlativo che garantisce prestazioni al polso fuori dal comune.

NUOVO DATEJUST 

Estetica iconica e quattro nuove declinazioni in versione Rolesor bianco. La prima, presenta una lunetta con 46 diamanti taglio brillante, esibisce un quadrante aubergine con finitura soleil, decorato con il numero romano VI anch’esso con diamanti incastonati. I quadranti delle altre tre declinazioni, tutte dotate di lunetta zigrinata in oro bianco 18 ct., sono, rispettivamente, verde menta con finitura soleil, laccato bianco e dark grey con finitura soleil.

Il Datejust é l’archetipo dell’orologio classico, non solo per la sua estetica ma anche per le funzioni. Dal 1945, anni della sua nascita, questo orologio ha conservato nel tempo i suoi tratti estetici, divenendo simbolo di classicismo e alte prestazioni.

La sua principale caratteristica? L’unione tra oro 18ct. e acciaio. Le nuove declinazioni del Datejust 31 sono dotate del calibro 2236, un movimento interamente sviluppato e prodotto da Rolex. Impermeabile fino a 100mt, vanta anche della certificazione di Cronometro Superlativo a livello di precisione, impermeabilità, carica automatica e autonomia. 

OYSTER PERPETUAL 

Una nuova generazione di orologi Oyster Perpetual. In particolare, la gamma si arricchisce con un nuovo modello, l’Oyster Perpetual 41, e con nuove declinazioni dell’Oyster Perpetual 36, che esibiscono quadranti dai colori luminosi.

L’Oyster Perpetual 36 adotta uno stile energico e colorato, con un quadrante laccato disponibile in cinque nuovi colori: rosa candy, turchese chiaro, giallo, rosso corallo e verde. I dettagli su lancette e indici sono rivestiti con un materiale luminescente che emette una luce blu in contesti con poca luce.

La cassa Oyster delle declinazioni presentate dell’Oyster Perpetual 41 e dell’Oyster Perpetual 36, garantita impermeabile fino a 100 metri di profondità, è un esempio di robustezza e di eleganza. Questi segnatempo esclusivamente realizzati in acciaio Oystersteel indicano l’ora, i minuti e i secondi e, con le loro finiture curate, rappresentano la forma più essenziale del cronometro da polso.


SKY-DWELLER

Rolex presenta una nuova declinazione in oro giallo 18 ct. del suo Oyster Perpetual Sky‑Dweller, abbinata a un bracciale Oysterflex.

Lunetta girevole tra le novità, visualizzazione Cromalight che valorizza dettagli luminescenti in blu quando si è al buio. 

Perfetto per i viaggiatori, l’orologio consente la lettura simultanea dell’ora di due fusi orari e dispone di un calendario annuale. L’ora di riferimento, in formato 24 ore, è leggibile su un disco decentrato, mentre l’ora locale è indicata dalle tradizionali lancette centrali. Dotato del calibro 9001, direttamente brevettato da Rolex e ritenuto uno dei sistemi di calibro più complessi mai realizzati che permettono però assoluta precisione.

Il bracciale Oysterflex della nuova declinazione dello Sky‑Dweller è dotato di un fermaglio Oysterclasp in oro giallo 18 ct. con chiusura pieghevole.


Nelle gallery seguenti i nostri consigli per un look perfetto da abbinare ai nuovi modelli dell’iconico orologio declinati per il giorno e per la sera.

LOOK DA GIORNO


LOOK DA SERA


La metropoli rurale di Federico Cina

Il designer che canta al mondo della propria terra

Intervistiamo oggi Federico Cina, una giovane promessa del firmamento moda che con le sue creazioni sfida i confini tra locale e globale, maschile e femminile, tradizione e innovazione. Dalle sue origini tra i colli romagnoli alle esperienze nelle grandi capitali mondiali del fashion, Federico ci parla della sua brand identity e ci presenta, tra le tante novità, la nuova collezione s-s 2021 Corpi e Luoghi.



La moda è di per sé arte e come tale vuole comunicare messaggi e pensieri. Quali sono i valori celati dietro le trame romagnole delle tue collezioni?

Tutto è partito per dare omaggio e ringraziare a mio modo la mia famiglia, perché la stampa romagnola mi ricorda i pranzi della domenica passati insieme ai genitori e ai nonni. Vedere una giacca o un pantalone con quella fantasia mi ricorda tutta la mia infanzia, gli insegnamenti e i valori trasmessi dai miei cari. È una celebrazione e una rivincita: essendo nato a Cesena, e avendo vissuto nel piccolo paesino di Sarsina, mi sono sempre sentito un pesce fuor d’acqua, da piccolo sognavo la grande città, la fuga dalla campagna. Crescendo ho capito di amare il luogo dove sono cresciuto, il che mi ha spinto a dare omaggio a ciò che da piccolo non mi piaceva e che ad oggi rappresenta invece la mia identità. 

Cosa ti ha spinto a tornare a Sarsina?

Mi sono trovato benissimo nelle città in cui ho vissuto, rifarei tutto da capo, sono state esperienze necessarie. Ciò che mi mancava era proprio la verità del rapporto umano, la relazione sincera e trasparente tipica della mia terra. Molti spostamenti ed esperienze che ho avuto, soprattutto tra il 2016 e il 2017, mi hanno spinto e convinto a rientrare in Romagna. È stata la mia fortuna tornare, fondamentale per l’apertura del mio marchio, paradossalmente è partito tutto dal mio ritorno.

Il tuo background non si ferma perciò alla sola Romagna, vantando esperienze importanti come quella vissuta in Giappone e poi a New York, prima ancora della stessa Milano. Che peso hanno oggi queste tre culture sulle tue collezioni? Come ti ispirano e come convivono nei tuoi abiti?

Faccio un passo indietro dicendo che non riesco a trasmettere agli altri ciò che non sento in primis sulla mia pelle. Le esperienze che ho fatto in Italia e all’estero continuano ad influenzarmi, soprattutto a livello sociale; penso al senso del rispetto che ho imparato in Giappone, ad esempio. Ammetto di subire queste influenze in maniera inconscia, mi seguono e si mischiano mentre creo, è un processo puramente istintivo. Anche l’esperienza a New York presso Brooks Brothers è stata fondamentale a livello sia tecnico che sociale, così come Milano e la stessa Romagna. Tutti questi aspetti emergono nelle mie collezioni. Prendiamo ad esempio il completo uomo color rosso della collezione Corpi e Luoghi: le linee geometriche, pulite e precise ricordano la tipica mentalità quadrata giapponese mentre il retro dell’abito è ispirato al nodo dei grembiuli della nonna. Ogni esperienza che facciamo ci segue e ci influenza soprattutto, nel mio caso, nel processo creativo.



Parlando della collezione s-s 2021 Corpi e Luoghi hai riferito che essa costituisce un “omaggio alla memoria”. Che cosa intendi?

Si tratta dell’omaggio alla mia memoria, alla mia infanzia. Ci sono più corpi, più “me” che hanno vissuto in questi anni in luoghi diversi, dalla campagna alla grande città. Corpi e Luoghi rappresenta il primo debutto con la Camera Nazionale della Moda. La sfilata è stata posticipata a gennaio 2021 a causa della pandemia perciò il vero grande debutto è stato quello in occasione della Fashion Week digitale. In questa collezione ho voluto ripercorrere la mia vita fino ad oggi, perché si tratta esattamente di ciò che voglio raccontare attraverso i miei abiti. Presento le mie collezioni ogni stagione come diversi capitoli della mia vita; la trasparenza e la sincerità sono valori essenziali per la mia brand identity.

Il video di presentazione di Corpi e Luoghi sembra evocare una sorta di “chiusura del cerchio”: si vede l’infanzia di un giovane che cresce in un paese di montagna sognando la grande città, il tempo che scorre, lo sguardo nostalgico e alla fine la ricongiunzione tra i pezzi, la serenità dell’animo. Si tratta di una specie di resa dei conti?

È veramente una chiusura del cerchio. Come debutto alla Camera Nazionale della Moda volevo raccontare ciò che mi ha portato ad essere quello che sono. Come dicevo in precedenza, da piccolo non ero a mio agio in un piccolo paesino e il bambino del video rappresenta me, mentre guardo scontento la campagna e disegno grattacieli seduto in terrazza. Si vede poi un giovane ragazzo con la città proiettata addosso, come se il peso della medesima fosse troppo difficile da sostenere per lui. Alla fine un altro ragazzo, ancora più grande, si risveglia di nuovo in campagna, più tranquillo e sereno perché ha capito ciò che veramente ama. Il cerchio si chiude perché alla fine sono tornato alle origini e il premio è stato la trasformazione della sofferenza nella mia identità, nel mio stesso cavallo di battaglia, una vera e propria rivincita. 

I tuoi abiti riescono ad essere romantici, nostalgici, innovativi, maschili e femminili allo stesso tempo. Questo tratto rispecchia la tua volontà, cioè una moda libera dalla costrizione del genere e dalle etichette?

Assolutamente sì, vorrei portare l’abbigliamento femminile nell’armadio maschile. Molto spesso mi fanno questa osservazione ma ammetto che non c’è uno studio dietro, è un tratto distintivo del mio brand, fortunatamente ancora libero dalle regole del marketing. Noto sicuramente che la donna in abbigliamento maschile risulta alla moda e grintosa mentre l’uomo dall’aspetto femminile è soggetto spesso e volentieri di sguardi indiscreti. Sono contro tutte queste etichette, non lo specifico nemmeno più di tanto perché ad oggi mi aspetto che questa tendenza vada sempre più sgretolandosi. 



Si intende che la tradizione è per te di vitale importanza nonché pilastro dello stesso brand. È corretto dire che la collaborazione duratura con l’Antica Stamperia Marchi fortifichi ancor di più il sapore “glocal” delle tue collezioni?

Assolutamente sì. Per me l’Antica Stamperia Marchi costituisce un po’ il cuore della collezione e della brand identity, trattandosi proprio del posto in cui vengono fatte le tovaglie che mi ricordano la mia famiglia. È sicuramente il luogo in cui nasce tutto, soprattutto per il rapporto che ci lega. Mi hanno supportato fin dall’inizio anche se non presentavano esperienza pregressa nel settore abbigliamento, accettando persino la sfida di stampare a capo finito, il che richiede una tecnica molto delicata e specifica. Presentano una tradizione antichissima, essendo addirittura dotati di un mangano del 1633, una specie di enorme ruota di legno che funziona da pressa per la stiratura. Amo tra l’altro i tessuti il più possibile basici per poterci poi lavorare sopra. L’artigianalità dei miei capi parte tutta da qui.



Dal debutto nel 2019 ad AltaRoma con la collezione Romagna Mia all’ultimo gioiello Corpi e Luoghi: quale sarà il prossimo passo di Federico Cina?

Parto dicendo che il 7 settembre 2020 pubblicheremo un archivio digitale dove figureranno varie collaborazioni con diversi artisti che, partendo dalla stampa romagnola e dai design dei nostri abiti, presenteranno le proprie creazioni rivisitate. 

Segue poi questo lancio il nostro e-commerce, che verrà reso ufficialmente pubblico il 14 settembre 2020 presentando una nuova collezione totalmente ready-to-wear, realizzata artigianalmente con disegno tradizionale romagnolo.

La collezione a-w 2021 calcherà le passerelle a gennaio, godendo dello sponsor di Manteco, azienda leader del settore textile. 

Finisco dicendo che c’è poi una grande collaborazione in corso che farà il suo debutto durante la settimana della moda di settembre e saremo anche presenti, più o meno nello stesso periodo, all’evento di White Milano. Insomma, tante fantastiche novità.

Moda uomo: il ritorno del panciotto, ecco come indossarlo

Il panciotto è un capo simbolo indiscusso di classicità ed eleganza. Ogni uomo dovrebbe averne uno da sfoggiare non solo nelle occasioni più eleganti, ma anche in una veste più casual e moderna.

Gilet o panciotto?

Prima di lasciare qualche consiglio di stile, è opportuno precisare la differenza tra i termini gilet e panciotto. Sebbene nel linguaggio comune spesso si utilizzi la parola più generica gilet, per indicare anche il panciotto, in realtà non denota sempre lo stesso capo di abbigliamento. Infatti con il termine gilet si indica più genericamente un capo di abbigliamento senza maniche, aperto o chiuso davanti, e di qualunque tipo di tessuto. Il panciotto, invece, è più precisamente il terzo elemento di un abito da uomo, da indossare sotto la giacca e sopra la camicia. 

Come è fatto un panciotto

Di solito i panciotti hanno una base di fodera e poi sono rivestiti sulla parte frontale, sul retro hanno una fibbia che ne regola la vestibilità sul punto vita, e presenta sempre dei bottoni frontali, che vanno da un minimo di tre ad un massimo di sei. Il numero dei bottoni è legato alla formalità del capo, dove 3 sta per un’occasione più informale, mentre 6 per una molto formale. Infine può essere monopetto o doppio petto.

Come si indossa un panciotto 

Il panciotto si indossa sotto la giacca o blazer e sopra la camicia, e come per la giacca, la regola vuole che l’ultimo bottone resti sempre aperto, per evitare che dia fastidio se si fanno determinati movimenti o se ci si siede.

Questo capo deve adattarsi alla figura e seguirne le forme per consentire comodità con la giacca, lungo abbastanza per coprire la vita sulla parte frontale, e più corto ai lati e sul retro.

 La camicia, infine, deve essere rigorosamente abbottonata fino al collo.

Come abbinare il panciotto

Se si deve abbinare all’abito le possibilità sono due: o si prende in tinta con quest’ultimo oppure in contrasto. Nel primo caso, l’effetto sarà più elegante e formale, nel secondo però, lo si metterà più in risalto.

Per quanto riguarda gli accessori, sono preferibili le bretelle alla cinta e la cravatta piuttosto che il papillon. Se amate lo stile dandy, potete azzardare a lasciare il collo libero, a patto però, che l’occasione lo consenta.

Phobia presenta la collaborazione con Russell Europe

Il marchio di streetwear e Made In Italy, amato dalle nuove generazioni, svela il nuovo co-branding con il brand di teamwear e workwear.


Lo streetwear incontra l’universo del teamwear e dà vita a una delle collaborazioni più hype del momento. Il marchio di street Phobia presenta la nuova collaborazione con il brand di workwear Russell Europe. T-shirt, felpe e pantaloni (proposte in più colorazioni), dalla silhouette oversize e minimal, si impreziosiscono dei due loghi: i fulmini multicolor e la R iconica.

I capi della collaborazione, completamente realizzati in Italia, sono già stati selezionati dal famoso duo musicale (ex concorrenti di X Factor Italia) Sierra. Gli artisti Giacomo (in arte, Sila Bower) e Massimo (in arte, Ponte), infatti, hanno indossato tutti i capi durante la registrazione del nuovo videoclip, in uscita il prossimo settembre. Da non perdere. 

Editorial : Equilibrium

In bilico nell’atemporalità delle attese e nel moto perpetuo delle oscillazioni emotive e materiche.

E’ il sabato dell’Italia al mare ritrovata, che si muove nella consapevolezza di un guardaroba ricercato che per l’Autunno/Inverno non ha pretese se non quella di essere un intramontabile investimento.

Editorial content direction, styling and production Alessia Caliendo 

Photographer Elodie Cavallaro

Video direction Andrea Colacicco 

Grooming Romina Pashollari 

Model Riccardo Urban Models 

Styling assistant Andrea Seghesio 

Sound designer Zma

Supported by Discromie

Special thanks to Bagni Pancaldi Livorno @ Eventi Italia

Primo look
Total look Canali
Boots in pelle martellata Paul Smith

Secondo look
Total look Paul Smith

Terzo look
Total look Ermenegildo Zegna

Quarto look
Cappotto e pantaloni in velluto Aspesi Camicia in popeline PS Paul Smith

Quinto look
Total look Salvatore Ferragamo

Nel video anche Missoni, Moncler Genius e Corneliani.

La Paris Fashion Week P/E 2021 alla prova del digitale, tra lookbook, video e short movie

La prima edizione digitale della fashion week maschile di Parigi, svoltasi fino allo scorso lunedì e dedicata alla primavera/estate 2021, ha visto la gran parte dei nomi in calendario cimentarsi col format video, che si trattasse di un’appendice dinamica alla staticità dei lookbook, di rappresentazione altra dei mood e riferimenti di turno o, ancora, di mise en scène con tutti i crismi del cinema. 

Phlegethon, per cominciare, è il titolo dell’ultima collezione firmata Rick Owens, svelata attraverso un filmato in cui le immagini scorrono sulla schermata divisa a metà, come fossero riprese da una telecamera di sicurezza, alternando B/N e colore. Lo stilista vi condensa la sua estetica abrasiva, interpretata non casualmente dal modello-feticcio Tyrone Dylan Susman, chiamato a indossare capi scultorei dall’alto grado di teatralità, ulteriormente accentuata dalle spalle spigolose. Le proporzioni rivelano uno stridore – apparente – tra giacche fittate e pantaloni aderenti dal cavallo basso, o tra le forme smilze del sopra e quelle fluide del sotto. I contrasti permeano del resto gran parte delle mise, una rassegna di top dai lievi drappeggi, canotte sbrindellate, maglie stretch e blazer dilungati, abbinati a bermuda con elastico, cargo pants o modelli più affusolati. Owens, inoltre, insiste nel sovvertire i cliché del menswear proponendo, ad esempio, stivali dal platform imponente (anche nella variante “estrema” del cuissard), sneakers in rosa bubblegum e scollature profonde.

Isabel Marant si attiene a quello stile boho chic con cui è diventata uno dei brand di maggior successo del ready-to-wear femminile, traslato con i dovuti accorgimenti nel guardaroba pour homme: ecco allora spolverini, windbreaker, tute morbide su pantaloni risvoltati a gamba dritta. A movimentare le superfici di magliette, camicie e pull provvedono righe, quadretti e colorazioni dégradé, oppure vivaci motivi ikat. La palette alterna i toni polverosi del celeste, ecru e kaki alle nuance vibranti di magenta, bluette e verde menta, sprazzi di colore per aggiungere un twist alla generale rilassatezza degli outfit, evidenziata da accessori quali bucket hat, cinture in corda e sandali con listini.

Suggerisce un’ideale fuga dalle restrizioni di questo periodo la proposta di Davi Paris, cui fanno da sfondo scogliere ventose e prati in fiore, dove ritirarsi magari negli ultimi, malinconici giorni d’estate. I fiori, d’altro canto, hanno grande importanza anche per i look in sé, perché irrompono sulle texture sotto forma di ricami, disegni acquerellati o motivi tapestry a tutta grandezza, arricchendo blouson, golf e camicie generosamente sbottonate, come pure pantaloni svasati high-waisted e shorts con la piega. Anche gli accessori – cappelli da pescatore o in paglia, foulard vezzosi, calzature aperte, trainers – favoriscono l’impressione della gita in un paesaggio idilliaco, di cui godere in abiti che accarezzano il corpo, senza trascurare eleganza e armonia dell’insieme. 

Louis Vuitton inaugura invece un itinerario, sia fisico sia digitale, diviso in più tappe, la prima delle quali – Message in a bottle – è stata rivelata nei giorni scorsi: un ibrido di film e cartoon, in cui tra scorci di Parigi e coloratissimi personaggi immaginari, spuntano ovunque gli emblemi della maison, dal Monogram al Damier black&white. Per gli oufit veri e propri, bisognerà aspettare i prossimi due step, previsti a Shanghai e Tokyo nei mesi a venire.

Yosuke Aizawa, direttore creativo di White Mountaineering, racchiude in un video le suggestioni tech per le quali il brand è conosciuto (e apprezzato). Gli abiti prendono letteralmente vita dai cartamodelli, sollevandosi dalle sagome disegnate sul foglio e andando a comporre gli ensemble degli indossatori; si susseguono capi multi-tasche con zip più o meno decorative, trapuntature ed elastici, a rimarcare l’indole utilitarian della linea, sottolineato anche dal ricorso al layering per cui overshirt, gilet, felpe e giubbotti in diverse lunghezze e consistenze possono essere sovrapposti. Membrane Gore-Tex, pannelli a contrasto e sneakers traforate aggiungono un’ulteriore nota di funzionalità.

Il designer Bruno Sialelli rende in poco più di un minuto lo spirito escapista, quasi onirico, sotteso alle sue creazioni per Lanvin, aiutato anche dalla spettacolarità dell’ambientazione, il Palais Idéal du facteur Cheval, “castello” naïf nel sud della Francia. Dagli scatti dei look, passati in rassegna solo parzialmente nel video, si coglie un flair anni ’70, tra ponchos, inserti animalier, bluse variopinte, polo in maglia, soprabiti doppiopetto e pantaloni fluidi a vita alta, in una tavolozza tenue ravvivata da flash di cobalto, ocra, rosso e blu navy.

Thom Browne, da ultimo, si ispira alle Olimpiadi nel filmare l’esecuzione, da parte del cantautore Moses Sumney, di una rivisitazione dell’inno originale dei Giochi, ponendo l’accento sulla fisicità, monumentale appunto, del protagonista, un adone contemporaneo issato, non solo idealmente, sul podio. Per quanto riguarda capi o accessori, nei frame compaiono unicamente delle cuffie, frutto di una collaborazione con Beats by Dr. Dre, e una lunga gonna di sequin attraversata dalla caratteristica banda tricolore di Browne, a certificare la propensione al gender fluid iscritta nel dna della griffe; una scelta che testimonia di come, a differenza delle sfilate più o meno virtuali, l’espressione dei valori fondanti di un marchio non conosca ostacoli né pause, specialmente in tempi come questi. 

Kinloch: Tanzania Trip

Kinloch è un brand fondato nel 2013 da Davide Mongelli che, grazie alla collaborazione con Francesco Fantoccoli, designer della collezione, capta l’esistenza di una via diversa, nuova e più libera per valorizzare il potenziale, riconosciuto e amato nel mondo, dell’eccellenza artigianale italiana. 

Da allora, il brand ha saputo velocemente riconoscere il suo pubblico di riferimento e si è affermato soprattutto in Giappone, che prima e più di altri Paesi ha saputo cogliere il messaggio di Kinloch. Successivamente si è espanso conquistando di stagione in stagione sia l’Europa sia gli USA.

Guardano al prossimo autunno inverno 2020 le sete Kinloch si popolano di nuovi colori, di suggestive immagini catturate dalla natura selvaggia e dai tramonti rosso fuoco della Tanzania. Fra le rappresentazioni sulle stampe troviamo le cerimonie delle tribù Maasai in un alternarsi di cornici zebrate o orizzonti leopardati. 

Foulards, stole, cravatte e pochettes colgono le scene ed i dettagli di questo paese e le luminose sete ne fanno risplendere ogni dettaglio: si declinano i tartan, e le fantasie geometriche tipiche, in ogni loro dettaglio e sfumatura, fino a fonderli in un unico patchwork. Altri protagonisti di questo viaggio sono gli animali e tutto il mondo animalier, presi in primo piano, sfumati, o inseriti come cornice. Oltre alla seta, le sciarpe vengono realizzate in lana o cachemire, creando un accessorio assolutamente unico. Inoltre, per la prossima stagione le stampe ampliano la collezione abbigliamento Uomo con camicie in seta e cotone.

Ultima novità è l’itinerario su misura, esclusiva assoluta nel mondo del carrè: con un semplice click nell’e-shop si può diventare designer del proprio foulard, decidendone texture, sfondo e bordo, con l’opzione aggiuntiva per ricevere il foulard cucito a mano o a macchina e scegliere la fantasia preferita. Anche le t-shirt, recente inserimento nel mondo Kinloch, possono essere personalizzate con una delle fantasie ed uno dei modelli Woman o Unisex con scollo tondo o a V.

Dietro le quinte della prima digital fashion week italiana: Caterina Ercoli

Gli stakeholder del Made in Italy raccontano il proprio approccio alla digitalizzazione della Settimana della moda  

Production Alessia Caliendo
Interview Francesco Vavallo

Ph Matteo Galvanone

Caterina Ercoli, buyer presso Antonioli, luxury boutique e punto di riferimento degli amanti dello shopping, dopo aver conseguito studi economici, si specializza nello studio del prodotto diventando una delle buyer italiane più conosciute.

Quali sono le strategie digital utilizzate ai fini del buying durante le attuali campagne vendita?


L’approccio è sicuramente cambiato, attuiamo una strategia di acquisizione più che di ricerca, di brand.
Noi buyer siamo diventati dei semplici spettatori della moda. Non c’è più possibilità di avere un confronto o di poter esprimere il nostro punto di vista sulla collezione interfacciandomi con i nostri colleghi del popolo della moda. Le campagne vendita sono sicuramente cambiate, se in positivo non so. 

Pensi che tale rivoluzione digitale, che ha reso la presentazione delle collezioni assolutamente mainstream, esplorando e promuovendo nuovi linguaggi visivi degni del più rivoluzionario film festival, possa segnare la fine degli eventi fisici

Spero vivamente di no. Gli eventi sono molto importanti nel nostro settore, come detto prima, danno la possibilità di interfacciarsi con diverse realtà e con gli addetti ai lavori.

Quanto è cambiato il tuo mindset professionale Post Covid? 

Sicuramente sto viaggiando molto meno e mi avvalgo dei supporti digitali per continuare il mio lavoro di buying. Potrei dire che ne stiamo giovando tutti sotto l’aspetto lifestyle e spero che questa metodologia venga utilizzata anche nelle prossime pre-collezioni. Riguardo lo smart-working non credo possa che possa diventare “la normale prassi”, abbiamo bisogno di fisicità e di poter toccare il prodotto. 

Quale sarà la nuova visione dell’uomo post-pandemia?

Dopo questi ultimi digital-show ho notato dei look sempre più sobri e basati sul daily-wear, ma devo dire che anche il lounge-wear sta avendo il suo spazio. Credo in ogni caso che l’impossibilità di spostarsi e viaggiare in maniera libera e sicura abbia condizionato o che comunque condizionerà la creatività dei designer.

Se dovessi fare proiezioni per la prossima stagione quale sarebbe lo scenario in termini di comunicazione e vendita del prodotto?

Credo che tutto sarà più digitale che fisico. I negozi sono fortemente penalizzati ma i canali on-line stanno reagendo in maniera positiva e sono in crescita. Gli eventi moda ai fini della comunicazione del prodotto saranno esclusivi e per gli addetti ai lavori. 

Dietro le quinte della prima digital fashion week italiana: Serdar Uzuntas

Gli stakeholder del Made in Italy raccontano il proprio approccio alla digitalizzazione della Settimana della moda  

Production & interview Alessia Caliendo

Ph Matteo Galvanone

Serdar Uzuntas, designer originario della città di Izmir, a seguito degli studi presso la Central Saint Martins di Londra ha lavorato alla creatività di alcuni marchi a Istanbul, ma è già dalla sua prima collezione che il suo eponimo marchio menswear viene selezionato e presentato a Pitti uomo e, a seguito, durante la Milano Fashion Week.

Parlaci del progetto visivo ideato per la prima Digital Fashion week Made in Italy e quali sono state le fasi di produzione.

Il messaggio del prodotto visivo realizzato trasmette un senso di pace e consapevolezza. Vale a dire che, nonostante tutto, siamo sopravvissuti e stiamo bene.  E’ la profonda positività a contraddistinguerlo come la felicità che esplode in ogni forma d’arte. Mi sento di invitare tutti a danzare con ottimismo senza rimpiangere la mancata presenza delle presentazioni e degli show.

Pensi che tale rivoluzione digitale , che ha reso la presentazione delle collezioni assolutamente mainstream, esplorando e promuovendo nuovi linguaggi visivi degni del più rivoluzionario film festival, possa segnare la fine degli eventi fisici

Gli eventi fisici si fonderanno con quelli digitali.  In questo momento però è davvero importante pensare alla tutela della nostra salute quindi ben venga l’utilizzo delle piattaforme digitali per promuovere il prodotto moda.

Quanto è cambiato il tuo mindset professionale Post Covid? 

La vita è una sola e dobbiamo avere cura di noi stessi. Il mio mindset creativo è stato pervaso dalla gioia di circondarsi dalla bellezza della ricerca. Il momento di progettazione è stato focalizzato sul creare una collezione semplificata al massimo, confortevole e sostenibile. 

Come ha reagito la tua vena creativa nell’immaginare un uomo post pandemico?

E’ un uomo che ama il lifestyle ed ha un approccio cosmopolita.

Il viaggio è nelle sue vene e la palette cromatica rispecchia tutti i luoghi che ho personalmente vissuto girando per il mondo.

Se dovessi fare proiezioni per la prossima stagione quale sarebbe lo scenario in termini di comunicazione e vendita del prodotto?

La tecnologia sarà più forte che mai e condizionerà il nostro lavoro nel bene o nel male. Ho una visione alquanto fantascientifica del prossimo futuro e, da amante del genere, non vedo l’ora che ciò accada.

Dietro le quinte della prima digital fashion week italiana: Les Hommes

Gli stakeholder del Made in Italy raccontano il proprio approccio alla digitalizzazione della Settimana della moda  

Production & interview Alessia Caliendo

Ph Matteo Galvanone

Il duo di stilisti belgi Tom Notte e Bart Vandebosch sin dal loro primo incontro alla Royal Academy of Fine Arts di Anversa hanno formato un duo inseparabile nel segno del luxury menswear. La loro visione della moda ha portato Les Hommes ad essere uno dei marchi di abbigliamento maschile più apprezzati per originalità, più volte protagonista della settimana della moda maschile di Milano.

Parlateci del progetto visivo ideato per la prima Digital Fashion week Made in Italy e quali sono state le fasi di produzione.

Il progetto visivo presentato durante la Digital Fashion Week è simile all’iconicità e alla storicità dei video clip musicali di MTV. In qualche intenso minuto abbiamo dovuto raccontare i look e l’essenza della stagione nel rispetto del nostro DNA.

Pensate che tale rivoluzione digitale , che ha reso la presentazione delle collezioni assolutamente mainstream, esplorando e promuovendo nuovi linguaggi visivi degni del più rivoluzionario film festival, possa segnare la fine degli eventi fisici

Siamo nel pieno di un’evoluzione, tutto va estremamente veloce. Possiamo produrre video al massimo dell’espressione creativa ma gli show non saranno assolutamente valicati dalla digitalizzazione degli eventi. Adesso, però, abbiamo la possibilità di scegliere ed esprimerci in un altro modo. Una stagione  si può optare per la presentazione digitale, un’altra per lo show. 

Quanto è cambiato il vostro mindset professionale Post Covid?

Il mindset creativo non è realmente cambiato e l’essenza è rimasta la stessa. Forse abbiamo un maggior senso di realismo, abbiamo eliminato il superfluo e siamo tornati all’essenza pura del brand. Tutto ciò che è derivato dal lockdown è estremamente positivo e sostenibile.

Come ha reagito la vostra vena creativa nell’immaginare un uomo post pandemico?

Il nostro uomo è diventato più consapevole e ancora più strong, riflette sul valore della vita e su quello della collettività.

Se doveste fare proiezioni per la prossima stagione quale sarebbe lo scenario in termini di comunicazione e vendita del prodotto?

Le piattaforme digitali diventeranno sempre più influenti e molte sono state scoperte proprio durante il lockdown. Tante persone non effettuavano ancora acquisti online e ciò ha cambiato profondamente anche il business delle stesse. L’esperienza fisica però non verrà surclassata in quanto l’emozionalità di toccare un capo e carpirne il suo shape resteranno fondamentali ai fini della vendita e della comunicazione.